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Diego Marcon e il paradigma di Ludwig

Stefano Pirovano

Diego Marcon è tra i tre finalisti dell’edizione 2018 del MAXXI Bulgari Prize. Il vincitore verrà annunciato il prossimo ottobre. Nel frattempo Ludwig continuerà ad accendere i suoi fiammiferi, e il nostro pensiero.

La video animazione con la quale Diego Marcon concorre all’edizione 2018 del MAXXI Bulgari Prize, attualmente il più importante premio d’arte contemporanea italiano insieme al Max Mart Art Prize for Women, c’è un bambino seduto su una cassa, all’interno della stiva completamente buia di una nave in balia della tempesta. Fuori ci sono lampi e tuoni; dentro è buio pesto. Ma invece che esser spaventato, il bambino si cura della sua condizione esistenziale. Accende un fiammifero (che a qualcuno potrebbe far venire in mente certi notturni manieristi, da Gherardo delle Notti a Correggio) e canta un’aria nella quale si dice depresso al punto che vorrebbe ‘tirar le cuoia’ – espressione efficacie proprio perché troppo adulta per un bambino (il testo è stato scritto da Marcon stesso, la musica è di Federico Chiari). Quindi la vera tempesta è dentro di lui. Il lied non finisce, perché consumandosi il fiammifero gli scotta le dita. Allora l’eroe neo-romantico, che non a caso si chiama Ludwig, accende un nuovo fiammifero e ricomincia a cantare il brano dall’inizio, innescando in questo modo un eterno ritorno al momento in cui il fiammifero lo scotta ancora, e lui ne accende un altro, e il loop ricomincia. Come le altre opere eseguite da Diego Marcon negli ultimi tempi, ovvero il fortunatissimo Monelle, girato nell’ex casa del Fascio di Como, e Il Malatino (entrambe del 2017), anche Ludwig riflette uno scenario psicologico delicatamente sospeso tra autobiografia e collettività. Da una parte c’è l’artista, sismografo delle energie che scuotono il mondo in cui vive e il suo tempo. Dall’altra c’è un’intera generazione alle prese con le grandi trappole della vita e suoi loghi oscuri.

Forse non tutti sanno che sei un fan della Federica Pellegrini. Oltretutto, il nuoto non è il tipo di sport che infiamma le folle. È piuttosto fatica e disciplina. Cosa ti colpisce di lei?

Diego Marcon: Mi colpiscono il grande sforzo e l’impegno finalizzati a un gesto che si risolve in pochi istanti. Ricordo la gara delle Olimpiadi di Pechino e il suo recupero finale; è stato meraviglioso. C’è differenza, per esempio, tra lei e un idolo del motociclismo come Valentino Rossi.

Il rischio non ti interessa quindi?

Diego Marcon: Ricordo il giorno dell’incidente in cui perse la vita Ayrton Senna. Ero bambino, i miei genitori mi avevano portato in un maneggio per andare sul cavallo – ‘sul’, come si dice ai bambini. Poco dopo esser montato in groppa mi si gonfiarono gli occhi così tanto che mi si dovette portare all’ospedale. Lì mi misero una benda che avrei dovuto tenere per alcuni giorni. La sera, a casa, ricordo l’audio del telegiornale, mentre stavamo cenando, che raccontava dell’incidente. Sentivo il racconto del cronista e il suono dei motori; ma non potevo vedere le immagini.

Hai altre allergie?

Diego Marcon: Sono molto allergico ai gatti. Mia madre ne ha sette. Quando vado a trovarla non posso trattenermi da lei più di qualche ora, altrimenti mi deve fare un’iniezione di cortisone.

Fai sport?

Diego Marcon: No, non ne ho mai fatto molto. Giocavo nella squadra di calcio dell’oratorio quando ero piccolo, come tanti credo. Ma qualche anno fa, quando vivevo in provincia, a Cuggiono – in una casa che un amico non riusciva a vendere e che perciò generosamente mi lasciava abitare – per un periodo sono andato a nuotare alla piscina comunale lì vicino.

Sei di quelli che contano le vasche, oppure nuotano a tempo?

Diego Marcon: Contavo le vasche.

Poi hai smesso?

Diego Marcon: Ora sto a Milano e non troppo distante da dove vivo c’è una piscina. Da almeno un anno mi riprometto di comprare un carnet di ingressi; ma non l’ho ancora fatto.

Ogni cambiamento di stato prevede l’applicazione di una forza.

Diego Marcon: Sì, forse. Ricordo una frase dello psicanalista che ho frequentato per un certo periodo. C’era un accordo fra di noi. Non potevo permettermi l’analisi, allora si era stabilito che nel momento in cui avessi pensato che quanto stava facendo per me valesse una mia opera, allora gliene avrei data una – il dottore si preoccupò anche di specificare che il valore non doveva essere di tipo economico. Insomma, mi diceva che se non ottieni qualcosa, o se non si fa una certa cosa, è perché non la desideri veramente. Diceva anche che se vivi nella miseria è perché in qualche modo desideri miseria. E allora la domanda da chiedersi è, perché si desidera miseria? Evidentemente non desidero così tanto andare in piscina.

Anche Richard Thaler, economista, ricorda di come Daniel Kahnemann, il suo maestro, elogiasse la sua pigrizia. Gli diceva che, dopotutto, è semplicemente il modo in cui il cervello seleziona cosa davvero è importante fare, per non sprecare fatica. Hanno entrambi vinto un Nobel.

Diego Marcon: Il sonno, l’ozio, la pigrizia, la noia, mi interessano molto, a partire dal loro aspetto formale. Un corpo abbandonato su una poltrona è più affascinante di uno che manovra un muletto. In qualche modo le forze di resistenza all’attività produttiva mi hanno incuriosito fin da quando ero adolescente, e molto vicino al punk. O meglio, alla declinazione del punk in ambiente rave.

Il punk ha continuato a funzionare?

Diego Marcon: Sì, il punk è un’attitudine e per me continua a funzionare. Anche se ora vivo in maniera piuttosto strutturata e regolare. Di mattina solitamente sono di buon umore e lavoro meglio. Dalle due di pomeriggio fino alle cinque invece divento piuttosto malinconico. È un momento della giornata in cui fatico a dedicarmi a qualsiasi cosa. Sono ore in cui quasi niente mi da piacere. Poi però, dopo le cinque, quando fuori sento le strade rianimarsi e la gente del quartiere rientrare dai propri impieghi, allora mi torna la voglia di fare. Anche il sabato e la domenica mi sveglio molto presto, e sono forse i miei giorni preferiti in cui lavorare. Il sabato di più in verità, perché la domenica pure torno a essere piuttosto malinconico.

Quanti anni hai?

Diego Marcon: Trentatré. È tardi per morire come una stella del rock.

L’arte è un lavoro?

Diego Marcon: Mio padre dice che si può chiamare lavoro solo se guadagni.

Probabilmente tuo padre ha ragione. Però poi ci sono lavori in cui non ti pagano con scadenza regolare. In arte quello che fai adesso può esserti riconosciuto anche un futuro molto lontano, giusto? Direbbe tuo padre che Van Gogh non ha lavorato nella sua vita?

Diego Marcon: Vero, certo. Eppure ultimamente passo giornate a fare lavoro d’ufficio, che di fatto è il semplice coordinamento tra le varie parti dei progetti…

Che rapporto hai con il collezionismo?

Diego Marcon: Non conosco molti collezionisti, ma la figura del collezionista mi incuriosisce molto. Penso a un amico di Genova che oltre all’arte colleziona anche molte altre cose, come gadget di compagnie aeree e merendine, oggetti di design, pupazzetti, oppure pacchetti di sigarette. Le sue sono tutte collezioni monche, perché capita che si infiammi per qualcosa e allora investe tutta la sua energia nella ricerca di quegli oggetti specifici; ma dopo un po’ si stanca e inizia con qualcosa di nuovo. Le sue, di fatto, sono tutte collezioni abortite, manchevoli, in qualche modo tristi. Riguardo all’arte, mi piace l’idea di un collezionismo che nel prendersi cura del lavoro di un artista diventa parte del processo creativo.

Collezioni?

Diego Marcon: No, e non ho mai provato il desiderio di possedere opere d’arte. Mi piacciono i libri.

Puoi fare qualche esempio?

Diego Marcon: Mi piace molto il teatro di Thomas Bernhard, pubblicato anni fa in Italia da Ubulibri e oggi riedito da Einaudi, insieme a Ubulibri stessa. Le edizioni Ubu, identiche nei testi a quelle Einaudi, le preferisco a queste nuove. Così le ho raccolte quasi tutte – che poi sono poche, cinque volumi e un libercolo.

Pensi per immagini o per messaggi?

Diego Marcon: Penso per immagini, anche se spesso mi danno la nausea. Molti dei miei lavori recenti nascono dal rigetto delle immagini e delle loro gerarchie.

È quello che più ti interessa ora?

Diego Marcon: Fino al 2014 il soggetto dei miei video e la forma che i lavori prendevano erano strettamente connesse, per portare avanti una riflessione metalinguistica sul medium stesso. Per esempio, salut! hallo! hello! (2010), girato in una tipografia che stampa cartoline turistiche, cerca attraverso delle riprese cliniche, analitiche e fredde sul processo di produzione di registrare il momento in cui l’oggetto-cartolina diventa l’immagine-cartolina, ovvero un frammento visivo capace di cristallizzare un immaginario collettivo molto forte. Il lavoro fallisce l’intento, ma proprio in questo spazio si apre ad altro. Da carattere spassionatamente documentario il video lentamente diventa una composizione ritmica e astratta sugli elementi stessi che compongono l’immagine. Oppure, in Litania (2011), girato a Medjugorje, la videocamera segue i pellegrini in diversi punti di preghiera e ha come struttura temporale una giornata solare. Man mano che il video si avvicina al momento dell’apparizione, il video stesso perde la vista. L’immagine diventa completamente buia e niente è più visibile. A questo punto della mia produzione non c’è più stato un soggetto che per me fosse più importante di un altro, o gerarchia fra diversi soggetti. Ma in qualche modo il processo di produzione dell’immagine ha preso il ruolo centrale nel mio lavoro.

E ora?

Diego Marcon: Per ora non riesco più a pensare a un video, o a un film, tenuto insieme dal montaggio, con riprese montate in maniera consequenziale. Nonostante ciò il cinema continua a essere per me una disciplina stimolante, non solo per gli innumerevoli archetipi dei suoi generi, ma anche nella sua componente sentimentale. Molti video d’arte potrebbero trasformarsi in campagne pubblicitarie con la semplice aggiunta di un logo. Il che non è un problema in sé, ma per me è importante che il mio lavoro venga anche letto nella tradizione del cinema sperimentale.

February 3, 2022