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A Dak’Art è il momento dell’Ora Rossa

Jasmina Trifoni

Pochi collezionisti hanno preso parte all’inaugurazione della tredicesima edizione della Biennale di Dakar (Dak’Art). Ma c’era Art Basel, in compagnia di qualche esperto cercatore di funghi…

 

Giovedì scorso, al Grand Theatre di Dakar, si è tenuta l’inaugurazione ufficiale della 13ma edizione di Dak’Art, la mamma di tutte le biennali del continente africano. Circondato da guardie avvolte in mantelli rossi, star della celebrazione è stata il presidente senegalese Macky Sall che, dopo l’altisonante discorso di rito, ha ceduto la parola a Simon Njami, per la seconda volta direttore artistico della manifestazione. Con understatement forse soltanto apparente, quest’ultimo ha incantato il pubblico esponendo il sanguigno tema della Biennale, L’Heure Rouge (L’Ora Rossa), preso da un’espressione contenuta in una piéce degli anni Sessanta dello scrittore, poeta surrealista e attivista politico martinicano Aimé Césaire, che fu il profeta della Negritude. Oltre che di creazione contemporanea, l’Ora rossa di Njami mette l’accento sulla necessità e l’urgenza di vera emancipazione, libertà e responsabilità che l’Africa deve prendersi, qui e ora. Per una ‘Nuova umanità’ – questo il sottotitolo dell’edizione 2018 – Njami intende  invece ‘istante decisivo’ che il fotografo Henri Cartier-Bresson indicava come quello necessario alla riuscita di un’immagine che volesse rappresentare una cerniera tra presente e futuro.

In principio l’Ora rossa (anzi, quasi due) è stata quella che ha colorato la pelle dei numerosi visitatori bianchi in attesa di entrare nei padiglioni dedicati all’arte del Senegal, della Tunisia e del Rwanda – i paesi invitati dallo Stato come ospiti d’onore –, dopo la visita blindata del presidente e dei suoi alti papaveri. Parcheggiati sotto il sole cocente, e intrattenuti dai tam-tam e dalle danze dei supporter della nazionale senegalese che prenderà parte ai prossimi Mondiali di calcio in Russia, tutti sono rimasti poi un po’ delusi, per usare un eufemismo, nell’entrare nel (discreto) spazio proposto dalla Tunisia, o in quello (appena passabile) della nazione ospitante. E non è andata meglio in quello ruandese, addirittura commovente per l’ingenuità dell’arte esposta, qui usata come pretesto per una pubblicità da ufficio del turismo di un paese riconciliato e ottimista dopo il genocidio dei Tutsi.

Invece, la vera Biennale è quella dello straordinario Njami, che ha aperto le porte lo stesso pomeriggio nello scenario meravigliosamente surreale dell’Ancient Palais de Justice, un edificio degli anni Sessanta cadente e abitualmente popolato di squatter, ora sede principale della manifestazione. Fino al prossimo 2 giugno – e insieme ad altre cinque e altrettanto fascinose sedi denominate ‘IN’, con altrettanti curatori invitati – Dal’Art espone i lavori di 75 artisti provenienti da 33 paesi di tre continenti. Nonostante la calma olimpica di Njami, il senso di urgenza è stato evidente: gli operai con i loro attrezzi sono usciti dal palazzo in contemporanea con l’ingresso dei visitatori, accolti da quegli artisti in lacrime che hanno avuto la malaugurata idea di proporre opere video, funzionanti a singhiozzo a causa del sovraccarico di energia elettrica.

Sia come sia, ciò che è apparso evidente dalla selezione di lavori, da quelli di artisti già storicizzati come El Anatsui e Kara Walker, a quelli degli artisti emergenti, è stato soprattutto l’affrancamento dal marchio riduttivo di ‘arte africana’. L’attenzione del pubblico è stata catturata dalla poetica istallazione La Casa Roja de Caronte del dominicano Marcos Lora Reid, con una barca e una casa fluttuanti nell’aria, posta in un cortile del palazzo, e in felice dialogo con le trenta bandiere dell’opera ‘Only the dreamers leave’ del giovane egiziano Ibrahim Ahmed. E sul tema dell’andare o del restare ha colpito la serie di fotografie ‘alate’ dell’artista e foto-giornalista franco-beninese Laeila Adjovi, vincitrice del Grand Prix Léopold Sedar-Senghor. Di grande impatto anche le installazioni della nigeriana Ndidi Dike – che riflette sul post-colonialismo e sul controllo delle risorse naturali del continente, tra tradizione locale e consumismo globale -, e ‘Wasted time’, opera dedicata alla natura effimera della vita e del tempo della cubana Glenda Léon. Non mancano opere più gioiose, come ‘Rollig red’, pannello composto di unghie finte, viste come un’estensione del corpo in dialogo con le figure umane realizzate con blister di medicinali del congolese Paul Alden Mvoutokoulou, prefigurazione ottimistica di cure accessibili a tutti gli africani.

Accanto alle sedi ‘IN’ – e tra queste la più interessante è negli spazi dell’IFAN, il Museo etnografico, dove spicca una straordinaria installazione della superstar Ibrahim Mahama – Dak’Art offre un programma con 250 sedi ‘off’. Vederle tutte è un’impresa titanica. Ma non si può mancare ‘A book is my hope’, monumentale installazione alla Librairie Quatre Vents con cui un artista globalmente apprezzato come il camerunese Barthélémy Toguo ha messo in relazione Fahreneit 451 con il disperato tentativo di salvare la biblioteca di Timbuktu dai fondamentalisti islamici. E, dall’altro lato, sono efficaci nella loro semplicità anche i progetti creati in modo spontaneo dalla gente delle varie municipalità della capitale senegalese.

Quanto al pubblico, bisogna ammettere che di collezionisti se ne sono visti pochi (colpa della coincidenza con Frieze New York?), anche se hanno timbrato il cartellino molti art advisor – come il piccolo esercito mandato dal super-collezionista Sindika Dokolo, che nel 2019 inaugurerà il suo museo di arte africana a Lisbona – e curatori da ogni dove. Da segnalare, però, una presenza estremamente significativa: Ralph Rugoff, direttore della prossima Biennale di Venezia. Altrettanto notevole è stata la presenza ufficiale di Art Basel, che per la prima volta ha ospitato, alla vigilia dell’inaugurazione, una cena in onore di Simon Njami con tutti i vip presenti nel suo carnet, tra galleristi, artisti e (di nuovo pochi) collezionisti. «Soltanto due anni fa, questo sarebbe stato improponibile» spiega Marina Mottin, che di Art Basel cura le vip relations per l’Africa. «Ora, invece, anche in seguito alla nascita dei musei Zeitz Mocaa a Cape Town e del Macaal a Marrakech, è arrivata l’Ora r ossa per un mercato africano maturo ed estremamente competente».

Nonostante la dichiarazione shock fatta quasi in concomitanza con l’inaugurazione di Dak’Art dal presidente francese Macron riguardo alla restituzione delle opere d’arte tradizionale africana sottratte dalla Francia in epoca coloniale, appare invece ancora lontana l’Ora Rossa in cui tutto questo possa diventare una realtà. La burocrazia farraginosa e i fondi aleatori dell’apparato statale senegalese che ha supportato la Biennale hanno reso l’organizzazione un fiasco, come ha espresso senza peli sulla lingua Bonaventure Soh Bejeng Ndikung, curatore della sezione all’IFAN. E questa esperienza non fa ben sperare in un’adeguata risposta degli Stati africani riguardo alle opere che, chissà come e quando, verranno restituite. Anche Simon Njami ha liquidato l’affermazione di Macron come “pura follia”.

June 22, 2021