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Boris Vervoordt e il futuro del passato-presente (un’intervista)

Stefano Pirovano

Abbiamo visitato Kanaal, il nuovo villaggio urbano di Axel Vervoordt, che dopo quasi vent’anni di lavoro è oggi completamente operativo. Il luogo ci ha stupito, così abbiamo chiesto a suo figlio Boris come evolverà, e in quale contesto.

 

 

 

Kanaal ha cominciato a rivivere qualche mese fa. Prima l’Albert Malthouse, questo il nome originale, era il più grande impianto per la traformazione del malto in birra nella provincia di Anversa (55.000 mq). Ora è un ibrido nato dalla integrazione (entanglement) tra arte, architettura, design. Axel Vervoord ha acquisito l’intera area nel 1998. Con l’aiuto di un pool di architetti (Bogdan & Van Broeck, Coussée & Goris e Stéphane Beel) e della sua famiglia l’ha pian piano traformata in sorta di museo abitabile in cui, forse per la prima volta al mondo dopo lo sfortunato caso di Gibellina e l’incompiuta Comunità Esistenziale di Arcevia, l’arte e gli artisti sono il cuore pulsante di una struttura residenziale, con un centinaio di appartamenti, pensata per accogliere abitanti reali (non turisti, anche perché qui siamo a due passi da Anversa). Assi portanti di questo microcosmo che porta l’idea di museo oltre i confini noti sin ora sono dunque le sale della Axel & May Vervoordt Foundation – i cui muri sono dipinti con la lava, che è più naturale anche delle vernici più ecologiche e ha un profumo delizioso; la piccola cappella, che contine un’opera di James Turrell (The red shift, 1995); una cisterna internamente occupata da una monumentale cupola metallica di Anish Kapoor (At the Edge of the World, 1998). Intorno a questi assi ci sono gli edifici abitativi, gli uffici della struttura professionale dei Vervoordt, i laboratori artigianali, il centro di restauro, le gallerie per le mostre temporanee, e il supermercato più avanzato e ben fornito che riusciate a immaginare. L’altro riferimento possibile sarebbe Paolo Soleri, con la sua Arcosanti, in Arizona. Ma quella era la visione di un architetto ideologo oggi ultranovantenne, mentre questo è il sogno di un collezionista mercante, Axel vervoordt, che di Soleri è vent’anni più giovane. E per capire in che fase siamo del sogno abbiamo chiesto a suo figlio Boris, che ha il compito di portare Kanaal e la sofisticata struttura di pensiero di cui è espressione nel futuro.

A pochi mesi dall’apertura di Kanaal, quale considerazioni si possono fare?

Ciò che troviamo davvero interessante al momento è l’interazione che Kanaal sta creando con il pubblico locale. Ci sono state visite di persone che non vedevamo da molto tempo, persone non coinvolte con l’arte. Vengono qui per l’esperienza. Il pubblico è molto più vario; ci sono giovani e meno giovani, alcuni interessati all’arte, altri semplicemente vogliono vedere questo luogo. Spostandosi qui, anche la piattaforma per gli artisti si è ampliata .E, confesso, è bello vedere che in così poco tempo Kanaal è già riuscito a ritagliarsi un proprio ruolo nella comunità locale.

A vederlo da fuori Kanaal sembra soprattutto una grande struttura di pensiero, che va raccontata. Quanto pesamo comunicazione e didattica?

Negli ultimi anno sembra che le gallerie stiano assumendo quel ruolo educativo che un tempo era dei musei. Ma che ultimamente, sopratutto nell’Europa Occidentale, questi fanno sempre più fatica a operare, almeno su scale minori. Per questo è molto importante che le gallerie siano presenti per gli artisti e per fare mostre che siano istruttive, interattive e dalle quali le persone possano apprendere. Stanno cercando di abbattere le barriere per creare delle esperienze sempre più accessibili al pubblico. Si guardi per esempio ciò che Hauser & Wirth sta facendo a Los Angeles e in Somerset (UK).

Dove si trova, dunque, questo sapere?

E’ qualcosa a cui devi continuamente lavorare, non c’è mai una fine. La cultura artistica è una passione della vita. O ce l’hai, o non ce l’hai. E se ce l’hai, allora vorrai continuare a imparare per il resto dei tuoi giorni.

Dopo lo straordinario ciclo di Palazzo Fortuny, avete qualche progetto per la Biennale di Veneziacdel 2019?

Abbiamo dei piani che spero di materializzeranno a breve, ma non a Palazzo Fortuny, anche se il legame che ci lega è ormai davvero molto forte. Quando abbiamo iniziato a collaborare dieci anni fa il palazzo era in condizioni disagiate. Alcune stanze non erano nemmeno accessibili. Lavorando insieme siamo riusciti a creare il museo voluto da Mariano Fortuny, che era l’obiettivo ultimo del nostro lavoro.

L’arte contemporanea gode di buona salute al momento?

Direi che si trova in una forma molto bizzarra. Ci sono tante cose che stanno succedendo, su diversi piani. Si guardi per esempio il mondo delle fiere, che stanno cercando sempre più di diventare come delle gallerie. E’ anche vero, e forse più interessante, l’opposto. Vale a dire un ritorno alle gallerie, per viverne l’esperienza e per vedere l’arte nel suo contesto.

Come si svilupperà il modello fiera?

Non saprei. Ho però la sensazione che, sebbene mantenendo un livello globale, ci sia un assoluto bisogno di localismo, di eventi piccoli, concentrati e di alta qualità. E’ importante portare il mondo dell’arte a un pubblico sempre nuovo. Credo che il concetto di mega fiere sarà presto superato.

In questo senso, cresce infatti l’interesse per l’antiquariato e gli old masters, ma le generazioni più giovani comprano acora principalmente arte contemporanea.

C’è un grande numero di giovani sempre più interessato alla generazione dei loro genitori, cosa che prima non accadeva. E’ piuttosto inusuale che ragazzi e artisti tra i venti ed i trent’anni siano incuriositi da ciò che accade dopo la seconda guerra mondiale.

E i così detti old masters?

Assolutamente sottovalutati! Ma credo che il loro risveglio possa avvenire soltanto attraverso la conoscenza. Ci vuole senza dubbio molto più tempo per comprendere la qualità di un dipinto antico. E’ certamente più semplice quando si tratta di valutare quella manciata di artisti che passano in asta. Una scelta è restare in questa bolla; è però più ecccitante uscirne, anche se questo vuol dire impegnare tempo e ricerca. A volte serve anche qualcuno che ti possa fare da mentore, e che possa introdurti a un oggetto o un dipinto del passato, rivelandone il mistero.

Colleziona?

Ho iniziato a vent’anni, collezionavo fotografie. Ora cerco artisti che mi appassionano e che ho rappresentato, o rappresento. Sono tutti artisti che ho conosciuto e che in qualche modo mi hanno inspirato. Ma, devo dire, il lavoro più serio di collezionista è quello che faccio all’interno della mia famiglia, per la Axel & May Vervoordt Foundation.

Viene mantenuta l’idea originale della collezione?

Assolutamente. E poi contribuisco con la mia esperienza personale. Credo sia fondamentale aggiungere sempre nuove idee.

Avete in progetto di espandervi in Cina?

Abbiamo una galleria a Hong Kong, aperta sei anni fa. E’ uno spazio piccolo, dove mostriamo i nostri artisti. Il prossimo passo è trasferirci in uno spazio più grande a HK. Ora ci stiamo anche focalizzando sulla Cina continentale.

Come descriverebbe il mondo dell’arte cinese?

Frequento la Cina sin dagli anni 80. Ho vissuto in prima persona la ripresa artistica, sopratutto a Pechino. Allora non avevamo alcuna galleria, e compravo sopratutto antica arte cinese. Poi abbiamo deciso di aprire lo spazio ad Hong Kong, perché trovavamo fosse necessario per i nostri artisti esser rappresentati anche li. Era la nuova frontiera. Ma sebbene fossimo felici della nostra scelta abbiamo notato che i nostri clienti cinesi erano interessati all’arte come forma di investimento, piuttosto che al collezionare in sé. Erano mossi dai grandi nomi, dal comprare e vendere, dalle battute d’asta. Noi però abbiamo continuato con il nostro programma, presentando i nostri artisti, spesso organizzando dibatti con gli studiosi o con gli artisti stessi. Abbiamo assunto questo ruolo educativo molto seriamente, ed ora possiamo dire di esserci guadagnati un posto a Hong Kong. Anche i collezionisti della Cina continentale ora iniziano a capire il nostro lavoro.

June 22, 2021