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È il curatore l’eroe di cui la X Biennale di Berlino non ha bisogno?

Stefano Pirovano

La X Biennale di Berlino, che prende il titolo dalla celebre hit di Tina Turner, raccoglie solo 46 nomi, la maggior parte dei quali ancora ignoti alle grandi gallerie. Ma il suo testo programmatico è un’occasione persa.

La decima edizione della Biennale di Berlino dimostra due cose. La prima è che il giorno in cui basterà tracciare un confine per creare una mostra è ancora lontano, per fortuna. La seconda è che il cervello umano è pigro per natura, e tende quindi ad ancorarsi al nome del ‘curatore’ – che è solo e magari già noto – piuttosto che a quello degli artisti, che sono molti e in genere per lo più sconosciuti.

Riguardo al primo problema è da notare che, sebbene concetti chiave come Africa o diaspora africana siano una presenza inequivocabile nelle quattro sedi espositive di quest’anno (KW Institute, Akademie der Künste, ZK/U and Hau Hebbel am Ufer), i 46 protagonisti delle decima Biennale di Berlino sono esseri umani prima che cittadini di un certo continente, stato o città, e come tali chiedono di essere conosciuti. Meglio quindi lasciare la geografica politica, militare o economica agli eserciti delle multinazionali. Quando viene il momento di parlare d’arte certe prospettive distorcono invece di aiutare a vedere meglio. È invece preferibile leggere il contesto a partire dall’opera, piuttosto che l’opera partendo dal contesto. E sarebbe quindi ingenuo pensare che come la Biennale di Berlino precedente aveva parlato di Post Internet perché quello era il tema del momento, quella di oggi parla anche, o soprattutto, di ‘africanità’ per la stessa ragione. Il fatto che la curatrice Gabi Ngcobo sia nata e cresciuta a Durban in Sud Africa non dovrebbe fare molta differenza. In fondo Ngcobo aveva già collaborato alla Biennale di Berlino nel 2014 e ha fatto parte due anni dopo del team curatoriale della 32esima Biennale di Sao Paulo. L’Africa è lì da sempre, come l’India, o il Sud America. Sono i nostri occhi semmai che vedono solo nella direzione in cui è girata la testa.

Riguardo all’altro problema di cui dicevamo, come spesso capita nel caso delle Biennali, la logica mediatica e la psicologia umana vogliono che si finisca a parlare dei curatori invece che degli artisti, imparando molto dei primi e nulla dei secondi. Il che è un po’ come andare a vedere una partita di calcio e preoccuparsi dell’arbitro invece che del gioco. Oltretutto, come quasi sempre avviene, anche nel caso della Biennale di Berlino non si può certo dire che lo ‘statement’ scritto dai curatori sia la parte migliore dell’evento, anzi…

Di tutt’altra qualità, invece, è la scelta degli artisti, che per una curatrice – che in questo caso si è avvalsa della collaborazione di quattro colleghi – dovrebbe essere la sola cosa davvero importante. Come dicevamo sono 46, suddivisi per tre sedi, più una quarta sede dedicata alla performance. Il titolo della Biennale, We don’t need another hero, è preso in prestito da una hit degli anni Ottanta scritta da Terry Britten e Graham Lyle per Tina Turner e resa famosa dal film Mad Max, di cui la canzone è stata colonna sonora. Ma in realtà il titolo non aiuta gran che. Il mondo in cui ci troviamo oggi poco c’entra con quello del film e il generico bisogno di un domani migliore è quello che tutti i ‘bambini’ di tutte le epoche della storia hanno chiesto a chi ha apparecchiato il loro futuro. Il punto, allora, non sono gli eroi o la loro assenza; ma il disagio, l’abbandono, la mancanza di prospettiva.

E in questa costellazione di senso la prima stella a brillare è quella di Dineo Seshee Bopape, già vincitrice lo scorso anno del Future Generation Art Price e del Sharjah Biennial Prize. L’installazione con cui partecipa alla decima Biennale di Berlino, già presentata nel 2016 al Palais de Tokyo, occupa l’intera aula centrale del KW. L’artista, pure sudafricana, l’ha trasformata in un enorme fucina di luce arancione dove tutto crolla e si rigenera in brevi episodi di vita. Il titolo, Untilted (of occult instability)[Feelings] si riferisce agli studi dello psichiatra martinicano Frantz Fanton, teorico dei traumi psicologici causati dal colonialismo. Parte della narrativa dell’opera sono anche la toccante autobiografia di una scrittrice fondamentale per la cultura post-coloniale come Bessie Head – nata nel 1937 da una relazione allora illegale tra una ricca donna bianca sudafricana e un domestico di colore –, e la cantante Nina Simone, di cui Bopape riscopre la memorabile (davvero) esecuzione di Feelings durante il Montreux Jazz Festival del 1976. Il resto sono laterizi sbriciolati come fossero biscotti, colonne cadute, una grande sfera di cartone che penzola dal soffitto (dell’artista Jabu Arnell), e opere di altri due artisti invitati da Bopape, ovvero Lachell Workman e Robert Rhee (sono di quest’ultimo le piccole sculture che potrebbero vagamente ricordano interiora umane o parti di cervello). È proprio questa la tragedia che stiamo ancora vivendo? Forse sì. E se anche l’approccio citazionista di Bopape ricorda molto quello Goshka Machuga, rispetto a questa l’artista sud africana pare avere obiettivi espressivi più chiari, e per questo risulta più leggibile. Lo dimostra anche il caleidoscopio di danze e immagini allusive che Bopape mette in scena per il video in mostra allo ZK/U, una delle quattro sedi espositive della Biennale (Not yet titled, 2018). Qui l’artista si riferisce al controverso processo che nel 2006 ha visto l’ex presidente sud africano Jacob Zuma accusato di stupro dell’attivista Fezeka Khuzwayo, nota come Khwezi, morta nel 2016 di AIDS a soli 41 anni. Di nuovo, Bopape prende a soggetto un fatto storico e lo rappresenta affinché il suo significato possa continuare a riverberare, come si trattasse di un monumento.

Decisamente più essenziale nella forma, ma altrettanto efficacie sul piano espressivo, sono le Trans:plant di Sara Haq, disseminate lungo il percorso della mostra all’Akademie der Künste. Sono semplici fili d’erba incastrati tra le formelle del pavimento, raccolti in gruppi, quasi fossero piccole famiglie che crescono e resistono, nonostante le condizioni avverse. E proprio per questo diventano speciali.

La terza opera di cui decidiamo di parlare è il Mastur Bar di Fabiana Faleiros, che è installato presso il KW. Si tratta di un luogo di aggregazione dove il tema centrale è la masturbazione femminile. Il progetto è iniziato nel 2015 e ha visto collaborazioni con musicisti, poeti, scrittori, e con l’artista greca Antigoni Tsagkaropoulou, che per l’occasione ha prodotto un grande cuscino a forma di clitoride sul quale durante l’inaugurazione se ne stava comodamente sdraiata con il proprio telefono cellulare in mano – le dita sono un leit motiv del progetto. Faleiros, brasiliana, nata nel 1980, ha un alter ego chiamato Lady Incentivo, ovvero un’improbabile cantante pop che trasforma la strumentalizzazione della sessualità femminile in parodia e ironizza sulle leggi incentivo che in Brasile, come in molti altri paesi, sono destinate ad arte e cultura. Il punto qui non è l’opera, e forse nemmeno il personaggio che Faleiros ha costruito intorno a sé. Interessa piuttosto la sua eccentricità rispetto al sistema dell’arte ufficiale, ed è forse questo il principale fil rouge di questa Biennale. A parte Oscar Murillo, Ana Mendieta, Lynette Yiadom-Boakye, la stessa Bopape, e pochi altri nomi, gli artisti invitati sono outsider, ovvero artisti magari molto validi, ma senza grandi gallerie o collezionisti alle loro spalle. Pensiamo alla cubana Belkis Ayón, alla stessa Sara Haq, a Patricia Belli, alla performance di Okwui Okpokwasili (molto efficace), alle straordinarie incisioni di Gabisile Nkosi, o a all’installazione di Zuleikha Chaudhari, basata sull’eccezionale vicenda biografica del nazionalista indiano Subhash Chandra Bose.

Oltretutto, quasi nessuno dei magnifici 46 è rappresentato da gallerie berlinesi, che in effetti sono rimaste a margine della rassegna, e questo alla fine rischia di compromettere la visibilità della Biennale. Pochi, solo 7, anche gli artisti che vivono e lavorano a Berlino, o che qui si sono formati. Se a ciò si aggiunge la drammatica scarsità di informazioni sulle opere in mostra – che è una colpa soprattutto nei confronti degli artisti – , allora si capisce come il senso di spaesamento che lascia questa biennale, che pure ha deciso di lavorare su un gruppo piuttosto ristretto di nomi (la scorsa edizione erano 120) e di destinare gran parte del proprio budget (3 milioni di euro) alla produzione delle opere. Ma se non ci sono galleristi o collezionisti che se ne prendono cura, dove finiscono poi le opere? Oppure, come già avvenuto per Documenta 14, dobbiamo intendere questa Biennale come un atto contro un sistema che tende a escludere, a circoscrivere, e limitare? Ed ecco la terza questione che ribadisce questa Biennale. Arte e mercato dell’arte sono cose separate, anche a Berlino.

June 22, 2021