L’arte contemporanea soffre di neofilia?
Vent’anni fa il collezionista Lucien Bilinelli diagnosticava quello che oggi sembra il principale problema dell’arte contemporanea. Ma suggeriva anche come si sarebbe potuto superare.
Quella che pubblichiamo di seguito è la prima versione in italiano di un dialogo originariamente pubblicato in francese nel 1996 nel catalogo della mostra intitolata Bomoi Mobimba – che significa Tutta la vita. La mostra ha avuto luogo al Palais des Beaux-Arts di Charleroi in Belgio e ha esposto per la prima volta in Europa le opere di sette artisti popolari congolesi. Sono Pierre Bodo, Bodys Isek Kingelez, Cheik Ledy, Cheri Samba, Moke, Maitre Syms, Vuza Ntoko. Allora sconosciuti ai più, oggi molti di questi artisti sono diventati per musei e mercato costosi maestri da riscoprire; musei come il nuovo Zeitz MOCAA di Città del Capo o come il MoMa di New York, che sta dedicando una personale a Kingelez. Dietro l’alias Monsignor K, intervistato dal regista Stefan Liberski, c’è il collezionista Lucien Bilinelli, a cui si deve la raccolta allora esposta. Quel che a un ventennio di distanza appare straordinario del suo pensiero è la lucidità con cui Bilinelli ha intuito problematiche e temi che il mondo dell’arte non sembra aver ancora superato. E, tra i molti spunti che il testo offre, è forse questo il più importante. Quella stessa rincorsa al nuovo che gli psicologi chiamano neofilia e che è anche ripetitiva rincorsa all’eterno presente, potrebbe nel frattempo aver assunto i tratti di una patologia, una patologia diffusa e radicata che finisce per impedire che qualcosa di davvero nuovo emerga.
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Monsignore, mi sembra di capire che la pittura congolese vi interessi da molto tempo.
Diciamo che sono soprattutto interessato alla pittura congolese post-coloniale. Più precisamente, mi interessano i pittori popolari di Kinshasa.
C’è una differenza netta fra questi pittori e i loro predecessori? Artisti come Pili-Pili, Bela, o Mwenze, giusto per citare i più famosi?
Sentite, sono lontano dall’essere uno specialista. Mi sembra però che i pittori di cui volete parlare provengano da un sistema accademico coloniale. I pittori popolari di Kin, come Cheri Samba, Moke, Maitre Syms, Vuza N’Tokim ecc, non hanno nulla a che vedere con loro.
Sono prima di tutto “pittori di strada”, non è vero?
Potremmo dire cosi. In ogni caso si tratta di artisti la cui professione in origine era quella di creare insegne pubblicitarie, o ritratti su commissione. Alcuni, come Cheri Samba, hanno iniziato disegnando fumetti.
Quando, e dove, avete scoperto questi artisti?
A Bruxelles, in occasione di una mostra organizzata in uno di quegli orribili centri commerciali di cui la città ne è ormai piena. Non mi ricordo in quale, e quando la mostra ebbe luogo. Doveva essere agli inizi degli anni 80.
Ci può dire cosa vi ha attirato di questa pittura?
Sapete, non è affatto facile spiegare le sensazioni che si provano a un primo incontro. Che dire? Non avevo mai visto nulla del genere. Ridevo da solo. Ero entusiasta. Avrei voluto possedere una o l’altra delle tele esposte. O addirittura averle dipinte io stesso. Vedete? MI interessa questo genere di cose assurde.
Capisco. E Poi?
Se volessi spiegare l’interesse che ho poi sviluppato seguendo degli artisti come quelli radunati al Palais des Beaux-Arts di Charleroi dovrei farlo paragonando il loro lavoro al contesto artistico occidentale.
E dunque?
Diciamo che allora trovavo questo contesto – ma lo trovo tutt’oggi – molto assopito, tetro, quasi inesistente. Questa pittura è stata per me come un risveglio, forse piccolo, ma comunque un risveglio.
Inesistente? Ma insomma Monsignore! Mai prima d’ora ci sono stati cosi tanti musei, mostre, gallerie, artisti! Mai altrettanti spettacoli, concerti, festival, teatri e performance… insomma, tanta cultura. Accade sempre qualcosa! Pensate al dinamismo del balletto, per esempio. Soltanto questo!
Poco fa ho parlato con l’abate F. Mi ha confidato che quando si occupava delle attività culturali della parrocchia, la domanda principale che sorgeva tra i parrocchiani in vista di uno spettacolo o di una mostra è quando si sarebbe mangiato, se prima o dopo.
Suvvia, si tratta certamente di un aneddoto! Non mi dite che ne avete tratto delle conclusioni!
Un giorno, in Vietnam, il mio amico Serge Daney mi ha spiegato molto bene come in qualche decennio siamo passati dall’arte alla cultura, e poi da quest’ultima al turismo culturale, e per finire al turismo tout court. Ecco dove siamo, figlio mio: al turismo! …Guardate, se apro questo giornale, che per puro caso si trova qui davanti noi – tutto è spesso a portata di mano, sapete – leggo nel supplemento di un importante quotidiano Italiano…
Precisiamo, per i nostri lettori, che stiamo avendo questa conversazione in Italia…
Si, le mie funzioni mi obbligano a trascorrere del tempo in questo paese, la cui stampa mi delizia. Dunque, leggo in questa rivista, tra i consigli di Claudia Schiffer sull’abbronzatura senza rischi, e un reportage sull’Irlanda tra natura e magia, che quest’estate la città di Perugia ci invita a un’estate tutta Joseph Beuys! Vi rendete conto? Come l’Irlanda e Claudia Schiffer, Joseph Beuys è anch’egli un prodotto turistico.
Ma andiamo! E’ quello che abbiamo fatto! E’ quello che facciamo con tutti d’altra parte! Mozart, Vermeer, Cézanne! Nessuno sfugge! Ma l’arte contemporanea…
…non si è anch’essa conformata alle esigenze del marketing? E’ questo ciò che volete dire? Sono d’accordo con voi.
No, no! Questa è la vostra opinione, Monsignor! E, oltretutto. di quale arte contemporanea state parlando? È cosi ricca, cosi varia!
Trovate? È curioso! Io la trovo di una monotonia desolante. Sto parlando certamente dell’arte contemporanea ufficiale, quella delle Biennali, dei Grösse Kunstbazaar, e degli Spazi d’Arte Contemporanea. Infine, di colei che vacilla in una sorta di rottura perpetua, e che mi annoia da morire. Tutt’al più le riconosco la qualità di una buona pubblicità.
Intendete dire: le qualità di un annuncio pubblicitario?
Esatto! Mi sembra paralizzata da vincoli.
Vincoli?
Si, esatto. Vincoli commerciali, vincoli narcisisti. Mi sembra che gli artisti siano tormentati da problemi di originalità, dal cercare di far emergere dal lotto la loro “firma”, dalla necessità di apportare una loro piccola differenza nella Grande Tendenza, dall’essere, infine, un artista come si deve. Dietro una falsa idea di libertà, vedo la costrizione più assoluta. Può darsi che mai nella storia dell’arte il conformismo sia stato cosi pesante, l’accademismo cosi rigido, e la libertà cosi sorvegliata.
Monsignore! La smetta di esprimere delle opinioni cosi reazionarie sull’arte contemporanea. Cosi, diventa irritante.
Sentite, non sono io, ma Baudrillard che sospetta l’arte contemporanea di essere un complotto.
Un complotto! Questa è pura e semplice paranoia!
Può essere, ma gli do ragione. Secondo me al giorno d’oggi, l’oggetto “d’arte” è da collocarsi tra i santini e i titoli bancari. E’ diventato un oggetto di speculazione con una parvenza culturale. E in qualche modo, gli artisti, le gallerie, i critici, i giornalisti fanno tutti parte di questo complotto, soffiando uno dopo l’altro nello stesso pallone. Guardate: è commovente leggere nello stesso numero della rivista che tengo in mano, nella rubrica “opinioni” le dichiarazioni di un collezionista che si mette in mostra per persuadersi della sensatezza dei suoi acquisti.
In breve, se vi sto seguendo correttamente Monsignore, questa pittura congolese, alla quale deriderei ritornassimo, assume tutto il suo valore in una cornice occidentale?
Non solo, ma effettivamente si allontana da questo cedimento culturale generalizzato che noi tutti conosciamo, e con esso il sentimento che la storia balbetti. È su questo sottofondo di eterna contorsione dell’Essere, sempre più irrisorio, che il lavoro degli artisti congolesi spicca.
Bene. Ma cosi state parlando fra le righe! Al contrario, se posso permettermi, di quando parlate di ciò che denigrate.
È vero che parlo molto meglio di ciò che non mi piace. Sapete cosa diceva Baltasar Gracián “ …le cose del Mondo, per vederle nel modo che sono, conviene mirarle al rovescio ”. Mi sembra un bel modo per esprimerlo, non è cosi?
Cerchiamo di procedere. Ci sono altre cose che guardate al rovescio?
Si, la pittura congolese mi interessa proprio perché nata in Congo.
Andiamo bene. Dove volete arrivare?
Mi sembra di avervi già detto che questa pittura risalta sullo sfondo della nostra miseria culturale che sta dilagando.
Potremmo discutere di quest’ultimo punto.
Sono d’accordo. Ma non possiamo certo negare che la pittura congolese abbia luogo nella miseria reale, materiale, del Terzo Mondo. Anche questo per me crea contrasto. È piuttosto inaspettato, non credete?
La pittura è sempre un accidente, dice Philippe Sollers.
Ah davvero? L’ho incrociato qualche volta nella Santa Sede. È molto divertente. Ci siamo fatti delle gran risate insieme! Però non so cosa intenda dire con quella frase. Si riferisce forse all’atto di dipingere? Glielo chiederò. Alla fine però, con delle risorse irrisorie, su delle tele scarse (spesso sacchi di farina degli aiuti alimentari), con vernici per auto, ecco degli artisti che, in un paese tetro dove non ci si aspetta più nulla, elaborano un’opera che ci tocca profondamente. Non so se si tratti di un accidente, ma di sicuro deve sorprenderci.
E non vi sorprende?
Si e no. Credo infatti che il Terzo Mondo abbia molto da insegnarci.
Se vogliamo parlare di questi pittori, non si può non parlare del Terzo Mondo…
Non si può non, come dite voi. Ma sapete, il Terzo Mondo non serve soltanto ad alimentare la cattiva coscienze del Nord. Questo Nord che ama cosi tanto piangere su ciò che distrugge. Distrugge tutto ciò che non è se stesso, e poi si prende anche il lusso di piangerci sopra. È stravagante, non trovate?
Avete viaggiato molto nel Terzo Mondo, Monsignore?
Si. Le mie funzioni sacerdotali mi hanno spesso portato laggiù. Del resto, consiglio a tutti di visitare il Terzo Mondo, almeno una volta. È interessante.
Cosa vi interessa del Terzo Mondo, e in particolare del Congo?
Prima di tutto, lì si incontrano i dannati della terra. I miseri della miseria. Il Congo, figlio mio, è il sud del Sud. Credo sia necessario vedere con i proprio occhi quanto il nostro benessere materiale costi al mondo.
Non vi sembra una visione delle cose piuttosto semplicistica?
Sapete che se il resto del mondo dovesse consumare la stessa quantità di carta utilizzata in Occidente, il pianete sarebbe disboscato in qualche settimana?
No, non lo sapevo.
Il Terzo mondo è il nostro mondo, ma in negativo. Ed è questo ciò che lo rende insopportabile. Rivela ciò che di negativo c’è nella nostra società industrializzata, che noi cerchiamo cosi tanto di rimuovere. Guardate bene. E vedrete.
Aspettate, Monsignore. Non riesco a seguirvi.
Laggiù tutto è cosi crudele, figlio mio, cosi apparente. Milizie private proteggono I ricchi nascosti dietro alte mure sormontate da filo spinato. Un’incredibile massa di persone lasciano tutto per venire ad assaggiare la nostra vita-rivista che vendiamo loro come essere il Paradiso. Poveri loro! Si ammucchiano nella miseria delle grandi città, e la vergogna gli impedisce di ritornare ai loro villaggi a mani vuote. Lo scacco sarebbe troppo pesante. Tutto ciò è pietoso, irrisorio. Ma è uno specchio!
Il nostro specchio?
Esatto. Uno specchio al rovescio, lo specchio di Graciàn. I modelli che abbiamo importato laggiù non reggono, seppure facciano delle stragi. Plasmano sogni, ma si rigirano come guanti.
Devo ammettere, Monsignore, che mi sto perdendo. Potrebbe precisare il suo pensiero?
Ascoltate, tutti oggigiorno vorrebbero essere in un film! In Congo, cosi come altrove. Nello stesso film! Con le stesse immagini! Grazie al cielo, gli abitanti del Terzo Mondo recitano male. Esagerano, e cosi facendo la stupidità dei nostri copioni diventa troppo apparente.
Cosa diventa apparente per esempio?
Ma non lo so io! Tutto! La mediocrità dei telefoni cellulari, per esempio! Laggiù, credetemi, con il caos totale sullo sfondo, salta subito agli occhi! Non il telefono in sé, certamente, ma il simbolo di apparenza che rappresenta. Qui, ci sforziamo di non vederlo. Per rispetto del denaro, senza dubbio, togliamo lo sguardo vergognosamente quando veniamo sorpassati da una Mercedes a pieno gas sull’autostrada, il conducente in camicia blu e cravatta a righe, il volante in una mano, e il telefono nell’altra. In Congo è impossibile ignorare questi uomini d’affari ricalcati sui nostri, questi ciccioni in abiti troppo stretti per loro, mentre ostentano i loro telefoni cellulari. Sono imbarazzanti. Recitano male. Si nota il loro orgoglio assurdo. Eppure, il loro modo di scimmiottare “i nostri segni esteriori di ricchezza” diventa cosi sovversivo. In questo modo, si proteggono dal disprezzo e dallo scherno dei bianchi.
Il vostro modo di pensare è piuttosto curioso, Monsignore. Non sono sicura di capirvi.
Conoscete la danza dei “sapeurs” (Nota 1)?
No, non la conosco.
Questa danza congolese, in cui si mettono in mostra i propri vestiti? No? Ah, dovete vederla!…Ora ve la spiego: I ballerini a turno prendono posto in centro a un cerchio, un po’ come nella bamba, e un commentatore, microfono alla mano, descrive dettagliatamente l’abbigliamento di ognuno, citando le marche, e il prezzo dei vari capi d’abito. “Camicia Yamamoto, 40.000! …Giacca Gianni Versace, 55.000! …Scarpe Winston”
Weston, Monsignore.
E sia. “Pantoloni Jean-Pierre Hautier, 30.000!… ”
Jean-Paul Gaultier, Monsignore.
Sì, sì, certo. Ciascun candidato balla e muove le anche per mostrare al pubblico (che applaude i capi più belli) le etichette della propria mise. È ridicolo, naturalmente. Ma non vi sembra che questo riveli al meglio la nostra volgarità commerciale? Non è questo che dovrebbe lasciare senza parole I nostri elegantoni? Sono tutti ugualmente ridicoli come i sapeurs, soltanto che quest’ultimi sono più ingenui, più immediati. Vanno dritti al punto. Ciò che conta è l’etichetta, il prezzo. Sono loro che fanno la mise. E no, non so quale sia il pretesto stancante da capire: “è un bel colore, facile da indossare, ben tagliato”. Alla persone non interessa questo. Ciò che conta è il nome, ma non bisogna farlo sapere. I sapeurs, invece lo dicono. Sono candidi. E il loro candore è una vera gioia.
Ho capito! State dicendo che questo candore scapsula le nostre scimmiottature. Torniamo però ai nostri pittori congolesi.
Ma non li abbiamo mai lasciati! Questo candore è infatti alla base di tutte le loro tele. L’arte di Cheri Samba o di Maître Syms hanno per me la stessa efficacia. La loro pittura è straordinariamente sincera, e di un’immediata familiarità. E soprattutto è rinfrescante.
Vi stavo per chiedere della cosiddetta ‘ingenuità’ di queste opere, ma credo che mi abbiate appena risposto.
In effetti.
Queste opere rappresentano tuttavia una testimonianza sorprendente sul Congo stesso.
Si, lo sono. Raccontano tutto, non è vero? Il quotidiano, le miserie, le gioie, le comicità, gli sbrogli, le peripezie della tirannia. Raccontano fatti diversi, denunciano i complotti, analizzano la politica, constatano I problemi. Sono dei reportage, ritratti, pagine di diario, pamphlet, allegorie, considerazioni morali o religiose. Non si può negare che queste tele ci diano informazioni sul Congo. Anzi, direi proprio che ci informano al meglio su questo paese. Personalmente, sono colpito dalla verità di queste immagini. Una verità che da noi è sempre più rara.
Cosa volete dire?
La cosa non ci stupisce all’interno di una dittatura. Ma anche qui, sapete, al contrario di ciò che vogliono farci credere, l’informazione sta scomparendo. Ciò che leggete nei giornali o vedete alla televisione non è altro che della comunicazione. Ciascuna istituzione politica, militare, economica, cultura (persino religiosa, devo ammettere), possiede oggigiorno un’agenzia che distilla ai media ciò che l’istituzione stessa vuole comunicare al pubblico. E guai se i media non le obbediscono! Farebbe il modo di tagliar loro la pubblicità o quell’importante presentatore.
Degli esempi?
Ce ne sono moltissimi! Sostengo per esempio che non sappiamo davvero nulla di ciò che è realmente accaduto durante la crisi del Golfo. E’ possibile che la Guerra del Golfo non sia mai avvenuta. Che non sia stata soltanto un artificio per farsi pagare il trasporto di una grande scorta di armi custodite in Europa verso l’Arabia Saudita.
Monsignore, non credo sia questo il luogo per discutere di certe questioni…
Sostengo che Madame Mitterand non abbia mai scritto il libro sul marito, dal quale dopotutto era separata da più di vent’anni.
Monsignore, smettetela…
Sostengo che le pagine piene di pubblicità che hanno infiorato tutti i giornali dall’uscita del libro mentivano dicendo che fosse già un bestseller. Al giorno d’oggi, prima ancora che un libro o un film escano, sono di già dei bestseller. Sbancano i botteghini. Sono delle tecniche di vendita, figlio mio. Il mondo è puro marketing.
Se posso permettermi, Monsignore, questi pittori mi ricordano leggermente i Guignols. (Nota 2)
Molto bene! Sostengo che i Guignols siano più seguiti dei telegiornali, senza dubbio perché sono più divertenti, ma anche perché più veri!
Considerando ciò che abbiamo appena detto, si potrebbe criticare il fatto che questa pittura assomigli più a delle vignette/illustrazioni…
Perché dite ciò?
Non saprei… diciamo che è il genere di commento che di solito si fa quando si esprime un giudizio sulla pittura….
Capisco… Intendete dire che si tratta di una pittura realista?
Si… No… Insomma…
La trovate decorativa? Pensate che questi pittori dipingano solo per per bellezza?
No, non è quello che sto dicendo, però…
Trovate forse che ciò che raccontano non sia sufficientemente deformato? …Non rientra in un sistema di coerente di deformazione?
A dir la verità…
Non vi seguo.
Si tratta questa di Grande Pittura? Era questo il senso della mia domanda.
Ascoltate, eccetto Picasso, se parliamo del nostro secolo, c’è qualche altro pittore di cui si può dire a colpo sicuro che sia “grande”?
Uh…
Mi è appena venuto in mente, tutto a un tratto, il caso di Stato che si è fatto su Pollock… Ora molti non vedono in lui che un vecchio merletto…
Vale a dire…
Lasciamo stare, figlio mio. Non saremo più di questo mondo quando Dio riconoscerà i suoi…
Già. Ritorniamo alla pittura congolese…
Vi stavo appunto dicendo, sebbene voi riteniate che la qualità dei colori di alcune di queste tele sia piuttosto mediocre, o che sono a volte di maldestra fattura, questi lavori hanno per me una forza che trascende tutti questi difetti, e cioè quello di essere stati dipinti nel loro tempo. Capite? Sono testimonianza di un azione sul loro tempo, se si vuole lavori “impegnati”. Ecco chi mi cambia dal nostro balbettamento culturale.
Avete già evocato poco fa quest’idea di una storia paralizzata. Intendete dire che la nostra storia è immobile e che si nutre di pseudo-novità?
La storia non è immobile! La storia si svolge a un livello al quale voi non avete più accesso. Mentre è il mondo dello spettacolo che è paralizzato in un falso svolgersi, fatto di notizie false, tendenze false, novità false… Ascoltate, il trucco è sempre più visibile – e ciò non lo trattiene comunque dal funzionare. “Le nuove tendenze” fanno tre piccoli giri, se ne vanno, e poi ritornano. Ciascuna stagione porta la sua raccolta di articoli di fondo. Ogni settimana è illustrata da divi intercambiabili (che la chirurgia, al bisogno, si incarica di conformare al modello standard). Ogni giorno i politici si schiacciano l’uno sull’altro: solo grazie alle loro caricature si riescono ancora a distinguere! Avete menzionato i Guignols. È in effetti un piccolo mondo di Guignols che recitano sulla scena dei media un strano presente perpetuo, nel mentre che 385 commercianti possiedono già la metà del reddito del pianeta (e tutto sembra indicare che non si fermeranno di certo nel loro cammino).
Ma, Monsignore, la pittura congolese…
Persino la negazione dello spettacolo diventa oggigiorno uno spettacolo di per se. Questa mattina ho letto sull’Unità (vi ho già detto che la stampa Italiana mi delizia), dunque ho letto: Addio politica spettacolo! Grande titolo per un articolo importante, nel quale acuti commentatori annunciano in anteprima la fine del marketing politico, e della superiorità dell’immagine. Ci sembra di sognare. Tutto l’interesse dell’articolo è certamente quello di colpire nel segno essendo stati i primi a predire questa notizia. Ciò che conta non è l’osservazione, la riflessione, ma l’annuncio del pseudo-nuovo, pseudo-paradossale, pseudo-inatteso. All’occorrenza la fine della dittatura dell’audience, per guadagnare cosi qualche punto in più di share. È cosi che non avrete mai più delle accuse che non conoscano la loro riabilitazione. Ne dei preconcetti che non ricevano in premio la loro colonna sul giornale. Sembrerebbe che sia proprio questa la democrazia.
Monsignore, si calmi! Non voglio ascoltare una vostra parola di più sulla democrazia!
Questa dimensione di presente perpetuo entro la quale si svolge la storia contemporanea prende a volte delle forme allucinatorie, sapete! Esistono nella stampa italiana (della quale vado pazzo) due o tre settimanali che da anni si consacrano a mostrare la vita delle celebrità, nudi sui loro yacht or sulle loro spiagge private. Ogni benedetta settimana ci viene cosi data la possibilità di intravedere il grande didietro bianchiccio di quel tal principe della finanza, o i seni morbidi di una o dell’altra dama dello spettacolo. Come se il pubblico non si stancasse mai di verificare che ne hanno due, ne di rassicurarsi che i miliardari hanno i fianchi grassi.
Monsignore!
Lo spettatore non esperto non riesce a distinguere un numero dall’altro, tanto sono simili. Quello è forse un esempio estremo, ma la maggior parte dei giornali non sfugge a questo balbettamento. Tutto avviene come se esistesse una parola d’ordine: “Tanto più che niente si muova”. Parola d’ordine venuta non si sa da quale istanza, espressione strutturale di un sistema ormai ben maturo.
Mi fate pensare, è il colmo, a Guy Debord, il quale afferma che mai sistema di governo sia stato più perfetto, e che tutti coloro che aspirano a governare vogliono farlo seguendo le medesime procedure.
In effetti. Credo che al giorno d’oggi il ruolo dei media, insieme a quello della cultura, sia di mantenere un sentimento di frustrazione permanente, di far sì che lo spettatore si senta sempre un pochino più indietro in questo presente perpetuo. È una ritardo che da una parte maschera immobilità e dall’altra contribuisce a crearla. Qualsiasi cosa accada, non si è, o non più esclusi da una storia che viene vissuta in leggera differita. Abbiamo già perso il treno. Non abbiamo il tempo di finire qualcosa che succede già qualcos’altro. Sempre in ritardo sui trend attuali, sul gusto, su un libro, una moda che sempre ci precede, e che sempre va seguita, ma che poi gira in tondo. E’ dunque cosi che la neofilia – passione per la novità -, carota eterna per l’asino, priva l’umanità della sua storia, della sua memoria, e della sua realtà.
Monsignore, forse stiamo andando un pochino fuori strada…
La cultura con la C maiuscola si nutre di ciò che ‘si tende a dimenticare’. Straordinario è il numero di opere che nascono dall’idea di ‘ciò che si dimentica’. L’ultimo libro che mi è capitato di sfogliare in libreria è quello di Luce Irigaray, ‘L’oblio dell’aria’. Ci dimentichiamo di respirare, cosi parrebbe. L’arte, come il resto, ha perso contatto con la realtà. Si svolge nel più assoluto isolamento che è il ‘mondo della cultura’. Rivela niente più che quei sintomi che prevalgono nelle nostre società: è la realtà ridotta a brandelli.
Come pittura che si scrosta…
Se vuole.
Da come parla sembra che questi dipinti saranno per noi l’occasione per ritrovare il senso della realtà, quello della verità, dell’impegno e Dio solo sa cos’altro. Non vi sembra di stare esagerando un pochino, Monsignore?
Non si può mai sapere. Si tratta di una pittura ‘iniziale’? O forse si tratta dell’ultimo scintillio, dell’ultimo riflesso rossastro di un territorio bruciato, verso il quale gettiamo un ultimo sguardo disinteressato, nella speranza di risvegliare almeno un po’ della nostra curiosità di un tempo? Lo scopriremo. E molto in fretta, a mio avviso.
Mi sembra che ad un tratto siate diventato molto solenne. In ogni caso, questi dipinti non sono mai tristi!
È molto vero! È impressionante! A eccezione di alcune tele di Bodo, quelle di Moke, Samba, N’Toko, Syms o di Ledy, mi colpiscono tutte per la loro allegria.
A volte queste opere sono violente…
Si, lo sono. Mai lamentose, però. Talvolta parlano di sofferenze, e nonostante ciò sono sempre allegre.
Sono ricche di umorismo…
Oh si! Vedete, che il soggetto sia serio, drammatico, o malizioso, si tratta sempre di un’affermazione di gioia. Sempre! Date un’occhiata, per esempio, a ‘La Liberté de la presse étouffée’ di Maître Syms. Sebbene il soggetto sia grave Syms sembra ugualmente divertisti a mostrarci che i pantaloni del ragazzo che consegna i giornali sono strappati al cavallo. Prendete le tele più tetre di N’Toko, penso a quelle che ha dipinto in esilio, lontano da sua moglie e dai suoi bambini. Sono colorate, vive, divertenti. La vita sembra sempre pronta a ricominciare la festa. Quando si vuole. O ancora, in ‘Le Pasteur Monyato’, dove Maître Syms denuncia le pratiche losche dei dottori dell’anima. Si capisce che anche questo è un pretesto per mostrare delle chiappe, gambe, seni, mutandine.
Monsignore!
Qualcosa di più forte di loro oltrepassa i soggetti che trattano. L’umorismo, l’erotismo, la festa, la vita. È il ‘messaggio gioioso’ di Nietzsche, se vogliamo. In fondo a tutte queste opere, c’è un pensiero che afferma la vita, la fiducia nella vita. Se ci fermano, è perché non appartengono al nichilismo contemporaneo. All’arte sinistra e ai suoi invariabili commenti sinistri: ‘L’arte è sinistra, perché il mondo è sinistro, angosciante ecc.’
La risata dei congolesi è celebre!
È vero! E la si sente, in queste tele. Anche in quelle di Bodo, che ancora una volta mi sembra diverso, più tormentato, più toccato dal nichilismo cristiano. Più infagottato nell’educazione dei Padri Bianchi.
Si posso permettermi, Monsignore, ho come l’impressione che le tele di Bodo siano cariche di magia…
Trovate?
Si. Hanno la presenza inquietante degli antichi feticci. Quelli dell’accumulazione, per esempio. Sapete, quelle statuette ricoperte di centinaia di chiodi.
Dovete avere ragione. A me ciò che interessa è che intravedo in lui come in un antico stato della cristianità, un antico strato delle nostre tecniche di proselitismo. Le sue tele sono per me una sorta di Jurassic Park della fede, oserei dire! Ma i suoi diavoletti, me ne scuso in anticipo, mi fanno ben ridere.
L’universo di Bodo è piuttosto opprimente.
Si, lo so; è quella della Colpa/Fallo/Errore. Perciò, sia che egli parli di antiche credenze, oppure ci mostri stregoni in azione, o che si occupi dei danni della sigaretta (tema che sembra tormentarlo molto), noterete che non manca mai, nemmeno lui, di dipingerci un paio di natiche ben arcuate, quelle natiche delle Africane che tendono i tessuti dei pagne e che…
Monsignore!…
Si, si. Ma vedete, mio caro signore, quella gente là, Dio sia lodato, non si prende sul serio. Ed è quello che cerco di fare anche io, almeno un pochino, seguendo il loro esempio. Evadere da questo senso di pesantezza. La risata dei Congolesi è libertà.
È curioso, menzionate spesso la libertà a proposito di queste opere.
Ascolti, le voglio dire una cosa… È difficilmente spiegabile… Come descrivere quel sentimento di libertà che a volte ti capita di provare quando ti trovi in un paese del Terzo Mondo? L’ho conosciuto qualche volta. Per quanto miserabili, per quanto sfasciati siano questi paesi… È strano, ma laggiù regna, a tratti… Che cosa? … Una fuga dal Calcolo?… Dalla Tecnica?… Dal Controllo Assoluto?… Dall’ideale ascetico di Profitto, quel dio feroce, mai soddisfatto, che da noi regna supremo? Laggiù esistono ancora delle zone sfocate, dei confini permeabili, del tempo non sfruttato. Una capacità (scusate il cristiano che parla in me) d’amore. E in Congo, specialmente, un’allegria di cui non avete idea.
Monsignore, non si tratta questo di un facile lirismo intorno al diseredato? “Beati gli ultimi, poiché saranno i primi” ecc.
Oh no! Semplicemente, sto cercando di condividere con voi un sentimento che ho provato laggiù, e che non posso davvero comprendere se non parlando di libertà. Insolita, certo, ma ugualmente libertà. Ve lo ripeto, questo è ciò che la pittura di cui parliamo mi fa provare. Una ventata di libertà.
Parlate della libertà che provate durante i vostri viaggi nel Terzo Mondo… Non è vero che vi trovate dalla parte dei ‘padroni’? Come tutti i Bianchi che si recano laggiù? Spero, Monsignore, di non offendervi nel chiedervi ciò.
No, no! Avete ragione! Non è assolutamente questa la libertà della quale vi ho parlato, ma è incontestabile che il vivere laggiù mantenga ancora una traccia dell’Antico Regime. Credo che fu una delle grandi attrattive della colonizzazione, e non è mai davvero scomparso. Bisogna dire che laggiù noi siamo molto ricchi, non è vero? Molto ricchi nel mezzo di tanti poveri che non hanno nulla. Per esempio, li si trovano domestici a palate. Sapete mio caro, laggiù, non avrete bisogno di alzare nemmeno un dito. Avrete al vostro servizio cuoco, lavandaio, domestica a ore, cameriere. Persino un custode che sorveglia la casa giorno e notte. La notte, dormirà sulla soglia, per terra, con il suo machete. Non gli verrebbe nemmeno in mente di richiedere una cuccia, per cosi dire! Tutti trovano che questo sia normale. Soprattutto i Bianchi. Soprattutto coloro che, nei nostri paesi, sono sempre pronti a commuoversi delle ingiustizie fatte alle infermiere, o a piangere davanti a Téléthon..
Quello che state dicendo è terribilmente scioccante, Monsignore…
La verità è sempre molto scioccante, figlio mio. Ve la dico io la verità. Sapete, ho sondato molti animi nel corso del mio santo ministero. Ebbene, non sono sicuro che abbiamo veramente abbandonato l’idea che un Nero non valga quanto un Bianco.
Monsignore! Qui state esagerando! Non posso lasciarvi dire ciò!
Non vi ricordate, l’indomani del massacro in Rwanda? La premura che si è messa ai Tutsi e agli Hutus di stringersi la mano? È stato qualcosa di osceno. ‘Suvvia! E’ finita! Fate la pace ora!’ Sembrava di essere in cortile durante la ricreazione. Un genocidio era appena accaduto. Una tale attitudine non può procedere se non che nel disprezzo più assoluto.
Stiamo completamente abbandonando il nostro soggetto. Ritorniamo ai nostri pittori, vi prego! Avete detto, Monsignore, che le loro opere vi donano un sentimento di libertà.
Quelle tele là sono state per la maggior parte dipinte sotto un regime di terrore, in una dittatura dove l’esercito taglieggia le persone per strada, alla luce del sole, e le uccide, all’occorrenza. Ciò mi lascia di sasso. Ancora una volta, vi ho trovato una salute, un vigore, e soprattutto, si, una libertà estetica straordinaria.
Giustamente. La pittura può liberarsi da altro se non che dai propri codici? Ha un altro campo di applicazione se non essa stessa?
Credo che la pittura porti in se una vera potenza di libertà. Che sia un’efficace metafora di libertà, e che nel contesto dove si svolge, rappresenti – non certo ‘un immenso messaggio di speranza’, non siamo ridicoli -, ma una fuga, una via di passaggio… ha il potere di sbloccare certi comportamenti. Può avvenire ciò. Non soltanto per i Congolesi, ma anche per noi, spettatori del qui e ora.
Intendete dire per i nostri artisti? O per noi?
La rarefazione della libertà non è un fenomeno riservato soltanto all’arte contemporanea o al Congo. Lontano da là. Voi lo sapete come me, che i paesi democratici del Nord, ormai ingovernabili, sono retti da nient’altro che dal Capitale e dalla Merce. Ebbene, mi colpisce lo stato di schiavitù volontaria nella quale questo stato di cose ha immerso l’uomo occidentale.
Trovate sia una condizione di schiavitù?
Certamente! Guardatelo fare tutto ciò che gli viene detto di fare! Comprare ciò che gli viene detto di comprare, vedere ciò che gli viene detto di vedere, votare per chi i sondaggi dicono lui di votare! Guardate l’entusiasmo stravagante che mette nel diventare la macchina delle sue macchine! Guardatelo prestare il suo corpo alle Grandi Marche! Come si offre di essere un supporto pubblicitario, sfoggiando sulla sua maglietta, sulle sue scarpe, sul suo berretto, il nome delle divinità commerciali di oggigiorno! Cosa si è guadagnato in cambio, gettando il nostro buon Dio alle ortiche? Ve lo chiedo di sfuggita.
Cosa volete dire? Che il Terzo Mondo vive in una schiavitù reale, mentre la nostra sarebbe immaginaria?
No, no. La nostra schiavitù è ben reale, sebbene sia volontaria.
Questi pittori che cosa ci vedono là dentro?
Quello che volete, figlio mio. Al di là di un certo punto, nemmeno la Chiesa può più niente per voi.
Ehm… Come pensate questi pittori possano essere accolti?
Oh molto bene, rassicuratevi! Credo che il filone sia già stato sfruttato al meglio, e che lo sarà ancora di più.
Sempre la nostra neofilia?
È evidente. Bisogna scagliarsi contro tutto ciò che si muove, non è vero? Impossessarsene, collegarsi alla sua fonte, accattivarsene i prodotti, lanciarli sul mercato delle gallerie, dei musei, dei Kunstbazaar. Bisognerà pure consumarlo come il resto, fino all’osso, fino alla feccia, fino a che non si muova più. È il nostro destino. Biasimate uno squalo di essere uno squalo? Non c’è molto altro da fare. Questi artisti e le loro opere saranno senza dubbio una vera manna, la prospettiva di qualche miniera d’oro, l’occasione di diversi vantaggi narcisistici.
Conosco un pochino il collezionista che ha radunato queste opere, e posso affermare che le ama veramente!
Volete che vi benedica?
Credo che non sia stata una faccenda da poco riunire tutto ciò.
Vi benedico. Andate in pace.
Non avete veramente risposto alla mia domanda, Monsignore. Come saranno accolte?
Ma molto bene, ve l’ho detto! Capite, è insperato! Che il Congo si muova ancora! Che non è ancora completamente consumato, succhiato, sfinito, spremuto! Vi rimane un piccolo moncone di carne laggiù, che malgrado tutto dipinge, e che gioiosamente afferma che vive! Vi rendete conto? Dunque per la neofilia e per il cinismo commerciale, queste tele offrono molti vantaggi. Originalità, stili diversi e riconoscibili, aneddoti gustosi e dolorosi, esotismo, erotismo, testi integrati nell’immagine, effetto poetico di un mezzo-Francese malmenato, di un mezzo-Lingala oscuro. Senza parlare dell’autenticità. Per quanto ne so, non ci sono ancora dei falsi Moke, né dei falsi Bodo. Anche se non tarderanno. Chi ha orecchie per intendere, intenda. E infine, last but not least, ‘dei-grandi-musei-americani-se-li-contendon’”! Cosa chiedere di più?
Siete terribile, Monsignore.
Ma no!
Monsignore, sono turbato. Non è di cattivo gusto tutto ciò?
Che cosa dunque, figlio mio?
Ebbene, la nostra conversazione! Vi parlo di pittura, mi rispondete merce, cinismo, schiavitù, disinformazione, razzismo, chissà cosa altro ancora? Per una mostra d’arte! Veramente!
È l’arte al di fuori di tutto ciò? È il rifugio del sublime eterno? È questo? Sì! Vedo che è questo ciò che state pensando! Tanto peggio! Quanto al cattivo gusto…Può essere! Sebbene per me, sapete, il colmo del cattivo gusto è credere e affermare che ne possediamo di buono!
Si ma insomma! Che rapporto con queste tele?
Forse la libertà che mi sono preso nel parlarvi di ciò che mi sembrava importante, qui ora, nel momento stesso in cui vi parlo. È quello il rapporto: la libertà.
Monsignore, siamo arrivati al termine di questa conversazione. Mi sembrate molto pessimista quanto allo stato della nostra civiltà.
Trovate? Tuttavia ci siamo fatti delle belle risate, qua e là. E poi sapete, in altro modo, ciò che mi colpisce è che tutto è là, non è vero? Tutto è là per essere letto, pensato, distrutto. È l’ironia suprema del Sistema? Secerne sempre i propri anticorpi. Tutto è a portata di mano. Supponiamo che state cercando il Rubáiyát di Omar Khayyám? Bene, sono là. Vi aspettano su uno scaffale in una libreria. Francis Bacon diceva che la pittura si era liberata, ma che nessuno sembrava sapere cosa farsene di questa libertà. I pittori congolesi, a loro modo, hanno saputo cosa farne. Come noi, in fondo, in questa conversazione della quale vi ringrazio.
Leggete Omar Khayyám, Monsignore?
Perché no?
Senza vino e senza coppiere, la vita non è nulla.
Nulla senza la melodia di un liuto iracheno.
Più osservo lo stato del mondo,
Più sono convinto che al di là del piacere
quel che resta è nulla.
Grazie Monsignore.
Note:
1. I sapeur sono i membri della Sape (Société des Ambianceurs et des Personnes Élégantes) movimento tipico soprattutto di Kinshasa e Brazzaville.
2. Les Guignols de l’info, (Les Guignols), è un programma televisivo satirico francese, in onda su Canal+ dal 1988, consistente in uno pseudotelegiornale i cui protagonisti sono marionette che imitano personaggi del mondo politico e volti noti in genere
June 22, 2021