loading...

È un art magazine quello che sto leggendo?

Stefano Pirovano

I digital media stanno cambiano il modo in cui il mondo dell’arte comunica. Ecco come le ‘agenzie’ sono nel entrate nel territorio delle riviste.

Quando è venuto alla luce, nel febbraio del 2012, Conceptual Fine Arts è stato il primo art magazine pubblicato da una singola galleria d’arte. La galleria era quella di Fabrizio Moretti. Il modo di comunicare del mondo dell’arte stava cambiando molto velocemente. I social networks erano nel pieno della fioritura e offrivano, teoricamente a tutti, la possibilità di costruire una propria rete di distribuzione fatta di ‘amici’ o ‘followers’. Tutti avevano un account Facebook o Twitter, artisti e curatori l’avevano anche su Tumblr. L’attuale leader di settore, Instagram, cominciava allora a prender piede. Se è vero che molti dei grandi galleristi del passato sono stati anche straordinari editori – si pensi a Ernst Beyeler, impiegato di libreria –  ecco che produrre un art magazine online ci era sembrato il modo migliore per sfruttare la nuova opportunità offerta dai digital media e portare al pubblico più giovane il messaggio culturale di un gallerista, Moretti appunto, che voleva provare fosse possibile parlare di arte antica e arte contemporanea con medesima profondità e competenza. Oltretutto, una volta concordati gli obiettivi di comunicazione (gli stessi che abbiamo oggi), l’editore garantiva agli autori la più completa libertà editoriale.

ole Eisenman
Nicole Eisenman, Breakup, detail, 2011. This work was exhibited for the first time at the Whitney Biennial in 2012.

Gli art magazine delle gallerie

In quel periodo tutte le gallerie che contano sbarcavano sui social, in modi più o meno efficaci, usando i nuovi canali per comunicare sé stesse e i propri artisti. Alcune hanno anche creato riviste ad hoc. Gagosian ha pionieristicamente lanciato la propria tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013. L’art magazine – stampato su carta in quattro numeri all’anno – in principio era interamente finanziato dalla galleria. Oggi Gagosian Quarterly è parte sostanziale del sito web di Gagosian (decisamente il sito di galleria più avanzato in circolazione) e vende pubblicità ai principali brand della moda, pur continuando a parlare esclusivamente degli artisti rappresentati, o trattati, dalla galleria stessa – ed è questo un primo forte indicatore del punto in cui ci troviamo.

Gagosian non è rimasto solo a lungo. Koenig ha iniziato a pubblicare un proprio art magazine nel 2017. Per ora la rivista della galleria tedesca esce due volte l’anno, e come quella di Gagosian parla esclusivamente degli artisti rappresentati dalla galleria e vende pubblicità ai brand della moda. Nel dicembre del 2018 Hauser & Wirth ha invece lanciato Ursula, art magazine pubblicato su carta in quattro numeri all’anno, e non esclusivamente dedicato agli artisti della galleria – almeno, queste erano le intenzioni iniziali: ‘Ursula will showcase not only the work of artists and estates represented by Hauser & Wirth, but also a wide, adventurous swath of the international art world of the 20th and 21st centuries’. Alcuni degli articoli sono pubblicati online anche sul sito della galleria. Un altro gallerista, Marco Voena, lo scorso Novembre ha lanciato il primo numero di Il Libro, art magazine che ha l’obiettivo di raccontare ai non italiani i maestri dell’arte italiana. Il Libro non ha ancora una versione online.

David Zwirner non ha un art magazine, ma in occasione del venticinquesimo compleanno della galleria ha arricchito il proprio sito web di due sezioni molto interessanti ai fini del nostro discorso. La prima si intitola ‘25 years’ e ripercorre in modo esteso e puntuale la storia della galleria. La seconda sezione raccoglie invece una serie di podcast che racconta il lavoro di alcuni dei suoi artisti. Le due sezioni sono a tutti gli effetti prodotti editoriali, che arricchiscono il sito di Zwirner di contenuti divulgativi che in altre epoche sarebbero probabilmente stati destinati ad altri canali distributivi. Simile l’approccio di Gavin Brown, che nella sezione ‘Library’ del suo sito ha pure raccolto video e scritti autoriali dedicati agli artisti rappresentati della galleria.

Le piattaforme editoriali dei grandi musei

Nel medesimo arco di tempo anche i siti di alcuni dei principali musei del mondo sono cambiati, diventando potentissime piattaforme editoriali finalizzate alla diffusione della conoscenza conservata e generata all’interno dell’istituzione. L’esempio migliore è quello del Metropolitan Museum di New York, il primo museo di questa scala a essersi dotato di un dipartimento dedicato ai digital media. E per farsi un’idea delle risorse che il museo ha investito in questo settore strategico basta leggere questo passaggio tratto da un comunicato pubblicato dal Met nel 2015, quattro anni dopo il lancio del sito web. Si noti, tra l’altro, il rilievo che viene dato al fatto che i risultati nel mondo della comunicazione digitale sono sempre frutto di un lavoro svolto scrupolosamente, giorno per giorno:

The Met’s digital work has proven to be one of the Museum’s most effective tools for sharing our collection and scholarship with both new and existing audiences. The team has delivered on both big, buzzworthy projects and small, incremental improvements; it has been at the cutting edge of museum practice and has continued the unsung, day-to-day work that makes the digital Met possible.

Quello del Met è ancora uno dei pochissimi siti web dove l’utente abbia la possibilità di incontrare la voce degli esperti, che nella straordinaria sezione chiamata ‘Online features’ raccontano mostre, opere e collezioni. Oltretutto, nel 2017 il Met ha reso disponibili 375.000 immagini in alta risoluzione di opere d’arte appartenenti alle proprie collezioni. Le immagini sono disponibili gratuitamente e senza limitazioni d’uso secondo gli standard della licenza Creative Commons Zero. Quello stesso anno il sito web del Met ha ricevuto più di 30 milioni di visitatori, il 32% dei quali provenienti dall’estero. L’account Instagram del museo ha oggi 3.5 milioni di followers. Nel 2017 ne aveva già 2.5 milioni. Si tenga anche presente che i visitatori ‘reali’ annuali del Met sono poco meno di 7 milioni – e si rilegga quindi la dichiarazione riportata sopra.

Anche il MoMA ha investito molto nei digital media. Lo scorso inverno ha lanciato il suo art ‘Magazine’, descrivendolo così: ‘Passionate perspectives on art, artists, and ideas that shape culture today’. Anche in questo caso l’art magazine è un contenitore di punti di vista di ‘esperti’ messi al servizio del racconto del museo e della sua attività. E lo stesso si potrebbe dire del Louisiana Channel, un sito web di natura non-profit che ha sede presso il Louisiana Museum. Il sito è stato lanciato alla fine del 2012 e raccoglie ormai più di 500 video. Nulla potrebbe dichiararne meglio la natura dello statment presente sul sito web del museo stesso:

Louisiana Channel contributes to the permanent development of the museum as a cultural platform, expressing a desire to sharpen the understanding of the importance of culture and the arts. We see Louisiana Channel as an integral part of a museum for the 21st century, capable of engaging a new generation in our cultural heritage, in an intelligent present and an ambitious future.

Nemmeno le grandi piattaforme del mercato, cioè fiere d’arte e case d’asta, possono oggi fare a meno di produrre contenuti editoriali. Dal 2015 Christie’s ha il suo ‘Online Magazine’ settimanale, poi diventato cartaceo e bimestrale (come Christie’s Magazine), ora in procinto di tornare a essere solo digitale. Nel 2019 Art Basel ha aperto una propria redazione editoriale, i cui prodotti sono destinati alla sezione ‘Stories’ del sito web della fiera. Frieze questo problema non l’ha mai avuto, essendo la fiera già espressione di un art magazine consolidato. E lo stesso si potrebbe dire del più giornalistico Artnet news, che oltre a informare di fatto serve a ‘vendere’ il database e i servizi a esso connessi.

Conclusioni

Potremmo continuare a fare esempi, ma a questo punto alcuni elementi dovrebbero essere già chiari.

1) La digitalizzazione dei media sta portando le ‘agenzie’ del sistema dell’arte (gallerie, musei, fiere, istituzioni) a produrre e distribuire, secondo le proprie capacità, contenuti editoriali che hanno come principale caratteristica quella di essere strumentali alla missione dell’agenzia stessa (questo è un trend che non interessa solo il mondo dell’arte).

2) in questo scenario, la ‘vecchia’ stampa di settore soffre, e deve quindi cercare di vendere servizi o prodotti altri rispetto alla pura informazione. Questo finisce per inficiare il teorico valore aggiunto rappresentato dell’indipendenza editoriale.

3) se l’agenzia ha natura commerciale, il tipo di contenuti che questa produce ha necessariamente carattere promozionale, e non potrebbe essere altrimenti (e infatti nessuno degli art magazine delle gallerie che abbiamo citato è un’attività non profit). L’unico ‘garante’ dei contenuti è l’agenzia stessa, che diventa anche l’unico contesto di riferimento dell’informazione.

Oltretutto, per quando sia teoricamente possibile, produrre contenuti qualitativi e distribuirli in modo efficace è un costo che non tutte le agenzie del mondo dell’arte possono sostenere, a prescindere dal problema non secondario inerente alla contestualizzazione del messaggio. Ma forse il futuro inizia proprio da qui.

March 10, 2020