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Lucy Stein: Digitalis purpurea, una re(in)trospettiva

Stefano Pirovano

Vieni! E fu molta la dolcezza! molta! / tanta, che, vedi… (l’altra lo stupore / alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta / con un suo lungo brivido…) si muore!„

Maria, ricordo quella greve sera.
L’aria soffiava luce di baleni
silenzïosi. M’inoltrai leggiera,

cauta, su per i molli terrapieni
erbosi. I piedi mi tenea la folta
erba. Sorridi? E dirmi sentia, Vieni!

Vieni! E fu molta la dolcezza! molta!
tanta, che, vedi… (l’altra lo stupore
alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta

con un suo lungo brivido…) si muore!„

da Digitale Purpurea, by Giovanni Pascoli

I fantasmi non sono sempre innocui

Veniamo da un periodo in cui c’è stata molta attenzione nei confronti della pittura ‘iconica’. L’onda ‘figurativa’ è iniziata nel 2015, dopo lo scoppio della bolla alimentata dalle aste dei baby artisti. Questi dipingevano quasi sempre quadri ‘aniconici’ ed ecco che la prevedibile reazione è stata quella, dopo la sbornia, di tornare con i piedi per terra. In quel periodo Lucy Stein era già sulla scena da qualche tempo, dopo aver studiato alla Glasgow School of Arts (tra il 2001 e il 2004), ed essersi perfezionata a De Ateliers di Amsterdam (2004-2006). Già dipingeva persone, animali e oggetti, per parlare di ciò che che vedeva dentro sé stessa, nel modo che sentiva più adatto al proprio bisogno di esprimere l’esperienza. Su questo sostantivo, così fondamentale per l’epoca in cui ci troviamo, torneremo a breve. Prima occorre chiarire un’altra questione qui fondamentale. Le arti visive sono molto diverse dalla musica, ma a volte l’una più aiutare a comprendere l’altra. Nella musica ci sono i generi. Rock, jazz, classica, folk, e via dicendo. Il jazz appartiene alla seconda metà del Novecento, ma nulla impedisce che oggi si possa scrivere uno straordinario brano jazz. Nulla impedisce nemmeno che questo brano, pur non essendo il jazz la musica del momento, riesca a conquistarsi un posto nella storia della musica. Qualcosa del genere vale per la pittura e per certe sue categorie. L’espressionismo non è un fatto che inizia e finisce con i pittori di Die Brucke o con i Fauve, con Emile Nolde o Paula Modersohn-Becker, tutti movimenti e autori a cui il lavoro di Lucy Stein potrebbe essere ricondotto (qui spiego come anche qui si possa parlare di effetto anchoring). Questi sono i padri fondatori della categoria, così come Charlie Parker, Miles Davis, o Duke Ellington lo sono per il jazz. Lo stesso Picasso, non è forse stato per tutta la vita un raffinatissimo pittore espressionista?

Lucy Stein
Lucy Stein, Gambas al Pil-Pil, 2011; oil on canvas, inch 35.1 x 47. Courtesy Private Collection, Switzerland.

La prima mostra personale di Lucy Stein da Gregor Staiger a Zurigo risale all’autunno del 2011. Si intitola The last Bohemian on the Costa Blanca. L’estate prima l’artista cura una mostra a Jesus Pobre, un villaggio nella provincia di Alicante dove dalla fine degli anni Sessanta la famiglia Stein ha una casa di vacanza. Questa mostra si intitola The Invincible summer within. Tra gli artisti invitati ci sono Marlene Dumas, Shana Moulton, France Lise McGurn, Andrew Kerton, Henry Guy, Habima Fuchs, Alex Neilson. La mostra di Zurigo è una risposta ‘viscerale’ (Stein) a quell’esperienza, intrisa di spirito comunitario e gioia estiva. Il dipinto intitolato Gambas al Pil-Pil ne è parte, e viene scelto per illustrare la recensione che della mostra Quinn Laimer scrive per il numero di dicembre di Art Forum. Lucy Stein, che è nata a Oxford, ha 32 anni in quel momento. La galleria Staiger ha aperto l’anno prima. Una figura femminile in costume da bagno si china su un enorme gambero rosso, che sembra pesantissimo (oppure è leggero perché è un gonfiabile?). Il Pil-Pil è un intruglio Andaluso a base di chili, peperoni, prezzemolo e aglio con cui si condiscono i gamberi. L’immagine è enigmatica ed evocativa al tempo stesso. Guarda all’estate in riviera con colori saturi e marcate linee nere di chiara matrice espressionista; ma l’artista potrebbe volersi riferire alle aragoste gonfiabili di Jeff Koons (2003). O, come queste, potrebbe rispondere a Salvador Dalí, che chiama da Port Lligat, solo un po’ più a nord. La figura femminile domina il gambero come se invece che un gambero si trattasse di un toro. Dopotutto nel viso e nel piede destro della donna – che l’occhio nero del crostaceo fissa stupidamente – potrebbe esserci una Demoiselle d’Avignon.

L’anno successivo Lucy Stein espone a Londra da Gimpel Fils, che come è consuetudine nella sua galleria le chiede di portare con sé un secondo artista. La mostra si intitola Manderley, come la casa ‘spiritata’ intorno alla quale si svolge la vicenda raccontata in Rebecca dalla scrittrice Daphne du Maurier, nume tutelare della mostra. Stein sceglie di lavorare con Carole Gibbons, che come lei è di Glasgow, ma che rispetto a lei è quasi cinquant’anni più vecchia. Stein ha conosciuto l’artista anni prima in Spagna, frequentando suo figlio, Henry Guy – che poi non manca di invitare alla mostra di Jesus Pobre. Gibbons gode di fama locale, ma in lei Stein trova un punto di riferimento antropologico, culturale, figurativo – qui il link a uno scritto di Lucy Stein a questo riguardo. Carol Gibbons e Daphne du Maurier sono per Lucy Stein modelli di ruolo, che la aiutano a tracciare il perimetro della propria identità artistica e dei propri interessi. L’esperienza vissuta nella realtà si affianca a quella immaginata attraverso la letteratura femminile modernista, punto fermo della sua formazione. La femminilità è un vessillo che spesso si risolve nel tema della dualità. La Cornovaglia e la cultura celtica sono quindi una logica conseguenza di questo approccio, come ben si intravede in altre due opere di quel periodo, Where the Celts go to die (2011) e il bellissimo The Curse. Il primo è parte di una serie dedicata alle donne bretoni e segna il momento in cui Lucy Stein comincia ad aprirsi un tema ‘locale’ che ha ispirato moltissimi artisti, a partire da Paul Gauguin.

Paesaggio e figura sono parte dello stesso livello compositivo, si compenetrano. Compare il tema della dualità, che l’artista declina, al femminile, anche in The Curse. Le due figure hanno la medesima pettinatura, sono parte della stessa persona. L’una possiede l’altra. Si noti la somiglianza formale tra la gamba destra della donna bretone e il braccio destro della figura a sinistra di The Curse. La spiritualità ancestrale e mistica dell’antica civiltà celtica diventa presto uno strumento di indagine interiore, un’indagine che continua nel solitario Canada, dove Lucy Stein si reca nel 2012 per prendere parte a una residenza per artisti presso il Centre for arts and creativity di Banff, vicino a Calgary. Psyche è frutto di questa esperienza, dove ai prati e alla pietre primitive si sostituiscono le montagne. In Canada Lucy Stein conosce la pittrice canadese Vanessa Disler, con la quale molto collaborerà negli anni successivi. La figura dipinta tiene la luna nel proprio braccio. La sua posizione è una sintesi tra il personaggio dipinto in Gambas al Pil-Pi, la donna bretone di Where the Celts go to die e le due figure di The Curse. Si noti l’uso di dipingere una parte del corpo come se appartenesse a un altro dipinto, con luce diversa. In Psyche compare anche l’elemento astrale che ritorna nel piccolo Berries, dipinto l’anno successivo.

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Lucy Stein, Berries, 2013; oil, oil stick and pencil on gessoed panel, cm 50 x 50. Note: Death Shanties used this painting as a cover for the album titled ‘Crabs’, from 2014. Courtesy Private Collection, Italy.

L’architettura rossa inquadra una figura che qui sembra confrontarsi con la propria maschera. Il 2013 è l’anno della seconda mostra di Lucy Stein da Gregor Staiger. L’artista comincia a interessarsi al tema della fertilità e ai rituali agresti ad essa dedicati. I riferimenti al modernismo si fanno meno puntuali, a fronte di una pittura più istintiva e solare. Breath of God è parte di un gruppo di lavori ispirati al mito di Leda e il cigno e alla versione che alla metà del Settecento ne da Francois Boucher. La pittura di Lucy Stein è cambiata. La posizione del becco del cigno è sfrontata, la figura femminile si offre, come si offriva la donna bretone (ma non quelle di Gambas al Pil-Pil e Psyche).

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Lucy Stein, Breath of God, 2013; oil, oil stick, spray paint and pencil on gessoed panel, cm 50 x 50. Courtesy Private Collection, Milan.
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Lucy Stein, Utopian Tubes, 2013; mixed media on linen, cm 170 x 160. Courtesy Sammlung Migros Museum für Gegenwartskunst.

Il bordo della piscina di colore azzurro dove la scena ha luogo porta tracce decorative simili a quelle che si vedono in Berries, di cui Breath of God condivide anche la cornice architettonica entro cui è inscritta la scena – l’artista in questo periodo si interessa all’universo di motivi delle arts and crafts inglesi ottocentesche, e ai bordi decorati di ricami e arazzi. Il tema della fecondazione di trova anche in O!, incluso come anche Breath of God nella seconda personale da Staiger. In questo caso però l’uovo aperto fa da testa a un personaggio maschile, sofferente su un sofà e capace appena di tenere in mano una foglia. È un Humpty Dumpty disarmato, svuotato, che nessuno può rimettere insieme. Come il personaggio della filastrocca inglese anche quello dipinto da Stein è invadente e fragile. Una donna sullo sfondo lo veglia, ieratica come un santo medievale. Il tema torna, con nuova luminosità cromatica, in Utopian Tubes, pure del 2013. Due enormi cigni, che rappresentano l’organo femminile a cui il titolo fa riferimento, sovrastano un corpo supino, nudo dalla vita in giù, su cui un’altra figura veglia. I cigni sono maestosamente simmetrici, leggeri e dinamici, separati in corrispondenza del petto da due elementi astronomici, gli stessi pianeti antropomorfi comparsi in Psyche, e poi visti in Berries.

La pittura di Lucy Stein è ormai diventata un linguaggio che ha strutture e tematiche ricorrenti. Il grifone alato che compare sulla sinistra di Under a Ginger Moon, dipinto nel 2015, ricompare l’anno successivo in Bee Cumming at Boscawen’Un. La sorgente di questo elemento è un manoscritto medievale, che diventa fonte di esperienza, alla stregua delle altre incontrate finora. Tra queste la cultura celtica e la letteratura femminile modernista continuano a occupare un ruolo privilegiato. Le autrici che segnano il percorso di Lucy Stein sono Jean Rhys, Doris Lessing, Clarice Lispector, Djuna Barnes, Sylvia Plath, Virginia Woolf. A quest’ultima Lucy Stein dedica una serie di lavori che poi partecipano alla collettiva Virginia Woolf – An exhibition inspired by her writings (Tate St. Ives, Pallant House, the Fitzwilliam Museum, 2018). Nel caso di Under a Ginger Moon, uno dei rari monocromi dipinti dall’artista, va notata la parte di sinistra del dipinto, giocata sull’ambiguità tra quella che potrebbe essere una galleria (anatomica più che architettonica) oppure un grande occhio – magari quello dell’arcigno grifone che tiene nel becco la testa sognante? Sullo sfondo c’è The Wise Wound, libro dedicato ai molti aspetti del ciclo mestruale, scritto da Penelope Shuttle e dal marito Peter Redgrove nel 1978. Il libro è alla base della costellazione di suggestioni da cui nasce la terza personale da Gregor Steiger (Moonblood/Bloodmoon, 2015) e presta il titolo a una performance presso i Porthmeor Studios di St. Ives, dove Lucy Stein è parte del Tate St Ives Artist Programme.

Il senso comunitario da cui era nata la prima collettiva a Jesus Pobre porta ora Lucy Stein a guardare oltre la pittura, nella musica free jazz e folk, per esempio, con la band Death Shanties. Per quanto riguarda la musica folk, Lucy Stein è interessata soprattutto al modo in cui le canzoni tradizionali vengono tramandate e modificate dagli autori che le interpretano. Le piacciono cantanti come Shirley Collins, Anne Briggs, Sandy Denny. Altra figura ricorrente nei dipinti di questo periodo è quella del marinaio. Compare a destra di Digitalis pussy juices e a sinistra di Female knight of the realm (entrambi del 2017). Il personaggio, virile ed effeminato al tempo stesso, è tratto dalla celebrazione nella cittadina di Padstow, sulla costa nord della Cornovaglia, del May Day, che è soprattutto un richiamo, per gli abitanti di questo paese di marinai e pescatori, verso le proprie origini, diremmo, antropologiche. In Female knight of the realm compaiono altri due elementi interessanti. Il primo sono le piccole piastrelle bicrome, che dal 2015 vengono introdotte nel lavoro dell’artista come ‘archivi di simboli personali’ (Stein), che possono stare fuori, oppure dentro al dipinto. Nell’opera in questione se ne trovano tre; la loro origine va cercata nel paesino di Manises, in Spagna, dove l’artista ha studiato ceramica. L’altro elemento vernacolare, nella parte alta del dipinto in corrispondenza della fronte del marinaio, è l’allineamento circolare di pietre di Boscawen’Un, presso St Buryan, nell’ovest della Cornovaglia. La fascinazione per questo luogo torna in Bee Cumming at Boscawen’Un, dipinto pensato per raccontare l’esperienza mistica di stare a mezzogiorno al centro di questo cerchio magico, attraversato da energie erotiche, esoteriche, folkloristiche, con il grifone che tiene nel suo becco la testa di una figura femminile di fianco alla quale è rappresentata una divinità femminile pagana.

Lucy Stein, Cosmic knockers, 2018; oil, oil sticks, charcoal on canvas, cm 160 x 180. Courtesy the artist and Galerie Gregor Staiger, Zurich.

È questa visione, che in altre epoche avrebbe chiamato immediatamente in campo le mille porte della percezione e le loro chiavi, che ci permette di tornare alla questione che abbiamo posto all’inizio guardando a Cosmic Knockers – opera guida della quarta personale da Steiger, nel 2018. Il lavoro di Lucy Stein è soprattutto un discorso sull’identità culturale, che finisce per parlare dell’importanza per l’individuo e per la comunità a cui appartiene delle ‘radici’, quelle stesse radici a cui è dedicato, per esempio, il Castello Errante di Hayao Miyazaki, altro artista ‘insulare’. Questa identità si forma nell’esperienza personale, ovvero la materia grezza che poi l’artista lavora. Ma cosa succede quando l’esclusività di questa esperienza è saccheggiata da un’entità estranea e interessata a trarne vantaggio? Cosa rimane dell’individuo e del messaggio che solo a lui prima apparteneva? Può il saccheggio delle informazioni personali finire per privarci della necessità di esprimerle ad arte? Ecco che potremmo presto aver bisogno di quei battenti cosmici. I fantasmi potrebbero cominciare a esistere davvero, ma secondo molti studiosi – tra cui, giusto per citarne alcuni, John Bellamy Fosters, Julie E. Choen, Joseph Turow o Shoshana Zuboff – non sarebbero affatto innocue come quelle delle leggende inglesi. Nota dell’artista: “Per me i fantasmi non sono sempre innocui – sono presagi di pericolo e di sventura, e dobbiamo navigare vicino a loro, e prendere nota dei loro messaggi per poterci muovere in realtà psicologiche e biologiche in continuo mutamento!

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Lucy Stein near Alesteir Crowley/ Bryan Wynter house, Zennor, 2015.

Lucy Stein, un’intervista

Come artista, cosa pensi di aver raggiunto e cosa invece pensi invece di dover ancora ottenere?

Lucy Stein: Rispondo a questa domanda in circostanze così particolari e al tempo stesso inaspettatamente globali. Ovvero in “isolamento” a causa del Coronavirus, con un bambino appena nato e un bimbo piccolo, entrambi in costante bisogno di cure materne. In un momento come questo mi è difficile descrivere chi sono come artista, per quanto ciò non si possa distinguere da chi sono come genitore, moglie di un collega artista, come persona che si deve occupare della casa in cui vive. Fare arte in questo momento non è esattamente all’ordine del giorno; eppure il pensare all’arte, o il pensare attraverso di essa, è sempre stato un caposaldo della nostra casa e sta alla base del nostro stile di vita. 

Sarebbe facile congratularmi con me stessa anche solo per il semplice fatto di essere ancora sulla scena. ma ho sempre sentito l’essere artista come una vocazione; perciò, in un certo senso, ogni mossa che ho fatto per superare l’autocompiacimento mi sembra già un successo in sé. Intendo dire che ho dovuto riconoscere le condizioni privilegiate che mi hanno permesso di nutrire quel sentimento di vocazione e di non fermarmi al cosiddetto “talento”; perché il talento può seriamente minacciare il potenziale artistico di un giovane. Allo stesso tempo, ho anche dovuto lavorare sodo per non diventare una “mediocre custode” del mio talento – come direbbe F. Scott Fitzgerald.

Da studente d’arte avevo difficoltà ad accettare gli insegnamenti. Nonostante il lavoro mi desse una grande carica emotiva sono riuscita piuttosto presto a raggiungere la mia zona di comfort, che mi ha poi fornito un cuscinetto contro qualunque cosa mi intimidisse. Solo pochi tutor riuscivano a comunicare con me. Alcuni dei miei primi lavori erano pigramente personali, nonostante gli riconoscessi una certa onestà emotiva. Alcuni di essi erano buoni. Andare oltre me stessa e quella mia zona di comfort è stato quindi un bel risultato, così come l’essere rimasta fedele e legata a quella carica profonda, o oscura. C’è una qualità quotidiana, che si potrebbe chiamare “meschinità” del privato, che ho cercato di mantenere, anche se mi sento più a mio agio a dipingere opere che contengono il sentimento dell’arte e dell’universale. Lo reputo un approccio femminista alla pittura che va oltre il soggetto/oggetto e si estende al disordine dei lati dei miei quadri. I miei lavori sono logorati e coperti da impronte digitali sporche (anche se non sempre nelle immagini digitali lo si riesce a vedere). Suppongo che un risultato sia che, al loro meglio, i miei dipinti possono dimostrare un pensiero paradossale in movimento. C’è quindi ancora molto da fare. Sono molto compulsiva come artista e devo migliorare nella fase compositiva. Vorrei lasciare un corpus coerente di quadri, testi, gentilezze, esempi positivi in grado di trasmettere vita ai vivi.

Nina Royle and Lucy Stein at Tregeseal stone circle 2017, photographed by Daisy Rickman.

Com’è cambiato il soggetto delle tue opere nel corso degli anni?

Lucy Stein: Ho sempre dipinto la donna, la forma femminile, e in qualche misura la bellezza femminile. Come molte altre artiste, ho cercato di proporre uno sguardo femminile, spesso dalla privilegiata posizione in cui la trova la musa. La mia interpretazione è stata quella di suggerire l’ambivalenza, la paura e la vergogna che deriva dall’incarnare il dualismo corpo/mente. Ho usato metafore e tecniche pittoriche per descrivere atmosfere psicologiche complicate, spesso disturbate. Il che non è insolito, visto che la pittura come disciplina e come medium si presta molto bene a ritrarle. I miei dipinti hanno rappresentato ciò che è successo nella mia vita. A volte si riferivano a mia madre, o almeno erano matrilineari, letteralmente o secondo il modo in cui Virginia Woolf pensa attraverso le nostre madri. Spesso le mie figure sono state ambientate in un paesaggio, ma il carattere letterario, o anche narrativo di questa relazione, è stato per me più importante dell’indagine figurativa/pittorica.

Il mio punto di inizio è cambiato nel corso degli anni. Prima dipingevo molto partendo dalla mia testa, o dalla mia vita interiore; ora sono finalmente arrivata al punto in cui posso usare fotografie, perfino un proiettore, e le mie opere hanno ancora una qualità potente che per me funziona. Ora sono finalmente in grado di effettuare un’appropriazione diretta. Nel 2010 ho avuto quella che chiamo pomposamente la mia ‘epifania celtica’, quando mi sono trasferita sulla costa occidentale dell’Irlanda, e da allora sono stata posseduta dalle fantasie del mondo celtico, con il suo folklore, il misticismo, e il suo potenziale di trasformazione mitica. Mi si è aperto un mondo di possibilità. Partendo da questa ricerca ho dipinto opere per un decennio, durante il quale mi sono pienamente inserita nel mondo del fantastico, vivendo e lavorando a St Just, nella Cornovaglia dell’est, per almeno cinque anni. Ho anche fatto per quasi cinque anni un percorso di psicoanalisi intensiva che mi ha permesso di districarmi con maggiore agilità tra i miei sogni e le mie ossessioni.

Oltre a rappresentare la mia vita ordinaria, considero il mio tempo vissuto qui, a St Just, come un’indagine incarnata nella cultura esoterica autoctona. Con il procedere della vita/progetto mi sono interessata a ciò che spinge le donne a ricorrere alla pratica magica e al gesto rituale. Questo risale al mio precedente lavoro, che riguardava il ricorso di una ragazza all’automedicazione, che può anche esser vista anche come una forma di espressione rituale. 

C’è un artista la cui vita ti ha ispirato o ti ispira ancora? 

Lucy Stein: Carole Gibbons di Glasgow è una grande pittrice, un personaggio vivido e ispiratore e, per come è stata lasciata fuori dal sistema dell’arte, un racconto ammonitore.

Carole Gibbons, White Horse in Landscape,1987, oil on canvas,142-x-142-cm.

Come descriveresti il tuo studio?

Lucy Stein: Lavoro a Newlyn, che è a sei miglia di macchina attraverso una landa da casa mia, a St Just. Lavoro in una vecchia scuola elementare, situata su una ripida collina vicino a uno dei porti di pesca più trafficati della Gran Bretagna. È una città molto suggestiva, dove pittura e pesca convivono da secoli. Ho rilevato lo studio circa tre anni fa dalla pittrice Rose Hilton, vedova del pittore Roger Hilton. Purtroppo è scomparsa l’anno scorso. Prima che ci fosse Rose lo studio era del pittore iraniano Partou Zia. Faccio parte di una forte stirpe di pittrici figurative. Mi sento custode di questo grande spazio, mi sento molto a mio agio qui. Di solito mi sento così negli studi; quando funzionano diventano come un’altra pelle. Quando non funzionano, li distruggo.

Le finestre occupano due lati dell’immensa stanza, che ha un soffitto molto alto. Un lato guarda verso il mare, anche se per vederlo dovrei stare in piedi sul tavolo. Le altre finestre si affacciano sugli atelier di due miei cari amici e collaboratori, gli artisti Nina Royle e Simon Bayliss, che attualmente vivono a casa della mamma di Nina, Dominique. Nina ha vissuto con noi per alcuni anni. L’artista turco Ilker Cinarel lavora dall’altra parte del corridoio. Siamo tutti buoni amici.

Lo studio è molto bello. C’è un bruciatore a legna e un grande magazzino che la proprietaria mi ha dato un anno fa. C’è un divano con una coperta gallese che mi ha regalato mia madre. Ci ho dormito molto all’inizio e alla fine di entrambe le mie gravidanze. Una volta alla settimana Jarvis viene a pulire e mi aiuta a tenere tutto in ordine. Jarvis è apparso dal nulla circa un anno e mezzo fa ed è un dono del cielo.

Da quando ho avuto Mary May, nel 2018, di solito mi precipito in studio, lavoro senza sosta, e poi scappo via. Da quando ho avuto Sylvia, che ha solo poche settimane, non ci sono più entrata… ma tanto siamo in isolamento. Lochi e isolamento…

Non ascolto granché ora, a parte Radio 4 della BBC e qualche audiolibro. Ascoltavo sempre musica folk, ma al momento è troppo triste. Non so cosa ascoltare adesso. Il Krautrock può essere ideale in studio, ma al momento preferisco il silenzio.

Cornwall Living Dead tea towel featuring Bliss (Lucy Stein and Simon Bayliss) produced with their film “Regression” for Kingsgate Workshops, London, 2016.

In che modo performance, musica e video entrano in relazione con la tua pratica pittorica?

Lucy Stein: Le mie performance sono occasionali e molto ispirate! Possono accadere solo se ho intense relazioni con altri artisti e mi è stata data l’opportunità di spaziare in qualcosa che abbia soldi e sostegno, e le variabili specifiche implorano di essere attivate. Cerco di non metterle in scena solo per il gusto di farlo, per integrare una mostra o per far sì che la gente venga per ‘qualcosa’. Al momento sono totalmente presa dai miei bambini e il tipo di performance che mi piace fare è inimmaginabile, perché oscuro e un po’ folle. Potrebbe spaventarli. Detto questo, ultimamente ho visto molti spettacoli dei Cbeebies “In the night garden” (Nel giardino notturno) e “Teletubbies”… è puro genio, e piuttosto inquietante. I bambini sono davvero sofisticati.

Alcune delle performance degli ultimi cinque anni sono state legate alle stagioni, direttamente o per celia. Con il mio amico Mark Harwood, ad esempio, ho organizzato ad agosto qualcosa al Cafe Oto di Londra, nel caldo rovente che si tesseva intorno alla suggestione di una depressione natalizia. Cerco spesso di reinterpretare le tradizioni agricole popolari, è un modo per produrre e ‘mietere’ atmosfere complesse. Nelle performance e nei dipinti spero di trasmettere una carica emotiva, uno sfaldamento degli strati della realtà, un senso inquietante del contesto storico, un riconoscimento della saggezza ricevuta come reazione intima e viceversa… in definitiva, una rivelazione dell’essere umano come soggetto a una moltitudine di forze che si prendono gioco di noi in una sola volta. Idealmente, è uno strappo del velo. 

I video che ho prodotto, Polventon con Shana Moulton e Regression con Simon Bayliss, sono stati l’unica via per poter lavorare su cose che non potevano essere compiute in nessun altro modo. Sono lavori sono pieni di idee. Per l’opera Regression, con l’aiuto di un ipnoterapista, siamo regrediti alla vita passata in un ‘fougou’, che è una camera sotterranea preistorica. Mi sono sentita come se avessi preso degli acidi, cadendo poi in grave depressione per le sei settimane successive. Molte idee mi vengono mentre sogno; uno dei primi motivi per produrre Polventon è stato un sogno in cui un ragazza ‘gotica’ di nome Gethsemane mi parlava nel soggiorno della casa che mio nonno ha costruito e nel quale si è suicidato, che si chiama appunto Polventon e che si trova a monte della costa nord della Cornovaglia. La Cornovaglia è sinonimo di psiche per molte persone. È inevitabile, come lo è un genitore.

Collabori ancora con il gruppo dei Death Shanties? Questo lato del tuo lavoro come si è evoluto nel corso degli anni?

Lucy Stein: No, non lo faccio più. Ho alcune idee per opere su acetato e light box per un progetto a cui sto lavorando con Sarah Hartnett nel quale viaggiamo lungo la Mary ley Line che attraversa il sud dell’Inghilterra. Una ley line può essere molte cose per molte persone; per noi rappresenta canali energetici dove è più facile sollevare il velo. Molto del materiale che ho usato per gli spettacoli dei Death Shanties proviene da un viaggio attraverso il Regno Unito, durante il quale ho visitato antichi siti, vecchie chiese, case di campagna, giardini, ecc. Ho stampato moltissimi utensili etnografici su acetato, e poi con questo materiale ho eseguito dal vivo collage e dipinti su light box. In questo nostro viaggio lungo la ley line, Sarah ed io raccogliamo anche cianfrusaglie, che confluiranno in dipinti e performance che faremo in varie istituzioni lungo il percorso, per finire a Great Yarmouth l’8 maggio 2022 (se siamo ancora vivi). Tutti i miei progetti si alimentano a vicenda.

Che ruolo credi abbia la pittura nella nostra società?

Lucy Stein: Il mio rapporto con la pittura ha sempre avuto un elemento di arte-terapia, che credo vada bene, purché non sia solo questo. Pensare attraverso la pittura da qui in Cornovaglia Occidentale in questo periodo della mia vita è molto diverso da com’è stato in altri momenti, quando vivevo ad Amsterdam, Berlino, Glasgow o Londra. Per non parlare del contesto attuale – le emergenze pubbliche del virus e private dei bambini. Non lo si poteva immaginare: il nostro neo eletto Primo Ministro thatcherista che malato dal suo letto proclama che, dopotutto, esiste una cosa come la società. Credo che la ragione per cui fatico a rispondere a questa domanda sia perché non riesco a capire cosa sia o possa essere la società in questo momento. 

È più facile parlare di culture. Qui in Cornovaglia Occidentale c’è una cultura di devozione alla pittura (e alla scultura) modernista britannica, con Tate St Ives come luogo di culto. 

È sia ridicolosamente antiquato – vecchietti dalla pelle bianca e i capelli bianchi sotto i loro berretti, signore con gonne e sciarpe di velluto fluenti e occhi marcatamente truccati –, sia totalmente ammirevole e stimolante. L’effetto palliativo di un oggetto portatile, amato perché dipinto, assume una nuova dimensione in un momento in cui questa generazione dei baschi muore in solitudine negli ospedali in cui ci sono solo cose inanimate a confortarli. C’è anche questa selvaggia cultura esoterica, in cui la pittura convive con la pratica rituale, e ci sono alcuni pittori molto raffinati che fanno biglietti d’auguri e libri di magia illustrati. L’idea di un orgoglio regionale o parrocchiale nella pittura è importante per me, forse perché sono cresciuta a Oxford, luogo letterario senza una storia della pittura di cui parlare; ma ho sempre avuto quest’affabile connessione con la Cornovaglia. Qui in Cornovaglia Occidentale, come a Glasgow, mi trovo immersa in quello che può sconfinare in un nazionalismo etnico ostile; ma qui essere un pittore o un artista di qualsiasi tipo ti dà il passaporto di appartenenza, perfino con i contadini e i pescatori. È semplicemente quello che la gente fa qui. Ma non ha alcuna attinenza con la società, per quanto ne so. Le vecchiette con gli occhi marcatamente truccati ritirano ancora la posta all’ufficio postale e continuano a votare per il nostro folletto creazionista conservatore Derek Thomas.

Leggo Isabella Graw o Barry Schwabsky che spiegano tramite una molteplicità di punti di vista e di ragioni del perché la pittura è un mezzo vincente, e si sentono sia acutamente pertinenti che leggermente smorzati. 

Isabelle Graw parla di vitalismo, un’interessante lente attraverso cui vedere queste prese di posizione sulla pittura. Tuttavia, illustrare con successo la meccanica della società non è la stessa cosa che avere un ruolo in essa.

La verità è che pochissimi pittori contemporanei mi parlano in modo significativo e la maggior parte delle volte rimango delusa quando vedo le cose dal vivo. Personalmente mi interessano la superficie, il lirismo, l’arguzia sottile, il pathos, la sagacia nell’affrontare l’ignoto, i tratti contro-intuitivi, l’atemporalità, qualunque cosa significhi…  Amo il lavoro di Elizabeth McIntosh, Carole Gibbons, Rita Ackermann… (Sono consapevole che sto usando molti puntini di sospensione in quest’intervista, ma i puntini di sospensione sembrano un certo tipo di tempo).

Nella mia società ideale, le persone sarebbero sensibili a queste qualità e a questa alfabetizzazione pittorica, ma forse intendo solo introdurvi così al mio personale gusto e alla mia sensibilità. Penso che ci sia stato un atteggiamento alla “se non puoi batterli, unisciti a loro” tra gli artisti e altre persone sensibili, ma forse ora questo cambierà.

Procession Mayday Padstow, 2017.

Se potessi, quale sarebbe la prima cosa che cambieresti nel sistema dell’arte?

Lucy Stein: Nel Regno Unito è molto semplice. Riporterei di nuovo le lezioni di arte nelle scuole, dato che sono state relegate a un’attività secondaria. Mi sbarazzerei delle tasse scolastiche e introdurrei nuovamente le borse di studio. De-privatizzerei le università e le scuole d’arte. L’ultimo decennio ha scatenato l’inferno tra gli studenti e i tutor delle scuole d’arte del Regno Unito. La totalizzante nobilitazione della mente è stata raggiunta con un ulteriore paranoia, di tipo non particolarmente interessante.

Ci sono un colore o una forma che, come pittrice, non ami?

Lucy Stein: In effetti il viola cattolico profondo. Una decina di anni fa ho vissuto con l’artista Nicolas Party a Glasgow e ricordo che una volta mi ha chiesto perché dipingevo sempre con questo viola; effettivamente non me ne ero resa conto, ma aveva ragione, il viola cattolico è brutto da morire.

November 16, 2022