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Gabriel Kuri su Lucio Fontana, un punto di vista

Piero Bisello

Una conversazione con Gabriel Kuri a proposito dell’Ambiente Spaziale di Lucio Fontana, per esplorare i confini tra installazione e scultura.

Qualche mese fa, una visita nello studio di Gabriel Kuri a Bruxelles si è trasformata in uno scambio stimolante sulla storia dell’arte. Coloro che hanno avuto occasione di chiacchierare con l’artista messicano sanno bene che Gabriel Kuri può rivelarsi un vero intenditore di arte del passato. La conversazione in studio è stata affascinante, ha offerto diversi riferimenti utili per aprire le porte sul suo lavoro. La nostra comprensione della pratica di Gabriel Kuri, infatti, può farsi più sottile ad ogni suo riferimento a un artista o un’opera d’arte dalla storia. Tuttavia, il suo riferimento a Lucio Fontana ci ha in qualche modo spiazzato. Che cosa mai potrebbero significare le tele tagliate, le ceramiche dall’aspetto non-finito e le installazioni leggermente funky dell’artista argentino del XX secolo per Gabriel Kuri, noto invece per il suo elegante riutilizzo del quotidiano?

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Detail of Gabriel Kuri: spending static to save gas at Oakville Galleries, 2018. Courtesy the artist and Oakville Galleries Photo: Jimmy Limit.

Proprio per chiarire il rapporto tra il lavoro di Kuri e quello di Lucio Fontana, dopo la visita nel suo studio abbiamo continuato a fargli domande via mail su questo tema. Questo nuovo episodio della nostra serie “At The Show With The Artist” riporta lo scambio di messaggi di cui parliamo [qui il link alle sezione. Ndr]. Nel rispondere ai nostri dubbi, Gabriel Kuri ha offerto il suo punto di vista sulle opere storiche di Lucio Fontana, e si è concentrato sull’aspetto del lavoro di quest’ultimo che ci è sembrato il punto di incontro più plausibile tra i due, ovvero il lavoro svolto da Fontana in relazione all’ambiente architettonico. Le sue molteplici versioni di Ambiente Spaziale del periodo tra 1948 e il 1968, e le complesse installazioni di luci al neon in grado di dialogare con i volumi architettonici, infatti, ci hanno ricordato alcune recenti mostre di Gabriel Kuri. Entrambi gli artisti hanno infatti offuscato il confine tra scultura e installazione, stimolando le intuizioni di filosofi dell’arte in cerca di definizioni, o i visitatori desiderosi di una vera esperienza estetica.

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Mostre come quelle di Dublino o di Oakville sono installazioni piuttosto che semplici presentazioni di oggetti. Ti trovi vicino alla visione di Fontana rispetto alla scomparsa dell’opera d’arte come oggetto, un concetto alla base delle sue installazioni, e che forse è stato influenzato dal contesto delle avanguardie storiche prima della Seconda guerra mondiale?

Gabriel Kuri: Questo è un buon punto. Penso che potreste aver ragione nel suggerire che, almeno per quanto riguarda i miei ambienti, come in Fontana, mi rivolgo al percorso delle avanguardie storiche europee germinate prima della Seconda Guerra mondiale. Parlando in termini molto ampi (il che può sembrare accademico e vecchio stile, molto da XX secolo, ma devo dire che non mi dispiace affatto) credo che le opere d’arte che sono costruite per durare, il più delle volte, provengano dalla forma. Sono il prodotto di ore di forgiatura del materiale, di lotta con la forma, di non voler indovinare, ma piuttosto dall’intenzione di conoscere. Il lavoro può anche mirare a qualche ambizione metafisica o disquisizione filosofica, o persino a una dichiarazione politica; ma il suo fondamento è nella forma, è da lì che esso trae la sua forza.

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Installation view of Gabriel Kuri, sorted, resorted at WIELS, Brussels, 2019. Courtesy the artist; Sadie Coles HQ, London; kurimanzutto, Mexico City, New York; Galleria Franco Noero, Turin; WIELS-Contemporary Art Centre, Brussels; Esther Schipper, Berlin Photo © Andrea Rossetti

Questo è probabilmente il motivo per cui mi sento costantemente attratto dal lavoro di Fontana, in qualunque mezzo esso si esprima. Ciò è dovuto alla sua implacabile sufficienza nella forma. Non ha paura della metafisica, è concettualmente molto ambizioso, e il modo più semplice per rendersene conto è la dichiarazione di intenti contenuta nei suoi titoli dal 1949. Tuttavia, il suo linguaggio poggia su basi solide. Anche in questo caso probabilmente suonerò accademico, ma penso al mio lavoro come a una scultura, qualunque presentazione essa possa richiedere. Non mi trovo a mio agio quando le mie opere sono etichettate come installazioni artistiche. Anche quando le mie opere sono avvolgenti, quando cioè sono ambienti connessi a un luogo e non pezzi trasportabili, ricordo costantemente alle persone che io le concepisco in termini scultorei, in senso classico. Se il termine installazione si è diffuso e può essere una scorciatoia per la risoluzione di problemi pseudo-scultorei, a me piacerebbe pensare invece di potermi allontanare da questo. Anche se, ancora una volta, corro il rischio di sembrare accademico, e démodé.

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Lucio Fontana’s Ambiente Spaziale at the Triennale di Milano, 1951. Courtesy Fondazione Lucio Fontana, Triennale di Milano, SIAE.

C’è un passaggio interessante nell’articolo di Anthony White intitolato Lucio Fontana, tra Utopia e Kitsch. Si riferisce alla differenza tra scultura e ciò che oggi chiameremmo installazione: “Fontana era irritato dalle descrizioni giornalistiche dell’opera come un arabesco, uno spaghetto o un lazo. Questo non soltanto perché tali epiteti stavano banalizzando l’opera, ma anche perché tendevano a trasformare il lavoro in una figura. Fontana insisteva nel chiamarlo una decorazione spaziale, un’architettura astratta, un concetto spaziale, ma mai una scultura o un oggetto-critico dell’opera d’arte come disconnesso da ciò che lo circonda”.

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Installation view of Gabriel Kuri: spending static to save gas at Oakville Galleries, 2018. Courtesy the artist and Oakville Galleries. Photo: Jimmy Limit.

Gabriel Kuri: Forse c’è qualcos’altro che mi fa tornare a Fontana: sebbene fosse un artista solidamente strutturato dal punto di vista accademico, quando si trattava delle convenzioni della pittura (superficie, bordo, materia, composizione, colore) il luogo dei suoi dipinti non era mai il supporto. Il loro vero luogo, il luogo di queste opere, era in effetti la soglia, il confine, un luogo di transizione. I suoi dipinti non erano finestre referenziali, né cose astratte, erano soglie. Qualunque cosa facessero, qualunque cosa accadesse a causa loro si trovava in un luogo di transizione.

Penso che sia accaduta una cosa simile con la sua scultura o con i suoi ambienti. Mentre le sue sculture e gli ambienti dell’ultimo periodo provenivano chiaramente da anni di forgiatura manuale di un materiale primitivo come l’argilla, improvvisamente prendevano forma come confini. Il luogo in cui operano le sue sculture non è nella loro forma di realizzazione: quella stessa forma di realizzazione è, ancora una volta, una soglia, non un punto di ritorno, proprio come nei suoi dipinti. Arriverei a sostenere che è questo che Fontana intendeva dire quando esprimeva la sua rabbia per i critici che parlavano della linea al neon aggrovigliata nello spazio come “oggetto”.

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Lucio Fontana’s Ambiente Spaziale at the Triennale di Milano, 1951. Courtesy Fondazione Lucio Fontana, Triennale di Milano, SIAE.

Il suo punto di vista sembra filosofico, se non addirittura politico. Nel contesto della Triennale di Milano del 1951, un evento destinato principalmente a architetti e designer, il suo Ambiente Spaziale era una dichiarazione, quasi irriverente, che aveva due scopi. Da un lato, proponeva una retorica di sinistra post-Seconda guerra Mondiale, anti-mercato, dell’oggetto artistico inteso come non negoziabile in una compravendita. All’epoca, infatti, il mercato non aveva ancora assorbito forme d’arte come installazioni temporanee, e un artista che creava opere di quel tipo sarebbe stato consapevole dell’esclusione dal mercato. D’altra parte, probabilmente, Fontana voleva riaffermare l’importanza dell’arte per la vita mettendola al livello dell’architettura. Il suo messaggio potrebbe essere: nessuna vita senza architettura, nessuna architettura senza arte, quindi nessuna vita senza arte. Col senno di poi, questa potrebbe essere stata l’ennesima utopia modernista fallita. In effetti, ciò che rimane oggi è il riferimento molto più sottile di Fontana a un luogo metaforico di transizione forgiato nella forma, come dici tu. Per usare ancora vecchi termini ormai fuori moda, l’arte potrebbe essere ciò che dà forma a un’idea, ma a patto che sia una forma che merita di promuovere quell’idea. Ad esempio, un’opera d’arte che suggerisce un’idea politica non è un libro che la spiega semplicemente. Allo stesso modo, la tua scultura, indipendentemente dall’idea che merita – che sia l’ambizione metafisica o la disquisizione filosofica, o anche la dichiarazione politica, per usare gli esempi che facevi prima – funziona in questa forma transitoria ma finita. Forse è anche per questo che non è opportuno definire il tuo lavoro installazione: la forma e la scultura sono più che sufficienti per giustificare ulteriori idee.

June 17, 2020