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Tre stadi di reificazione dell’immagine

Sofia Silva

Un’introduzione personale a Daniel Graham Loxton, Matthew Peers e Jens Fröberg

Opere talvolta povere come il pan grattato, di piccole dimensioni, scruffy. Daniel Graham Loxton, Matthew Peers e Jens Fröberg, un americano, un inglese e uno svedese, accomunati dallo sguardo di Claas Reiss, portano a Milano una mostra di vies minuscoles e avvenimenti materici. Inizio questo testo descrivendo quello che vedo e sento di fronte a opere passate e recenti di ciascuno dei tre artisti, analizzandoli singolarmente, per gettare sentimenti distinti.

Guardando Jens

Dal bordo sfilacciato di una tela s’intravede la smussatura del telaio sottostante; il grigioverde copre il verde oliva, lo copre malamente, un’onda rotta. Su un’altra superficie; pennellate convulse e traslucide sembrano dipingere un cielo romantico, eppure sono centripete, chiuse, riempitive. Tre aree di colori sottratti a Chardin sostano silenziose su una piccola tela, senza costituire nessuna spazialità, annullandosi tra loro, sdraiate a prendere gli ultimi raggi di un astro latteo.  Altrove, un quadrato bianco. Iscritto in un rettangolo, proietta un’ombra rosata, tra la staticità meridiana di Morandi e la stoffa inamidata che copre un calice liturgico. Ovunque posi lo sguardo l’immagine è intrappolata in pesanti strati di materia, sottolineando la propria immanenza e finitudine. Jens: «Le idee mi vengono guardando, leggendo e pensando all’arte. Le opere trattano di movimenti artistici come il Minimalismo e la Color Field Painting. Occasionalmente si riferiscono a lavori più specifici; le composizioni sono spesso alterazioni di cose che ho visto. […] In un certo senso si tratta di ricerca, ma non è ricerca attiva, bensì qualcosa che emerge da sé». Si avverte pienamente la lentezza emergente dell’immagine, silenziosa, pesante. Un’immagine che trova i propri contorni semantici all’ultimo minuto, poco prima che Jens pulisca il pennello.

Jens Froberg
Jens Froberg, Still life, 24×30 cm, oil on canvas, 2021. Courtesy of the artist and Claas Reiss.

Guardando Daniel

Con lo sguardo percorro una superficie suddivisa in tre impercettibili aree, chiazzate di colori che evocano un paesaggio o forse il suo disegno topografico. Alcune macchie sono liriche, altre grafiche. La mia mente spazia tra paesaggi lontani, è l’implosione di Graham Sutherland, o l’esplosione di Carol Rhodes. Su un altro quadro alcuni segni flessi paralleli tra loro evocano fili d’erba tracciati da mano calligrafica. Sono inseriti in un bianco convulso che ricorda festoni di stucco. Altrove cartoni su cartoni, cartoni ondulati, pelle mal scartata, coprono la tela, essendovi incollati sopra. Daniel non prova a limitare o censurare la sua inclinazione per la meta-pittura. Mi dice che abbiamo avuto un amico in comune, il pittore Lawrence Carroll, e di avere letto un mio testo passato in cui scrivevo che Lawrence amava maggiormente i materiali macchiati di pittura sparsi per lo studio che la tela stessa. Forse vale anche per Daniel. Vengono in mente Walter Swennen e Jef Geys; ma Daniel non fa pittura sulla pittura, bensì dipinge come se tenesse un quaderno di appunti di pittura sulla pittura, le opere sono quadri-quaderno. La scrittrice, slavista e orticoltrice Pia Pera scrisse: «Se il giardino è stato una tela su cui dipingere, l’orto è stato una sorta di in folio diviso in quattro parcelle, altrettanti in quarto, che non hanno tardato a configurarsi come pagine in cui ogni fila, o riga, avrebbe avuto sintassi, punteggiatura, paragrafi, a capo». Hortus, recintato; i quadri di Daniel sono anche quadri-orto, rigogliose pagine di annotazioni recintate. Daniel dice: «tendo a lavorare per costellazioni piuttosto che in serie: una costellazione è un gruppo di opere prive di un impulso comune che presentano un punto di osservazione variabile. Spesso, anche per me, l’immagine della costellazione emerge solo a posteriori. Preferisco che la portata del mio lavoro si estenda oltre i margini delle pareti della galleria, verso corpus di opere future e passate, come se un giorno si potesse vedere nitidamente i contorni di uno spazio cerebrale più ampio in cui esistono tutte le mie opere. […] Spero di presentare una notevole costellazione di quadri in un mondo post-concettuale».

Daniel Graham Loxton, Untitled (Fabriano Cy), 2022, oil, wax, acrylic house paint, dry pigment, charcoal and watercolor on paper mounted on linen, 55x65cm. Courtesy of the artist and Claas Reiss, Ph: CFA.

Guardando Matthew

Le opere di Matthew mi portano alla mente i primi anni Sessanta di Melotti, quelli de Il Canal Grande (1963); altre volte penso alle piccole architetture del ceramista Franz Josef Altenburg; la dimensione dell’opera-piccola-casa torna a rifiorire per quel senso di intimità e domesticità, di limite anche, che riesce a concedere allo sguardo. Facendo conoscenza con la produzione di Matthew mi soffermo su lavori tridimensionali che calcano in alluminio colato nella sabbia la matericità del cartone di seconda mano con cui Matthew crea i modelli di partenza. Matthew introduce il cartone con queste parole: «una serie di opere in corso, “buchi”, utilizza come punto di partenza il cartone trovato. Questo materiale “povero” ha già avuto una vita, un valore d’uso. Una storia di viaggi, di distribuzione, di essere maneggiato, tenuto, toccato e segnato». Holes: sono scatole, teatrini privi di spettacolo, gabbie, piani intersecati di un dipinto o di una scultura? Sovviene anche Joseph Cornell, scatole-carillon come Shoot the Chutes (1941) dove  le aperture di forma circolare ricordano l’oculare di un telescopio o lo specchio di un caleidoscopio con la relativa catena di storie visive snodate nell’entrelacement. In Cornell ogni apertura sottende nascondimento, uno sguardo da multipli spioncini, creatore di rebus. In Matthew, eliminato il tessuto narrativo, la sagoma circolare è un semplice foro, un’apertura che permette di penetrare visivamente le superfici della composizione. Il gioco di fori aperti su superfici dipinte esalta la tridimensionalità dello sguardo. «La gioia di mettere cose insieme, materia che tocca materia, materia che tocca pensiero, pensiero che tocca pensiero, pensiero che tocca materia» scrive Matthew. Ogni opera dell’artista è trascrizione visiva e materica di un fare il cui significato è pressoché tautologico: l’azione stessa del fare, che però ha una durata, a propria volta influenzata da un sentimento, spesso sorto nei termini di una collaborazione con un artigiano: un verbo “fare” che è anche un segmento di vita. Quasi ne fossero fossili, le opere ricalcano un materiale che è stato vissuto in molti modi e rimaneggiato dall’artista come nei tangram, i giochi rompicapo cinesi.

Matthew Peers, Untitled, 2022, Sand cast aluminium, 26x38x27cm, BN6 9RT. Courtesy of the artist and Claas Reiss.

In gruppo

I tre artisti, esposti in gruppo, presentano una mostra che affronta i vari stadi di reificazione dell’immagine: il materico immanente all’immagine (Jens), quello che viene assemblato all’opera come ready-made (Daniel), e infine quello trasfigurato da un materiale all’altro (Matthew). Protagonista di questo traslato non è un oggetto di consumo di massa, né un idolo, come nella proposta artistica contemporanea si è sempre più abituati a fruire; bensì uno scarto di stoffa, un pezzo di cartone, una piccola cosa. La matericità del cartone si staglia in particolare: apprezzato sia da Daniel che da Matthew, simbolo di protezione, ma nell’attuale mondo di consegne a domicilio anche di facilitazione, globalizzazione e viaggio. Jens e Daniel, d’altra parte, sono uniti dalla produzione di un’arte che origina dall’arte. Se confrontato sulla scelta di utilizzare carta di giornale montata su tela di lino, Daniel fa riferimento all’invenzione di questa tecnica da parte della New York School: «Simply put, I’m a New York painter, why not start where they did?». Quel they, l’aura di una presenza fantasmica e fantasmagorica dei pittori che hanno preceduto il discorso attuale, è rilevante, perché sottende la presenza di un dialogo. La pittura, spesso erroneamente considerata come la più solitaria tra le discipline artistiche, è un dialogo costante. Non c’è pittura senza dialettica tra un pittore e un altro, a lui contemporaneo o no. La pittura è uno sport di gruppo. Infine, l’importanza del processo rispetto all’esito è una dimensione non trascurabile che accomuna gli artisti. Mentre dipinge, Jens vive uno stato che è al contempo «frustrating and exciting», Daniel tiene a puntualizzare: «il processo non è mai doloroso. Non agonizzo sulle opere – nemmeno su quelle che richiedono tanto tempo». Per Matthew il processo inizia in stazione ancor prima che in laboratorio: «lavorare con addetti tecnici non artisti in una piccola fonderia commerciale nel West Sussex. Vedo questo dialogo sociale e democratico come parte dell’atto scultoreo, insieme alla camminata per andare e tornare dalla stazione ferroviaria alla fonderia. La scultura finale partecipa della collaborazione, della distanza percorsa e dei pensieri e sentimenti provati lungo il percorso». Come elaborando un rompicapo difficile ma avvincente, i tre artisti studiano le possibilità insite in immagini e materiali poveri e consumati, continuando l’imperituro gioco di percorrere i sentieri (quelli meno patinati e più ricchi di erbe matte) del linguaggio.

[La mostra Seeds, Voids, and Tailored Cloth fa parte della residenza della galleria Claas Reiss a CFAlive a Milano in via rossini 3 che apre il 27 ottobre fino al 10 dicembre. Qui il link alla nostra intervista al gallerista Claas Reiss. Ndr]

October 25, 2022