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Perché i ricchi collezionano povertà? Giacomo Ceruti pittore

Roberta D’Adda & Enrico Valseriati

Le immagini dei “pitocchi” di Giacomo Ceruti sono state largamente collezionate ed esposte nelle dimore dalla nobiltà bresciana. Ecco perché

Un grande e severo pittore: Ceruti a Brescia

Pur nella sempre più approfondita disamina dei ‘precedenti’, la produzione bresciana di Ceruti continua oggi come ieri a rimanere un fatto pittorico eccezionale, “l’episodio più alto e significativo all’interno del complessivo percorso della pittura pauperistica in Italia”, e come tale non smette di interrogarci. Posto che le sue pitture non erano destinate agli umili, ma al pubblico colto dei mecenati e dei collezionisti di estrazione aristocratica, rimane valida la riflessione formulata da Roberto Longhi in occasione della mostra “I pittori della realtà”:

Qualche anno fa ebbi a suggerire che ‘il severo e grande Ceruti fosse costretto ad affidare i suoi capolavori di vita popolare allo svago dei nobili bresciani nelle ville suburbane del Garda’. Oggi trovo che l’ipotesi non rende giustizia a tutte le eventuali verosimiglianze del rapporto fra Ceruti e i suoi committenti. Bello svago, infatti! Che qui non si trattava già di acquisire periodicamente, con benigna condiscendenza, qualche quadretto ad un pittore bizzarro (però di talento), ma di riempirsi casa e ville di questi suoi ‘memoranda’ insolenti e giganteschi. Era per gusto della buona pittura? Impossibile, perché non era ancor nato il costume che potesse dichiarar buona, che dico, sopportabile, la pittura del Ceruti.

Insieme, dunque, al tono severo dei ritratti del periodo bresciano, le opere di soggetto popolare che si addensano intorno al cosiddetto ciclo di Padernello costituiscono un fenomeno straordinario nel- la Lombardia del Settecento – per numero, intonazione, linguaggio – che non può essere spiegato se non immaginando, e ricercando, un qualche tipo di particolare consonanza tra l’artista e il suo pubblico.

Giacomo Ceruti
Giacomo Ceruti, “Pitocco seduto”, approx 1730. Pinacoteca Tosio Martinengo Brescia © Archivio fotografico Civici Musei di Brescia / Fotostudio Rapuzzi

Non va dimenticato che Brescia, specie con l’opera di Moretto, aveva conosciuto nel Cinquecento una straordinaria stagione di pittura della realtà, maturando un significativo distacco dalla tavolozza di Tiziano, per approdare in alcuni capo- lavori a una materia quasi monocroma e asciutta, giocata sulla predominanza di grigi illuminati da una luce fredda; al contempo, nelle scene sacre dei pittori del Rinascimento bresciano, abbondanti sono gli inserti di figure di matrice popolare, tratteggiate con vivo spirito di osservazione senza indulgere a stereotipi irriverenti.

Ma è soprattutto nella società bresciana del Settecento che la storiografia ha cercato, negli ultimi decenni, le corrispondenze che avrebbero consentito di accogliere e forse in parte favorire la declinazione della pittura pauperista tipica di Ceruti: ipotesi, queste, che sono state nel tempo formulate, argomentate e spesso scartate, e che vale la pena ripercorrere anche alla luce di nuove e suggestive proposte critiche.

Una tradizione piuttosto consolidata ha visto soprattutto nelle condizioni sociali di Brescia durante la tarda età moderna le ragioni del successo di Ceruti presso i committenti nobiliari. Al principio del Settecento, dal punto di vista demografico ed economico, Brescia non era che l’ombra della città sviluppatasi nei primi due secoli di sovranità veneziana. L’aristocrazia locale – esclusa da ogni carica pubblica di livello statale e quindi, in sostanza, dal controllo fiscale, militare e giudiziario del territorio – viveva una condizione di immobilità, che la portava a rifugiarsi nella mitologia delle antiche origini, nella propria cultura di tradizione militare e nella chiusura dei corpi sociali. Relegati in una dimensione concreta, quasi terragna, connessa alla quotidiana amministrazione dei loro beni, i nobili bresciani sarebbero stati predisposti, secondo Bruno Passamani, a una sorta di ‘visione realistica’, necessaria per accogliere la pittura di Ceruti.

Questa suggestione storiografica fa da pendant all’idea che Ceruti sarebbe stato esposto quotidianamente alle misere condizioni della popolazione urbana, portando a estreme conseguenze una visione anacronistica della sua pittura e l’idea di una presunta empatia tra i committenti di Ceruti e i miserabili della città. A corroborare questa idea ha contribuito il paradigma della crisi, che Brescia indubitabilmente conobbe a partire dalla peste del 1630, dopo la quale la città vide perdere la sua condizione di primazia come grande capoluogo e importante centro manifatturiero nel contesto della Repubblica di Venezia. La miseria sociale, nel Settecento, assunse un peso squilibrante, tanto che in alcune aree urbane, negli anni 1756-1758, i cittadini dichiarati poveri superarono il 71% della popolazione totale. Di fronte a un fenomeno di tale portata – dove alla massa difficilmente controllabile delle miserabiles personae e dei vagabondi si aggiungevano i poveri congiunturali, gli inabili e i nobili decaduti – l’unico atteggiamento possibile era quello del solidarismo assistenziale, che a Brescia vantava origini antichissime, risalenti agli inizi del Quattrocento. Nella prima metà del Settecento, il sistema caritativo-assistenziale cittadino poteva contare su un modello avanzato, basato sulla differenziazione delle strutture in base ai vari bisogni, nonché sulla divisione tra miserabili irrecuperabili e recuperabili: per questi ultimi, l’educazione al lavoro era posta come base della redenzione morale e materiale. Questo sistema era concretamente affidato alle principali famiglie patrizie della città, i cui esponenti, a fianco del clero, ricoprivano le cari- che di direttori e amministratori di quegli stessi enti che i loro avi avevano contribuito a fondare due secoli prima e che spesso si preoccupavano anche di raccogliere le risorse necessarie alla beneficenza.

Tra il 1704 e il 1743 fu attuata una sistematica revisione delle ‘regole’ dei principali enti assistenziali cittadini9. Si trattò di un intervento metodico e accurato, senza precedenti: in concomitanza con il periodo bresciano di Giacomo Ceruti, l’élite dominante concepiva e realizzava un ampio disegno di politica sociale, mirato soprattutto a eludere, più che risolvere, il problema della povertà. Dal momento che la povertà era ritenuta insidiosa per il pudore e la virtù, i regolamenti di questi istituti riportavano costanti richiami alla massima castigatezza. Nei luoghi pii delle zitelle, per esempio, si conduceva una vita quasi monacale: abiti uniformi, modesti e casti, acconciature uguali per tutte le donne e divieto assoluto di indossare ornamenti. Incitate al silenzio e alla preghiera, le ragazze apprendevano i lavori femminili, come il cucito, il rammendo, il ricamo e il tombolo. Il loro destino era, verosimilmente, la monacazione o la servitù presso una famiglia aristocratica.

Giacomo Ceruti
Giacomo Ceruti, “Scuola di ragazze”, approx 1720-1725. Pinacoteca Tosio Martinengo © Archivio fotografico Civici Musei di Brescia / Fotostudio Rapuzzi

Al di là del puntuale riscontro tra quanto appena descritto e, per esempio, la scena raffigurata nella Scuola di cucito della Tosio Martinengo, non vi è dubbio che questa generale esigenza di probità e di castigatezza e il costante richiamo alla compostezza trovino riscontro in gran parte delle pitture di Ceruti all’altezza del cosiddetto ciclo di Padernello: negli atteggiamenti e nelle espressioni delle figure, così come nella descrizione degli sfondi e persino nella tavolozza e nella pennellata, che via via va asciugandosi. Questo, tuttavia, non comporta affatto né una tendenza del pittore a riconoscersi nei soggetti da lui ritratti, né un generale senso di empatia dei committenti verso gli umili rappresentati dall’artista e destinati alle pareti delle loro residenze nobiliari.

Se sulle ragioni che spinsero i nobili bresciani a commissionare a Ceruti i noti ‘pitocchi’ esiste ancora molta incertezza, lo stesso si può dire sui possibili interlocutori del pittore a Brescia. Anzitutto, è stata messa in evidenza la figura del suo primo me- cenate ufficiale, il patrizio veneziano Andrea Memmo, podestà della città negli anni 1726-1728, che gli commissionò un ciclo di tele, oggi perduto, con ritratti e scene di storia per il palazzo del Broletto, sede dei rappresentanti lagunari. Le sue frequentazioni veneziane, almeno inizialmente, porrebbero Ceruti in contatto con le correnti più avanzate del collezionismo veneto, sensibili alla ricerca del vero e a temi umanistici.

È stato inoltre ipotizzato che il pittore – forse per tramite proprio di Andrea Memmo – possa essere entrato nella sfera d’influenza dell’allora vescovo di Brescia, il bibliofilo Angelo Maria Querini, veneziano di origine e personalità con grande ascendente in città, al punto da segnare con i suoi indirizzi e il suo operato un’intera fase della storia cittadina, dall’anno del suo insediamento (1727) a quello della sua morte (1755). Uomo di straordinaria cultura, prefetto della Biblioteca Vaticana, inserito in una fitta rete di relazioni con eruditi, filosofi, pensatori e teologi tanto cattolici che protestanti, ebbe tra i suoi corrispondenti i più importanti intellettuali dell’Italia e dell’Europa preilluminista. Sotto la sua guida, maturò nella cultura nobiliare bresciana un fondamentale passaggio “dall’amore per le armi a quello per le lettere”. La vocazione a una ricerca erudita, libera da pregiudizi settari, e il ruolo assegnato al pensiero moderno nel risveglio della coscienza morale e religiosa dei fedeli si manifestarono nella tolleranza intellettuale con la quale scelse collaboratori e sodali. Tra questi ultimi, ricorrono i nomi di molti pensatori filogiansenisti, per lo più mossi da istanze razionaliste e favorevoli a una migliore giustizia sociale, nonché a una moralità austera e aliena dai formalismi del culto cattolico.

Ulteriori ricerche, estese anche ad altri centri che lo videro operoso nella fase veneta della sua attività, hanno ipotizzato possibili contatti di Giacomo Ceruti con alcuni religiosi filogiansenisti, provenienti dall’ordine benedettino e attivi tra Brescia, Padova e Bergamo. Si tratta per lo più di labili suggestioni, che hanno trovato appiglio nella convinzione, tipica di alcuni pensatori giansenisti, che la rigorosa povertà di spirito (e non semplicemente quella materiale) costituisse il segno di una predestinazione e dell’elezione alla vita ultraterrena. Inoltre, nella concreta attività pastorale e nella nuova pedagogia giansenista, il problema dell’assistenza ai poveri risultava tutt’altro che secondario, soprattutto in un’ottica di modernizzazione e razionalizzazione dell’assistenza.

Sospetto di filogiansenismo fu certamente uno dei presunti committenti delle pitture a soggetto popolare di Ceruti, il padre filippino Giulio Barbisoni, allontanato dalla Congregazione per un’inclinazione troppo accentuata verso le idee gianseniste, che nessuna dichiarazione di penti- mento valse a cancellare15. Come e più del locale monastero benedettino di San Faustino (presso il quale troviamo attivo, con le sue figure popolari, Antonio Cifrondi)16, la bresciana Congregazione degli Oratoriani della Pace fu fortemente interessata dalla presenza di religiosi sensibili alla dottrina giansenista. Un’antica guida della città di Brescia registra la presenza nella stanza di padre Giulio di “Due mezzi ritratti, uno di vecchio, l’altro di donna

del Ceruti”, nonché di altre sei opere del pittore nelle stanze adiacenti: dei “soldati che giocano a carte”, una coppia di “portaroli con cesti”, un’altra coppia di portaroli “con cesti e galli in mano” e infine un quadro con due figure che si dovrebbe verosimilmente identificare con i Due pitocchi della Tosio Martinengo.

Al di là dell’accertata presenza di pensatori filogiansenisti tra le file dei padri della Pace, va piuttosto notato che gli Oratoriani, sull’esempio del loro fondatore san Filippo Neri, si dedicavano tradizionalmente al recupero e all’educazione dei giovani abbandonati o traviati, ai quali forse si potrebbe avvicinare, per via di stereotipi, l’immagine dei portaroli, che spesso vivevano di espedienti e piccole truffe in strada, oltre che del loro umile lavoro di ‘zerlotti’, un mestiere comunque regolato da precise norme civiche. È perciò probabile che la presenza dei quadri di Ceruti nella stanza di Barbisoni sia da ricondurre alla vocazione educativa dei padri filippini, piuttosto che all’adesione alla teologia morale dei giansenisti.

Questioni aperte, ipotesi nuove e vecchie

Diventa davvero difficile, a questo punto, stabilire se e quanto l’addensarsi a Brescia dei capolavori del cosiddetto ciclo di Padernello, e più in generale delle opere giovanili di Ceruti, si possa mettere in relazione con la concezione assistenziale cattolica di consolidata tradizione nobiliare (che aveva guidato la nascita e lo sviluppo del sistema dei ricoveri a Brescia), o piuttosto con i portati dell’educazione giansenista; o ancora, con ‘semplici’ ragioni di divertissement e di gusto estetico per un genere pittorico che aveva alle spalle importanti precedenti e rispondeva, per molti versi, a un preciso canone stilistico. Quel che è certo è che non si può accogliere la provocatoria tesi esposta da Giorgio Manganelli dopo la visita alla mostra di Santa Giulia del 1987, benché suggestiva e magistralmente scritta. Rigettando l’idea che la pittura di Ceruti esprima una “affettuosa partecipazione al mondo dei poveri” e una “cristiana sollecitudine per gli umili, gli sventurati”, lo scrittore dichiara che ai suoi occhi “i pitocchi del Ceruti sono un registro retorico, una scelta di linguaggio” che nasce “non già da amore cristiano, ma da assoluta indifferenza morale, da una splendida e torva passione pittorica”. Pur senza perdere di vista la giusta considerazione che i quadri pauperisti del Ceruti bresciano sono, in primis, un fenomeno pittorico, resta da capire il quesito a suo tempo posto da Longhi: chi poteva volere nella propria casa questi “memoranda insolenti e giganteschi”?

Giacomo Ceruti
Giacomo Ceruti, “Autoritratto in veste di pellegrino”, 1737. Museo villa Bassi Rathgeb, Abano Terme (PD)

Probabilmente, nuove e più concrete suggestioni potrebbero venire qualora si sciogliesse ogni dubbio sull’effettiva provenienza delle tredici tele che Giuseppe De Logu scoprì nel 1931 nel castello di Padernello grazie alla segnalazione di Fausto Lechi e che gli studi hanno dimostrato essere parte di un nucleo di ventidue complessive, passate nel 1882 all’asta della collezione giunta per via ereditaria a Gerolamo Fenaroli (1827-1880). A tal proposito, esistono due distinte correnti di pensiero, messe a punto dagli studiosi nel corso degli ultimi decenni. Una prima interpretazione vuole che il nucleo sia interamente da riferirsi alla committenza della famiglia Avogadro e che fosse originariamente distribuito in più residenze di loro proprietà. Tale ipotesi è concretamente corroborata dalla presenza di tre opere menzionate nell’inventario della villa di Rezzato, datato 1734. Il patrimonio degli Avogadro confluì poi nel 1800, per via ereditaria, nei beni della famiglia Fenaroli, presso il cui palazzo di città, nel 1820, furono registrati nove quadri di Ceruti. La curiosa lievitazione numerica (da tre, a nove, a ventidue) si spiegherebbe con l’idea che presso i Fenaroli fossero confluite opere conservate in ulteriori dimore degli Avogadro e mai censite.

Una recente indagine ha posto in luce i legami di Ceruti con la famiglia Avogadro, e nello specifico con Giovanni (1680-1742), uno dei sette figli del conte Scipione che costituirono la grande galleria di famiglia e del quale si conserva a Montichiari il sontuoso ritratto dipinto dall’artista intorno al 1730. Amante della vita elegante e dedito a una spensierata prodigalità, Giovanni Avogadro nutriva particolari interessi collezionistici, che lo portarono fra l’altro a essere il più importante committente di Giorgio Duranti, pittore bresciano specializzato nella raffigurazione di volatili, e a fare realizzare un bizzarro salottino “alla chinese” a Faustino Bocchi, autore di fortunatissimi dipinti di genere popolati da “pigmei”, termine con il quale le fonti antiche indicavano le sue caratteristiche figure di uomini e donne in miniatura, ritratti in situazioni ridicole o grottesche. Avogadro custodiva nella sua casa anche due dipinti su vetro sempre di Ceruti (uno dei quali identificato) e un ritratto di fanciulla, incastonato nelle boiseries di un elegante camino. Questa ricostruzione avvicinerebbe dunque la genesi del ciclo scoperto a Padernello a un contesto principalmente caratterizzato da interessi collezionistici vari e aggiornati e, in modo più generico, dall’amore per la pittura di genere, fino alla bizzarria.

Una seconda ipotesi relativa alla originaria provenienza delle tele di Padernello si ancora alla notizia che i “quadri di pezzenti” passati sotto il nome di Ceruti all’asta Fenaroli del 1882 erano ventidue. Partendo dal presupposto che quelli di accertata provenienza Avogadro sono solamente tre, si è fatta strada l’idea che le altre diciannove tele comparse all’asta provenissero dalla famiglia Lechi, un’ipotesi già riferita, ma sostanzialmente non accolta, da Mina Gregori nel 1982 (su sollecitazione di Fausto Lechi), poi ripresa più diffusamente da Piero Lechi e Adriana Conconi Fedrigolli.

Il presupposto di tale ipotesi si basa sul fatto che negli inventari dei beni di Pietro Lechi, redatti tra il 1768 e il 1769 per la divisione tra i figli Faustino e Galliano, sono registrati complessivamente – distribuiti in diverse dimore tra città e campagna, ma solo in un caso con l’esplicita attribuzione a Ceruti – venti “quadri di pitocchi”. Secondo Lechi e Conconi Fedrigolli, uno di questi venti quadri, che si dovrebbero presumere di Ceruti, sarebbe rimasto presso la famiglia Lechi fino ai giorni nostri, men- tre i diciannove fuoriusciti – il cui numero sarebbe pari a quello che determinò il totale di ventidue quadri presso i Fenaroli nel 1882; tre di provenienza Avogadro e diciannove di provenienza ignota – sarebbero passati di mano in un momento imprecisato. In particolare, il trasferimento ai Fenaroli sarebbe da collocare forse tra l’inizio dell’Ottocento (quando la famiglia Lechi attraversò un periodo di difficoltà economiche conseguente alle razzie anti-nobiliari del 1799) e il 1814 (quando si procedette a un’importante spartizione ereditaria), e in ogni caso entro il 1820 (quando gli inventari Fenaroli registrano dieci opere di Ceruti, sette in più di quelle con provenienza certa Avogadro).

Il plausibile passaggio alla collezione Fenaroli, dando per vera l’ipotesi di una provenienza del ciclo cerutiano da casa Lechi, potrebbe esse- re dovuto a Giovanni Antonio Fenaroli Avogadro (1749-1825), che fu amministratore delle divisioni tra Luigi e Pietro Lechi (figli di Faustino) nei primi anni dell’Ottocento e che vantò per lungo tempo importanti crediti nei confronti degli eredi Lechi, peraltro suoi stretti parenti; senza dimenticare che negli inventari dei beni mobili di Giovanni Antonio Fenaroli Avogadro, redatti post mortem, figura un nutrito gruppo di ‘pitocchi’ di Ceruti.

Giacomo Ceruti

Giacomo Ceruti, “Portarolo,” 1730-approx 1734, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo. © Archivio fotografico Civici Musei di Brescia / Fotostudio Rapuzzi

Non mancano, anche per la famiglia Lechi, tracce materiali di più estesi rapporti con Ceruti, che si sostanziano sicuramente nelle due notevoli tele raffiguranti Santina Lechi e l’abate Angelo Lechi, custodite presso il Museo Lechi di Montichiari. Membro del clero secolare e fratello di Pietro (nel cui inventario post mortem, come visto poc’anzi, figurano venti “quadri di pitocchi”), Angelo Lechi era vincolato alla regola religiosa nella residenza di famiglia nota come Aspes, a San Zeno Naviglio, nel suburbio di Brescia, dove gli inventari redatti dopo la sua morte registrano la più alta concentrazione di quadri di pitocchi: ben quattordici. Il suo ritratto, eseguito da Ceruti intorno al 1730, restituisce un’immagine severa e asciutta, che richiama una moralità austera. La sua figura è ancora interamente da indagare e un buon punto di partenza potrebbe essere costituito dalla dedica a lui rivolta nell’opera Lezioni morali sopra l’ingratitudine umana ai benefizi divini del padre cappuccino bresciano Giovanni Crisostomo Rizzardi, figlio dello stampatore Gian Maria, editore del libro nel 1748. Un’ulteriore e importante fonte potrebbe essere costituita dalla dedicatoria, sempre indirizzata all’abate Angelo e ai suoi frate li, in esergo alla seconda edizione del Cappuccino scozzese (Giovanni Battista Bossini, Brescia 1740), curata da padre Timoteo Colpani, maestro di studi filosofici e teologici sotto il quale si formò, fra gli altri, padre Viatore Bianchi, noto per le sue posizioni filogianseniste. Pur nella cautela imposta dal labile riferimento archivistico di partenza (che sconta la pressoché totale assenza del nome del pittore dalle registrazioni settecentesche), giova ancora aggiungere che all’epoca in cui si presumono realizzati i quadri di Ceruti, la famiglia Lechi non aveva ancora ottenuto il titolo comitale (acquisito per concessione dogale nel 1745) e che pertanto non era ancora giunto a compimento il processo di assimilazione al ceto nobiliare avviato grazie a una rapida e strepitosa ascesa sociale e a una grandiosa politica di acquisti fondiari. La notevole liquidità a disposizione della famiglia – accumulata amministrando fucine per la lavorazione del ferro ed esercitando attività mercantili e finanziarie, poi definitivamente abbandonate nel corso del Settecento – permise ai Lechi di accumulare uno dei maggiori patrimoni terrieri della città.

Il divario esistente tra queste molteplici ipotesi sulla provenienza della celebre serie di ‘pitocchi’ è indice delle molte sfaccettature della società bresciana del Settecento e della complessa stratificazione di possibili consonanze culturali con la pittura di Ceruti. In attesa di scoprire la vera origine della committenza del corposo nucleo già Fenaroli e dati per assodati i debiti che l’artista ebbe con una tradizione pittorica consolidata (anche a Brescia), non dobbiamo dimenticare di leggere l’opera di Ceruti in primis come fenomeno squisitamente artistico, debitore a una lunga tradizione iconografica e consonante con sensibilità diffuse, di cui è impossibile ridurre la genesi a sterili meccanismi di causa-effetto, giustificabili con “atti impuri di anacronismo”.

March 30, 2023