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Negoziazioni istituzionali nell’opera di Daniel de Paula

Jacopo Crivelli Visconti

Le prime opere di Daniel de Paula (Boston USA, 1987) risalgono al primo decennio del XXI secolo. In questo periodo l’influenza degli artisti delle generazioni precedenti era piuttosto visibile e persino esplicita, ma già si intravedevano con forza quei campi di tensione in cui si sarebbe sviluppato in seguito il suo lavoro. Per esempio, un’opera matura come Untitled (to Charlotte Posenenske), del 2014, consiste nella traduzione e nella messa a disposizione del pubblico del manifesto pubblicato nel 1967 da Charlotte Posenenske su Art International (VII/5), nel quale l’artista tedesca, pochi mesi prima di smettere definitivamente di produrre arte, afferma: “it is difficult for me to come to terms with the fact that art can contribute nothing to solving urgent social problems”. Anche de Paula si interroga sul reale valore politico e sociale dell’arte, e l’omaggio a una figura tanto radicale e imprescindibile in questa discussione è, evidentemente, sintomatica.

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Installation view of “inalienable, imprescriptible e inembargable”, Daniel De Paula’s solo exhibition at Labor, Mexico City. Courtesy of the gallery and the artist.

Le opere di de Paula esplorano con frequenza gli interstizi della società contemporanea, interrogando il modo in cui i flussi delle merci e delle risorse, tangibili e fisici, o al contrario, eterei e invisibili, regolano e organizzano globalmente il territorio e la vita degli esseri umani e non. Il processo di negoziazione (nelle sfere accademiche, politiche, sociali, industriali o burocratiche, secondo il contesto e particolarità di ogni progetto) è a tal punto essenziale nella produzione dell’opera da essere spesso inclusa nella descrizione dei “materiali” di cui l’opera è fatta. Un lavoro come aparição (2011), per esempio, ha reso necessaria una trattativa tra la società responsabile per l’illuminazione pubblica della città di San Paolo e il Centro Culturale di San Paolo, anch’esso dipendente dalla municipalità, per trasferire un palo della luce in disuso all’interno dello spazio espositivo, mettendo così in discussione i concetti di proprietà privata, di pubblica utilità e di autorialità. Oltre dieci anni dopo, in occasione della partecipazione di Daniel de Paula alla Biennale di Lione del 2022, l’artista concepiva una grande installazione multimediale nell’edificio, oggi abbandonato, che ospita il Musée Guimet. Nella stessa ha incluso una maschera funeraria marmorea di epoca romana, che nei secoli è stata usata come elemento di completamento di un marciapiede cittadina e che oggi appartiene alla collezione del Lugdunum, museo di storia della civilizzazione gallo-romana di Lione. È evidente come l’analisi del modo in cui l’uso di spazi e oggetti finisce per essere determinato da complesse relazioni di potere abbia ricoperto un posto centrale nell’opera di Daniel de Paula.

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Daniel de Paula, “deposição”, 2020. Courtesy of Galeria Jaqueline Martins and the artist.

Sintetizzando vari punti nevralgici di riflessione e ricerca dell’artista, l’opera intitolata deposição (2020), sviluppata in collaborazione con gli artisti nordamericani Marissa Benedict e David Rueter – e presentata per la prima volta alla 34° Biennale di San Paolo (a mia cura) -, è da considerarsi emblematica. Nel 2018 gli artisti sono riusciti a riscattare dal Chicago Board of Trade un trading pit utilizzato per decenni nelle negoziazioni di cereali e granaglie (poi abbandonato nel passaggio alle transazioni digitali). La struttura, una specie di arena ottagonale di circa 12 metri per 12, è allo stesso tempo un anti-monumento e una piattaforma per incontri pubblici volti a discutere ed enfatizzare il clima di condivisione e confronto che la struttura stessa suggerisce. Per il pit gli artisti prevedono un ciclo di presentazioni istituzionali, con l’obiettivo di incentivare discussioni e dibattiti sulle varie e diverse visioni politiche, sociali, artistiche e filosofiche che l’oggetto può rappresentare. Enfatizzando la dimensione performativa e discorsiva, accanto a quella scultorea e simbolica, deposição, è una delle opere in cui questi due aspetti convivono in modo più esplicito; ma per quando sia invisibile, il momento dello scambio di informazioni e conoscenze del confronto (essenziali in tutti i processi di negoziazioni di cui si parlava prima) è sempre presente nella pratica di Daniel de Paula.

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Daniel De Paula, “a forma condutora de fluxos dominantes”, exhibition view, Galeria Jaqueline Martins, São Paulo, 2017. Photo: José Pelegrini

Offre un esempio anche l’installazione Lastro (2017), ispirata a un’indagine sulle pietre utilizzate per dare stabilità alle navi che partivano dall’Europa per raccogliere le ricchezze delle colonie. Queste pietre venivano poi scaricate in Brasile e utilizzate nelle costruzioni di chiese e fortezze militari edificate dell’Impero Portoghese. In questo caso, oltre alla negoziazione istituzionale necessaria affinché potesse essere inclusa nell’installazione anche la zavorra recuperata dalla Marina Brasiliana durante una spedizione subacquea volta a recuperare una nave affondata nell’Oceano Atlantico, Daniel de Paula ha anche esplicitato la ricerca su cui si basa attraverso un video nel quale lo storico di economia Josè Jobson de Andrade Arruda spiega il modo in cui queste pietre calcaree condensano la complessa asimmetria del potere coloniale, lo sfruttamento violento di uomini e terre, il flusso incessante di merci e ricchezze. Oltre a esimi accademici come lo stesso Andrade Arruda o la sociologa olandese Saskia Sassen, l’istanza dialogica del lavoro include in tanti casi anche personaggi meno conosciuti e forse, proprio per questa ragione, più emblematici dell’aspirazione silenziosa del lavoro di Daniel de Paula, cioè l’operare di fatto in una scala collettiva e sociale nel senso più ampio che questi termini possono avere.

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Daniel De Paula, fetiche-feitiço, 1865-ongoing. Technique: Shadow (of engraved copperplate utilized for indirect printing on ceramic previously in use at the Petrus Regout & Co. porcelain and glass factory in 1865 during speculated visit of philosopher Karl Marx to the factory facilities (currently kept at the Centre Céramique, located at Avenue Céramique 50, Maastricht, NL); title to which shall pass to Collector through Sale Documents. Courtesy of the artist and Galerie Jaqueline Martins. Photo: GRAYSC

È significativo, in questo senso, che negli ultimi anni l’interesse dell’artista si sia rivolto con maggior enfasi verso il lato fugace, mobile e intangibile delle cose, dalla circolazione invisibile dei capitali e della pura speculazione finanziaria, svincolata da qualsiasi relazione con prodotti reali, fino alle ombre di oggetti e persone. Nella sua ultima mostra presso la Galeria Jaqueline Martins (a Bruxelles), Daniel de Paula ha esposto e messo in vendita l’ombra di una placca di rame utilizzata nella produzione di ceramiche della fabbrica Petrus Regoud & Co. and Royal Sphinx, probabilmente visitata da Karl Marx nel 1865 durante la stesura di Das Kapital. Se l’oggetto condensa ed esplicita, almeno da un punto di vista simbolico, la violenza del sistema capitalista che avrebbe portato Marx a concepire una società ontologicamente diversa, il gesto di de Paula (ossia mettere in vendita un’ombra) sottolinea quanto il potere del sistema capitalista trascenda la sfera di quello che può essere di fatto toccato e sentito, permeando tutti gli aspetti della vita contemporanea.

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Daniel de Paula, “dispossession-(self-portrait)”, 2023, Shadow of the artist Daniel de Paula (located adjacent to the artist’s physical body), title to which shall pass to Collector through Sale Documents. Unfathomable dimensions. 1987- ongoing © Daniel de Paula

Il più recente risultato di questa riflessione è un’opera prodotta per la prima mostra di de Paula da Labor, a Città del Messico, in cui l’artista mette in vendita la propria ombra, dichiarando la sua appartenenza come artista, e prima ancora come essere umano, a una società in cui tutto è in vendita. L’intangibilità dell’ombra, e il fatto che de Paula la porti con sé, senza dunque doverla consegnare al collezionista che eventualmente decida di acquistarla, non rende la proposta meno reale o inquietante. Al contrario, proietta il lavoro in una dimensione quasi mitica, nonostante l’importanza degli aspetti pratici e dei dettagli giuridici della transazione. Come già affermò Sol Lewitt nella prima delle sue celebri frasi sull’arte concettuale: “gli artisti concettuali sono più propriamente mistici che razionali. Essi arrivano a conclusioni a cui la logica non può arrivare”.

September 4, 2023