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Alessandro Sforza, Galeazzo Maria Sforza e Zanetto Bugatto nella pittura del 400*

Federico Cavalieri (from Nuovi Studi 27, 2022-2023 anno XXVII-XXVIII)

Zanetto Bugatto e il gusto per i dipinti fiamminghi emerso a Milano poco dopo la metà del XV secolo

Fra il 1457 e il 1458 Alessandro Sforza, signore di Pesaro e fratello minore del duca di Milano, si recò in Francia alla corte di Filippo il Buono di Borgogna per “vaghezza de vedere paesi, costumi, signore et altre cose notabile fora del mondo nostro me hanno tracto per tutto dove sono andato”, scriveva alla cognata Bianca Maria Visconti al suo rientro. In realtà, il viaggio avrebbe dovuto essere, almeno nelle intenzioni originarie, un pellegrinaggio a Saint-Antoine-de-Viennois per espiare il tentativo di strangolare la seconda moglie Sveva di Montefeltro. La donna stessa era poi stata costretta a chiudersi in convento, con il beneplacito di Francesco Sforza e quello, forse più interessato, di Federico da Montefeltro; lo Sforza di Pesaro si era comunque impegnato a non risposarsi più.

Tornando verso casa per la via di Verona, Alessandro fu raggiunto dall’ingiunzione ducale di rientrare subito nei suoi domini, senza passare da Milano, per evitare di dar adito a inutili sospetti. 

Comunque, il soggiorno nei “paesi dellà” gli aveva verosimilmente offerto fra le altre cose l’opportunità di commissionare tre dipinti “de man de Ruzieri”: il Trittico Sforza oggi a Bruxel les (Musée Royaux des Beax-Arts de Belgique, inv. 2407) e due ritratti “in duy ochij”, uno del duca di Borgogna Filippo il Buono e uno di se stesso (questi ultimi forse perduti) . Le informazioni e l’attribuzione al grande Rogier van der Weyden, si ricavano da un inventario steso solo qualche decennio dopo lo svolgimento del viaggio. Non disponiamo di elementi per pensare fondatamente che il duca Francesco avesse occasione di vedere di persona le tavole, ma che lui o Bianca Maria non ne sapessero proprio nulla non è verosimile.

Rogier van der Weyden: Crocifissione con Alessandro Sforza e i figli Costanzo e Battista; Natività di Cristo, Sant’Ippolito (?) e San Francesco; San Giovanni battista, Santa Caterina martire e Santa Barbara (trittico Sforza). Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts
Rogier van der Weyden: Crocifissione con Alessandro Sforza e i figli Costanzo e Battista; Natività di Cristo, Sant’Ippolito (?) e San Francesco; San Giovanni battista, Santa Caterina martire e Santa Barbara (trittico Sforza). Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts

Sul piccolo Trittico si è nei decenni accumulata una cospicua bibliografia, non tutta utile. Per questo delicato dipinto, nato nella più stretta fedeltà rogieriana, salvo che per la non troppo felice composizione, si è a lungo dibattuto sull’autografia (il maestro, la bottega, il maestro con la bottega, Memling, il maestro e Memling…) e, quasi altrettanto, sull’iconografia, in modo talora confuso. Chi sono i tre personaggi sfarzosamente abbigliati, raffigurati ai piedi della croce? Perfino l’enciclopedico Catalogue of Early Netherlandish Painting del 1996 6 è lacunoso e non segnala studi di poco precedenti la sua uscita o perpetua incertezze laddove non dovrebbero essercene. Eppure i fatti sono ben chiari. Sull’identità delle tre persone – l’adulto a destra, il ragazzo e la giovane donna a sinistra – non sussistono dubbi: sono gli Sforza signori di Pesaro intorno al 1460, l’araldica e le notizie sulla provenienza del trittico lo rendono certo. Inutile qui attardarsi a confutare le tesi di chi scambia il motivo ondato sforzesco con il ben diverso vaio della famiglia da Varano, cui apparteneva la madre dei ragazzi. Anche negli studi lombardi, del resto, le nette differenze fra l’araldica propriamente sforzesca, con l’ondato bianco e azzurro e, nei calzoni, i rossi, i bianchi e gli azzurri, e quella ducale (viscontea), con il bianco e il morello, spesso sfuggono. Ma tant’è. 

Dopo la monacazione forzata di Sveva, la famiglia restò dunque composta fra il 1457 e gli inizi del 1460, anno del matrimonio di Battista, da un adulto e due adolescenti. Nello stesso periodo si svolse anche il solitario viaggio “per piacere” dello Sforza a Nord.

Vestito “alla franzosa”, Alessandro fu in Francia, Borgogna, nelle Fiandre e forse anche in Inghilterra in uno dei momenti in cui Tudor e Lancaster si contendevano più aspramente il dominio. Come scrisse alla cognata, dal viaggio Alessandro riportò soprattutto “el stomacho molto travagliato” ma non sappiamo se fosse davvero questa l’unica cosa degna di nota. Né fanno chiarezza le lettere del duca Francesco ai suoi ambasciatori o la corrispondenza fra Alessandro e Bianca Maria. Che misura di verità contengano tutte queste carte è impossibile stabilire oggi. Mentre il signore di Pesaro era lontano, comunque, sui suoi figli sorvegliavano la duchessa di Milano e, sul posto, Piersanti da Sarnano e Benedetto Reguardati, umbro-marchigiani cui, come spesso accadeva, Francesco preferiva affidarsi.

I problemi relativi al trittico sono altri, e forse più interessati. Dato per scontato che Alessandro lo commissionò in occasione del suo viaggio (è l’ipotesi più verosimile) ma, in ragione dei tempi esecutivi non ebbe modo di portarlo con sé in Italia al rientro, si aprono vari interrogativi. Se fu completato più tardi, com’è probabile, quando Battista era ormai sposata con Federico di Urbino (8 febbraio 1460), perché il ritratto di suo padre, dipinto su un piccolo frammento di pergamena applicato alla tavola, somiglia poco al modello, dal naso pronunciato e adunco e dal volto quasi emaciato, che campeggia nelle medaglia firmata poco dopo la sua morte, circa 1475, da Gianfrancesco Enzola? Una simile metamorfosi appare poco probabile. E perché invece il ritratto di Battista può paragonarsi senza troppe difficoltà al busto di Francesco Laurana (Firenze, Bargello) cavato verosimilmente dalla sua maschera funebre (la donna morì nel 1472)? E come mai quello di suo fratello collima con l’effigie del giovane Costanzo, di rigoroso profilo numismatico, che ci ha lasciato ancora Enzola sempre nel 1475? Su quali fonti pittoriche/grafiche/scultoree si basò il pittore fiammingo? E quando? 

8. Gianfrancesco Enzola: Alessandro Sforza, medaglia. Washington, National Gallery of Art.
Gianfrancesco Enzola: Alessandro Sforza, medaglia. Washington, National Gallery of Art.

L’inventario della biblioteca sforzesca di Pesaro, pubblicato nel 1886 ma risalente al 1500, registra le tre opere collegabili con il viaggio di Alessandro: un Cristo in croce cum li paesi (il trittico), un ritratto dello Sforza e uno del duca di Borgogna Filippo il Buono, tutti e tre attribuiti a Rogier van der Weyden. Quando i dipinti giunsero a Pesaro? E per la via di Venezia o per quella di Milano? Qualcuno li vide prima del loro approdo marchigiano? Quando i due ritratti presero un’altra via e se ne persero le tracce fino a oggi?

La separazione avvenne comunque entro il XVIII secolo, come dimostra un recupero letterario di grande interesse di Mauro Natale. Il trittico, comunque, era sicuramente approdato a Bologna prima del 1720 ed era in vendita. Maggiori certezze aiuterebbero anche a datare il piccolo San Girolamo dell’Accademia Carrara di Bergamo, derivato dal trittico Sforza in un modo meno banale di quanto si sia fin qui osservato. La tavoletta riprende infatti fedelmente, con l’aggiunta del colore, non solo una delle grisailles sul verso del trittico ma anche alcuni particolari del paesaggio ripresi da punti diversi del recto dell’opera. L’amico Andrea De Marchi è sicuro dell’appartenenza di questa opera al “gruppo Cagnola”, sul quale si ritornerà poco più avanti: pur rilevando i forti legami, chi scrive non ha purtroppo altrettanta certezza.

Resta che la vicenda del Trittico Sforza, forse marginale, è un indizio del fatto che tra la fine del sesto e gli inizi del settimo decennio del Quattrocento anche la corte milanese aveva probabilmente occasione di sentir parlare dell’Ars Nova settentrionale. 

2. I più apprezzati protagonisti 

Cercando maestri adeguati per la decorazione di Sforzinda per conto di Francesco e Bianca Maria – siamo verso il 1461 – anche un campione di fiorentinità con buone conoscenze roma ne come il Filarete, scriveva: “si vorrebbe vedere se nelle parti oltramonti ne fosse nessuno buono, dove n’era uno valentissimo, il quale si chiamava maestro Giovanni da Bruggia, e lui ancora è morto. Parmi ci sia uno maestro Ruggieri, che è vantaggiato ancora; uno Giacchetto francioso ancora, se vive, è buono maestro, massime a ritrare del naturale”. L’architetto aveva un’idea precisa di ciò di cui parlava: “E così se ai a fare a tempera et anche a olio, si possono mettere tutti questi colori. Ma questa è altra pratica et altro modo; il quale è bello, chi lo sa fare. Nella Magnia si lavora bene in questa forma; maxime da quello maestro Giovanni da Bruggia, e maestro Ruggieri; i quali anno adoperato optimamente questi colori a olio”. Da notare l’uso del termine “Magnia”. 

Da dove precisamente Filarete attingesse le sue conoscenze non è del tutto chiaro, anche se le frequentazioni romane l’avranno senza dubbio aiutato. Resta il fatto che, benché sintetiche, colpiscono le frasi che denotano un livello di informazione non banale sulla scena pittorica fiamminga e su quella francese.

C’erano del resto molte occasioni ufficiali per far circolare le notizie. La Dieta di Mantova aveva attirato in Italia molti borgognoni e nell’estate del 1459 erano passati da Milano due importanti personaggi della corte di Filippo il Buono: Jean de Croy, signore di Chimay, e Jean, duca di Clèves. Il primo è, quasi certamente, il destinatario di una delle tre copie della lettera di raccomandazione approntata nella cancelleria ducale per Zanetto in partenza per le Fiandre, scritta circa un anno e mezzo più tardi, mentre del secondo è noto un ritratto dipinto da Rogier (Parigi, Louvre). Nel 1461 l’ambasciatore milanese Prospero da Camogli, una figura le cui inclinazioni culturali andrebbero approfondite, si trovava nel Brabante per trattare faccende politiche ma non trascurava di scrivere al duca “havendo io veduto de li edifici de questo paese assai, m’hè paruto conveniente mandarne qualche insegna (…) perché l’industrio Bartholomeo, architecto de vostra Excelentia veda li designi de altre natione”. Fu lo stesso Prospero, perso naggio che cadrà in disgrazia con il nuovo duca, a intervenire presso il Delfino perché si appianassero le difficoltà negli accordi economici fra Zanetto e Rogier van der Weyden. 

Rogier van der Weyden: Jean I duc de de Clèves. Parigi, Louvre.
Rogier van der Weyden: Jean I duc de de Clèves. Parigi, Louvre.

Alla fine di febbraio del 1462 giungeva a Milano Francesco Coppini, pratese, legato pontificio che aveva trascorso gli ultimi due anni facendo la spola fra Inghilterra e Fiandre, nel pieno del conflitto fra York e Lancaster, cercando di interpretare un ruolo visibile con un’improbabile mediazione fra i contendenti che gli guadagnasse crediti in Curia. Contando anche sulle note relazioni romane dello Sforza, sperava forse che il suo attivismo diplomatico gli fruttasse la porpora cardinalizia (così, poi, non fu). Chissà se portò con sé, nel viaggio, il trittico della Risurrezione di Lazzaro, firmato dal franco-fiammingo Nicolas Froment il 18 maggio 1461, sul retro del quale campeggiava il suo ritratto di Coppini in qualità di donatore sotto l’arma parlante della coppa; o se ebbe almeno occasione di mostrarlo o di parlarne allo Sforza. Rientrato poi a Firenze, donò il trittico a Cosimo de Medici (oggi è agli Uffizi), che aveva occhio abbastanza fine per giudicarne il non altissimo livello. 

Nel marzo del 1463 era nella capitale sforzesca Antonio, Gran Bastardo di Borgogna, le cui al tere fattezze sono note grazie a un superbo ritratto di Rogier van der Weyden (Bruxelles, MRBAB) di cui esiste almeno una replica, forse di bottega (Los Angeles, Getty Museum). Amante dei libri, possedeva una notevole collezione di manoscritti (ne sono stati identificati circa 50), molti dei quali miniati. Oltre che con Rogier, fu in rapporti con la bottega di Memling e con medaglisti italiani. 

Un caso a sé è quello dei Portinari, con la loro efficiente rete di comunicazione internazionale che aveva in Pigello il referente milanese. Ben prima che Tommaso si impegnasse a sbalordire i fiorentini con il trittico di Hugo van der Goes (Firenze, Uffizi) e con quello di Memling (Danzica, Museo Nazionale) – non arrivato in Italia perché se ne appropriano corsari polacchi – Pigello blandiva il duca e i milanesi con la stupenda cappella presso Sant’Eustorgio e con il palazzo del Banco Mediceo.

Fra le scene lì dipinte c’era anche una Giustizia di Traiano, tema di sapore umanistico che, su quattro grandi affreschi eseguiti verso il 1439 da Rogier van der Weyden per la Sala di Giustizia del municipio di Bruxelles affiancava la Giustizia di Herkinbald, coniugando tradizioni fiam minga e classica (e qui si aprirebbe un interrogativo sulla natura dei dipinti su muro nelle Fiandre, su cui non si sa molto). Le opere sono in parte note grazie a un arazzo databile non oltre il 1461 circa che ne deriva, e che si conserva a Berna (Historisches Museum).

Una nota minore: nell’ottobre del 1469, nei libri mastri dei Borromeo è registrato l’acquisto di “tre telle fiamenghe depinte” pagate poco più di 32 lire, non una gran cifra, a tale Giovan Matheo toschano. Un esempio di questi succedanei dei più costosi arazzi potrebbero essere le due modeste tele fiamminghe che si conservano al Museo Ala Ponzone di Cremona.

Se si eccettua la vicenda di Zanetto Bugatto, questi fatti non sembrano comunque aver suscitato reazioni profonde nella pittura milanese, ma un bilancio è ancora prematuro: l’affresco con il Crocifisso nordico nel piccolo oratorio di Buccinasco, oggetto di riscoperta e di attenzioni solo in tempi molto recenti, è lì a dimostrarlo. Altro, come si vedrà poco oltre, è il caso del Cristo davanti a Pilato di Chiaravalle e dell’Uomo di dolori di Brugherio.

Maestro della Madonna Cagnola (Zanetto Bugatto) o maestro di cultura flandro-tedesca: Crocifissione. Buccinasco Castello, Santa Maria Assunta (già San Michele).
Maestro della Madonna Cagnola (Zanetto Bugatto) o maestro di cultura flandro-tedesca: Crocifissione. Buccinasco Castello, Santa Maria Assunta (già San Michele).

Zanetto Bugatto, è bene ribadirlo, non andò nelle Fiandre per volontà dei duchi ma di propria iniziativa, o almeno così paiono dirci le carte: il salvacondotto è del dicembre 1460 e la partenza avvenne probabilmente alcune settimane dopo. Nei documenti, pubblicati da Malaguzzi Valeri oltre cent’anni fa, è detto esplicitamente che i duchi approvavano e non posero quindi ostacoli, ma la richiesta era partita dal giovane e così pure l’indicazione della bottega presso cui voleva perfezionarsi. Ciò emerge da documenti redatti in presa diretta, nei giorni stessi in cui si decidevano anche i costi del viaggio. Al rientro di Zanetto, nel 1463, la duchessa si definì invece promotrice del viaggio (“altre volte deliberassimo…”), ma il tutto suona come un’abitudine retorica oppure l’appropriarsi di un merito da parte di chi era abbastanza potente per farlo. 

Non è chiaro chi fosse il “Magister Guglielmus” presso il quale voleva perfezionarsi (Spicre?), ma poi le cose presero un’altra piega e si affacciò il nome di Rogier van der Weyden. In una lettera del 1461, Prospero da Camogli chiedeva a Cicco Simonetta di intercedere perché lo Sforza contribuisse con 25 ducati, metà della cifra annuale da pagare per l’apprendistato su cui alla fine Zanetto e Rogier van der Weyden erano pervenuti a un accordo: il resto, evidentemente, era a carico del pittore. Che i duchi potessero vedere con favore l’intraprendenza del giovane è possibile, ma che questa vicenda dica qualcosa di preciso sul loro gusto è ancora da dimostrare. 

A spingere Zanetto verso nord era forse stato un contatto a Milano con “Guascono franzoso” (Gaston du Lyon), ambasciatore del Delfino, per il quale il giovane aveva dipinto un ritratto di Ippolita Sforza da portare a Genappe. Il successivo intervento dello stesso Delfino in suo aiuto sarebbe altrimenti più difficile da spiegare. Ma le reali ragioni di questi viaggi non sempre ci sono note: si ricorderà che van Eyck, pittore di corte di Filippo il Buono, aveva effettuato missioni segrete per il suo duca, fra cui una in Portogallo e, su un livello ben più modesto, andrà tenuta a mente la figura di Jehan Gillemer, miniatore itinerante che visitò anche Milano e che poi, nel 1471, fu processato per spionaggio.

Il soggiorno del milanese Zanetto Bugatto a Bruxelles si protrasse per poco più di due anni: il salvacondotto per l’uscita dai domini sforzeschi data alla fine di dicembre del 1460, momento poco propizio per mettersi in cammino sulla via delle Alpi, mentre la conferma dell’ingresso nel la bottega di Rogier van der Weiden è dei primi di marzo del 1461. Nel maggio del 1463 Zanetto era di nuovo a Milano, primo ambasciatore in terra lombarda dell’Ars Nova di Fiandra. 

Pur ammettendo che le lacune nelle nostre conoscenze sono tuttora molto ampie, possiamo comunque affermare con un buon margine di certezza che Zanetto Bugatto non fu quel mediocre pittorello in cui parte della critica vorrebbe trasformarlo. Le commissioni ducali non mancarono (alla morte di Bianca Maria, il 23 ottobre 1468, il pittore rivendicava per esempio un credito di 350 lire “pro resto”, cifra che, se riferita ad un singolo lavoro potrebbe essere il saldo del compenso, per esempio, di un polittico). Contatti più stretti e frequenti Zanetto dovette comunque avere con Galeazzo Maria, per il quale risulta impegnato con continuità almeno dal 1468 al 1474 (senza mai diventare uno stipendiato, possibilità che a Milano non esisteva). Nel 1471, per esempio, accompagnò il duca a Mantova per vedere lo stato di avanzamento dei lavori di Mantegna in castello, naturalmente nella “Camera degli Sposi”, e colse l’occasione per mostrare al Gonzaga due di dieci medaglioni d’oro realizzati su suo disegno. Gli oggetti valevano più di 10 mila ducati ciascuno, e definirli lussuosi è senza dubbio poco: su recto e verso vi figuravano due imprese sforzesche e i due ritratti di profilo di Galeazzo e Bona: sotto il primo si trovava la firma “OPVS ZANETI PICT” come nelle medaglie di Pisanello e in particolare quella dedicata a Filippo Maria Visconti. Analoga, infatti, la valorizzazione della qualifica di “pittore”. Le medaglie auree di Zanetto e gli affreschi di Mantegna, del resto, danno la misura delle due strade apparentemente divergenti ma sottilmente simili che avevano imboccato le corti di Milano e Mantova verso il Rinascimento. 

Anche questa volta, comunque, pare che la sua trasferta gonzaghesca avesse avuto luogo in seguito a una sua esplicita richiesta allo Sforza.

E ancora. A dimostrazione del suo status a corte sono le note reperite da Carlo Cairati – e generosamente messe a disposizione di chi scrive – che riguardano lavori non trascurabili eseguiti alla fine dell’estate del 1471 nella cappella della casa pavese (?) di Cicco Simonetta (si veda un contributo di Cairati di prossima pubblicazione). Difficile pensare che un pittore che serviva il vertice del ducato potesse essere l’inerte copista autore della tavola di Santa Maria in Decinisio presso Sormano, come qualcuno vorrebbe.

Pittore lombardo dell’ottavo decennio del sec. XV, dal Maestro della Madonna Cagnola (Zanetto Bugatto): Adorazione del Bambino con due donatori, Santa Caterina martire, San Girolamo, San Giovanni battista, Sant’Ambrogio, San Bernardo da Chiaravalle, una santa e Annunciazione. Sormano (Como), Santa Maria del Sasso a Dicinisio.
Pittore lombardo dell’ottavo decennio del sec. XV, dal Maestro della Madonna Cagnola (Zanetto Bugatto): Adorazione del Bambino con due donatori, Santa Caterina martire, San Girolamo, San Giovanni battista, Sant’Ambrogio, San Bernardo da Chiaravalle, una santa e Annunciazione. Sormano (Como), Santa Maria del Sasso a Dicinisio.

Sui possibili rapporti che Zanetto Bugatto ebbe anche con la pittura francese, al di là del breve viaggio del 1468, sappiamo poco. Nel 1461, ma probabilmente già da un decennio, Fouquet era attivo a Tours, dove continuò a lavorare fin oltre il 1475 e dove alcuni documenti lo ricordano anche come “peintre du roy” Luigi XI (lo stesso che, come Delfino, aveva aiutato Zanetto a Bruxelles). Se poi il milanese avesse avuto occasione di recarsi altre volte in Francia, e quando, è materia di congetture: di spazio, nelle sue vicende biografiche, ce n’è a sufficienza.

Restano le evidenze figurative, dominate sì dal gusto fiammingo ma con qualche elegante accento francese. Ci si riferisce naturalmente al polittico da cui la vicenda della riscoperta di Zanetto ha preso le mosse: un’opera veramente monumentale, anche se incompleta, arricchitasi negli ultimi anni della stupenda e titubante Sant’Orsola adolescente e del Cristo sorretto dall’angelo, noto solo in fotografia. Qualche dubbio sulla composizione del polittico e sul posto delle varie tavole può sussistere, ma non sembra rilevante a fronte di un tale capolavoro. Se poi questo fosse l’apparato figurativo dell’altar maggiore della Certosa di Garegnano come si è supposto è un problema che volentieri lasciamo ad altri. Alcuni elementi lo suggerirebbero, non ultima proprio la timida Orsola.

Pur fra le incertezze che ancora persistono intorno agli effetti del viaggio in Fiandra su vari suoi colleghi, è necessario ribadire che il ritorno di Zanetto Bugatto non determinò una chiara diffusione a Milano del ritratto “in duy ochij” o di altri simili stilemi di chiara ascendenza fiamminga. Quell’eredità, che dovette stemperarsi in una pratica quotidiana a stretto contatto con i molti maestri lombardi, andrà piuttosto ricercata fra le pieghe di una fase dell’evoluzione foppesca, o in Stefano Fedeli e Gottardo Scotti, o nelle nebbie che ancora avvolgono la formazione del Bergognone, forse anche negli esordi di Zenale.

Su possibili echi lombardi dell’arte di Zanetto Bugatto chi scrive si è già speso, talora troppo timidamente. Ad essi si aggiunga tutto ciò che scrive in questa sede Andrea De Marchi.

Ironia della sorte: nonostante la parentela fiamminga, e rogieriana in particolare, e la cronologia prossima, il Cristo di Buccinasco non sembra a chi scrive avvicinabile se non in modo molto generico alle opere dell’area zanettiana. Ha un carattere nordico, forse con qualche accento francese (si veda la Crocifissione della cattedrale di Bourges), ma più alpino che fiammingo, nonostante la derivazione parziale dalla Crocifissione dell’Escorial di Rogier van der Weyden, dimostrata soprattutto dallo svolazzo del perizoma di Cristo e dall’intensa figura di san Giovanni, con i lunghi capelli ricci e le pieghe del manto secche e profonde.

È probabile che il pittore avesse in mente anche altri modelli, come attesta una serie di prove grafiche e miniate, individuate e generosamente segnalate a chi scrive da Francesco Gonzales. I due dolenti di Buccinasco avevano infatti avuto notevole fortuna in area germanica e oltre. Vanno qui citati quelli che figurano su una miniatura medio renana del 1481, i più simili per le puntuali corrispondenze di pose e panneggi (Magonza, Priesterseminar, Hs. 5,) e anche i due dolenti su un Reliquiario oggi al Musée de Cluny a Parigi (inv. Nr C1, 19968). Par non parlare poi della cascata di “gradini” che il panneggio crea sulla spalla destra del san Giovanni nella miniatura di Israhel van Meckenem dal Maestro E. S., Vienna, L.IX.33.36. 

Anche senza modelli precisi, per il dipinto di Buccinasco basterebbe la schietta parlata tedesca di tutto quel sangue che gronda dalla fronte, dalle braccia e dal torso del Cristo: chi, di lingua a italiana o fiamminga, si sarebbe permesso tanto gusto per il macabro? Non sembra davvero il caso di pensare al linguaggio sempre nobile e compassato, introspettivo e quasi “timido” di Zanetto Bugatto. Ma su questo e più in generale sulla carriera di Zanetto si veda su questa stessa rivista la puntuale analisi di Andrea De Marchi: le opinioni di chi scrive collimano quasi al cento per cento… 

3.  “Nella sua corte fu oltremodo splendidissimo” 

In continuità con l’interessato protezionismo di Francesco Sforza, capace di valorizzare quanto di meglio esprimeva il genius loci, si colloca la prima commissione pittorica importante di Galeazzo, ancora sottoposto alle ingerenze materne. A meno di due mesi dalla nomina ducale, il 12 maggio 1466, il giovane affidò a Foppa l’incarico di affrescare una Madonna col Bambino adorata dal duca in Santa Maria delle Grazie a Monza. L’armonia fra madre e figlio, testimoniata per esempio dalle doppie iniziali che affiancano gli stemmi scolpiti sulla Loggia degli Osii, non durò tuttavia a lungo: scrollatasi di dosso l’invadente matrona (“per dio gratia son in età et in grado che nessuno me ha ad dare dele scurriate sul culo”), Galeazzo mostrò sempre meno attenzione per la sensibilità della madre o dei sudditi. Inequivocabile fu la decisione di abbandonare la Corte d’Arengo per tornare ad abitare in castello, cautamente contrastata da un milanese se non arioso come Pietro Pusterla.

Oltre che nella politica, nell’amministrazione, nell’organizzazione della corte, nei rapporti con i sudditi, l’abbandono delle orme paterne si manifestò ben presto anche nelle scelte culturali e artistiche. Non che Galeazzo cessasse di impiegare gli artisti locali: a fronte dei vari inca richi a Bembo, Vismara, Marchesi eccetera si possono schierare pochi indizi contrari – Baldassarre d’Este, Mantegna, Antonello da Messina – rappresentativi però di un’apertura e di una volubilità che erano mancate a suo padre.

Schiacciato nella storiografia fra due stereotipi – il duca saggio, Francesco, e il duca astuto ma colto, Ludovico – l’incontinente Galeazzo Maria è forse stato sottovalutato come committente d’arte. Se coerenza e raffinatezza non furono sempre prerogative delle sue scelte, c’è però la quantità a suggerire che la figura merita un approfondimento: tra castelli, cappelle votive, santuari, pale d’altare, reliquiari eccetera, i dieci anni del suo governo lasciarono una traccia vasta e profonda, seppellita nei documenti e talora oscurata dal radioso tramonto della corte del fratello Ludovico.

Fin da giovane Galeazzo s’era invaghito più di letteratura cavalleresca che dei classici e questa sua speciale inclinazione settentrionale si accentuò quando ebbe finalmente in mano i cordoni della borsa.

Suo padre s’era dato da fare per ottenere Madonne di Desiderio da Settignano, Galeazzo in vece inseguiva opere nordiche: nel maggio del 1472, venuto a sapere della presenza di “un tedescho in casa de Sforza, quale ha una Maestate molto bella”, ordinava che l’uomo lo raggiungesse a Pavia portandola con sé, “perché desideramo vederlo et faremo cosa gli piacerà” . 

Nulla si sa di ciò che poi accadde dell’opera, forse di pittura, ma il caso non è isolato: nel 1476 Galeazzo riusciva infatti a mettere le mani su un’altra Maestà, dipinta dal ginevrino Hans Witz, naturalmente senza pagarla (se ne riparlerà poco oltre).

Francesco inseguiva un ideale di classicità introducendo, primo fra i signori italiani, la propria effigie dal naturale, in rigido profilo, sulla monetazione, e Galeazzo ne stravolgeva in parte l’idea facendo coniare dodici medaglioni d’oro massiccio, del valore di oltre diecimila ducati ciascuno, con i ritratti suo e della consorte, due dei quali portò a Mantova nel 1471 per impressionare i Gonzaga.

Le prime idee per l’appartamento del duca nel castello di Porta Giovia prevedevano un profluvio di “velluti piani, zettonini vellutati, zettonini rasi, damaschini cremisili similiter veluti cel lestri, verdi et morelli” che non avrebbe sfigurato nel palazzo del Coudenberg, e la scelta del la decorazione ad affresco fu un ripiego temporaneo (nelle intenzioni) dettato da fretta ed esigenze di risparmio. 

Dell’incompiuta Ancona delle Reliquie non è rimasto probabilmente nulla o quasi, ma i molti documenti studiati da Marco Albertario permettono oggi di ricostruirne la storia in modo più chiaro. Nel 1474, comunque, un Gadio rispettosamente disperato chiedeva al duca di deci dere se voleva infine che la si allestisse nella cappella di Pavia o in quella di Milano. La cappella imperiale del castello di Karlštejn è stata evocata a proposito di questa grandiosa impresa di pittura e intagli dorati, e sarebbe interessante sapere se un simile modello fosse davvero nella mente del duca.

Per le nozze di Galeazzo, una cascata di gigli di Francia invadeva l’araldica milanese: si noti, non di croci sabaude, nonostante Bona fosse una Savoia oltre che la cognata di Luigi XI. Perfino Filippo Maria Visconti, che per la consorte non aveva certo nutrito un grande trasporto, non si era permesso un simile sgarbo. E invece i capitelli del castello milanese, e probabilmente l’al tare ducale dei Sette Santi o della Resurrezione, in Duomo, e l’Ancona delle Reliquie, e perfino “la faciata del pallatio de Broleto de Mediolano” si popolavano di bisce, aquile e gigli: Visconti (Sforza), Impero, Francia. E queste armi regali siffatte si conservavano ancora, in Palazzo Reale, fino a pochi decenni fa. I gigli, poi, spadroneggiavano sul celebre giubbotto che fa bella mostra di sé nel ritratto dipinto da Piero del Pollaiolo (Firenze, Uffizi).

Piero del Pollajolo: Galeazzo Maria Sforza. Firenze, Galleria degli Uffizi.
Piero del Pollajolo: Galeazzo Maria Sforza. Firenze, Galleria degli Uffizi.

Francesco aveva vagheggiato la costruzione di un arco trionfale da Cesare trionfatore a Cremona, che lo celebrasse insieme con Bianca Maria. Assalito da un improvviso attacco di tanatofobia, nel 1471 Galeazzo invece sognava per sé un mausoleo imperiale “in modo del baptiste rio de S[an]to Johanne Baptista de fiorenza o de pisa” con all’interno la sua effigie in bronzo.

Per Francesco si realizzava la miniatura che orna una pagina del Divis Principibus di Filelfo (Paris, Bibliothéque Nationale, ms. 8128) con i due duchi e una parata di giovani virgulti, che conserva forse echi dell’affresco foppesco del Banco (sempre che questo fosse stato effettiva mente realizzato, fatto su cui è lecito dubitare): un’immagine che mostra i duchi con una dozzina di figli che doveva ricordare ai milanesi che, uno o l’altro, di Sforza ce n’erano abbastanza per governare lo stato per i prossimi cent’anni e più (non fu così).

Di tutt’altro tenore la miniatura che mostra Galeazzo che dà udienza a vari personaggi del suo seguito contenuta nel Opusculmm super declarationem arboris consanguinitatis et affinitatiatis di Gerolamo Mangiaria (Paris, Bibliothéque Nationale, ms. lat 4586) e che pare mettere in scena le parole del 1468 di un cortigiano professionale come Giovan Matteo Bottigella: “perché il mazore piacere et consolatione possa havere in questo mondo è quando io posso vide re la presentia Vostra et contemplarme in essa como fanno li sancti ne la Maiestà divina”. Anche se di qualità molto più modesta, la miniatura ricorda quella che mostra Filippo il Buono e la sua corte, probabilmente della bottega o su disegno di Rogier van der Weyden (Bruxelles, Bi bl. Royale ms. 9241). 

È forse arbitrario estrapolare dal bizzarro tessuto delle opere realizzate, avviate o solo sognate da Galeazzo esempi che suggeriscano una specifica simpatia ponentina, ma gli indizi di una simile predilezione ci sono.

Dall’epoca del suo avventuroso ritorno dalla Francia, non erano di certo mancate le occasioni di contatti con le corti settentrionali. L’arcivescovo milanese Stefano Nardini, impegnato nel le delicate trattative per il matrimonio del duca con Bona di Savoia, fece realizzare in una bot tega flandro-borgognona l’arazzo con Storie della Passione che nell’autunno del 1468 donò al Duomo di Milano, dove tuttora si conserva (Museo dell’Opera del Duomo). Nel 1470 era a Milano, in compagnia del figlio Jean, Anselme Adournes, importante personaggio pubblico di origine lucchese (Adorno), in viaggio per la Terra Santa. Poco prima di partire, l’uomo aveva steso quel celebre testamento con riferimenti a due tavolette raffiguranti San Francesco “van meester Jans handt” sulla cui discussa identificazione con le opere di Torino (Galleria Sabauda) e Philadelphia (Museum of Art, Johnson Collection) molto è stato scritto. L’Adournes fu amabilmente ricevuto dal duca Galeazzo e fece in tempo a scrivere una breve descrizione della capitale sforzesca.

In una lista di pagamenti del 1475 si fa riferimento ad una “Maistà del crucifiso portato de Franza per uso del signore”.

Il manoscritto miniato noto come le Ore nere di Galeazzo Maria Sforza (Österreichische Nationalbibliothek, Codex Vindobonensis, M. 1856) fu realizzato e illustrato nelle Fiandre, probabilmente a Bruges, intorno al 1470. Un prezioso capolavoro delle più squisita tradizione flandro-borgognona che, nonostante sia noto ormai da tempo, ancora suscita interrogativi: non si sa infatti come né quando sia giunto nel possesso di Galeazzo Maria Sforza, se per acquisto o come donazione. Le iniziali del duca, in capitali quadrate, ornano il frontespizio e suggeriscono una datazione di qualche tempo successiva al 1466 (e ovviamente precedente il dicembre 1476). Si noterà peraltro che, mentre le pagine del manoscritto hanno un fondo nero, il colore di questa iniziale sembra tendere piuttosto al morello: se così fosse, sarebbe un indizio in più sul fatto che il manoscritto non era nato per il duca di Milano ma era divenuto suo solo dopo esser stato completato.

Miniatore fiammingo circa 1470: Imprese di Galeazzo Maria Sforza; Cristo davanti a Pilato. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, ms. 1856, Das schwarze Gebetbuch des Galeazzo Maria Sforza), cc. 1r e 51v.
Miniatore fiammingo circa 1470: Imprese di Galeazzo Maria Sforza; Cristo davanti a Pilato. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, ms. 1856, Das schwarze Gebetbuch des Galeazzo Maria Sforza), cc. 1r e 51v. Herzogs Galeazzo Maria Sforza von Mailand. Fotografische Reproduktion.

Quasi in chiusura della sua carriera – ma lui, ovviamente, non lo sapeva – Galeazzo tentava di assoldare Antonello da Messina, che forse meglio di ogni altro avrebbe potuto offrirgli, in particolare nella ritrattistica, un’apprezzabile miscela di nord e sud .

Non si tornò naturalmente, nel breve periodo del suo governo, ai tempi di Giovannino de’ Grassi, quando Jean Mignot o Jacques Coene potevano trovarsi a proprio agio a Pavia come alla corte del Berry. Il fenomeno fu meno incisivo, incapace di distogliere a lungo i milanesi – artisti e committenti – dall’attrazione crescente esercitata dal “gusto per l’antico” e dallo stile rinascimentale, ma fu un momento interessante e la brusca interruzione nella chiesa di Santo Stefano della carriera del duca vanitoso (“indebitamente sonno pomposo un poco, non è gran peccato in un signore” ) contribuì, a suo modo, ad indicare la strada. 

Ludovico Sforza non ebbe comunque difficoltà a preservare la memoria del padre e a cancellare quella del fratello. 

4. “Zohanni de Savii depintore de Savoia 

La vicenda che lega a Milano il pittore Hans Witz, oggetto di un breve contributo di Evelin S. Welch e poi di un approfondito studio di Stefania Buganza, merita di essere ricordata. In sintesi: nella primavera del 1476 Galeazzo seppe che Branda Castiglioni, vescovo di Como, era rientrato dalla sua missione diplomatica a Ginevra con un pittore al seguito, e che questi, ospite nella casa milanese del prelato, aveva portato con sé una Maestà dipinta. 

Temendo i torbidi che andavano addensandosi nei cieli del Ducato di Savoia, e sulla persona della Duchessa in particolare, il pittore aveva deciso che era meglio cambiare aria. La protezione del Castiglioni l’avrebbe aiutato ad allontanarsi da Chambery e l’avrebbe garantito; e poi, chissà, ne sarebbe scaturito anche qualche nuovo lavoro: Milano aveva molte opportunità da offrire, non fosse altro che per l’infinito cantiere del Duomo.

Nella vicenda entra anche un altro personaggio importante che accompagnava il presule, quel “Marchio” Pallavicinus che da alcuni studiosi è stato trasformato in “Marco”, senza intendere che era un marchese e domandandosi chi fosse.

l duca, come si è accennato, si fece mandare l’artista e l’opera al castello di Galliate e poi “re tende la maestà e remandò el maestro indereto” senza sborsare un soldo. Per non “dare turbamento al Signore del pagamento”, il Castiglioni offrì 50 ducati al pittore, che però non volle sentir ragione quando capì che il vescovo intendeva dedurne le spese sostenute per un’ospitalità in casa propria che si protraeva ormai da molti mesi. Qualche tempo dopo la morte del duca, Witz – che nel frattempo aveva dipinto “un quatretto che veramente non vale il quarto de quello chel domanda” – si rivolse alla duchessa sperando forse che le sue origini sabaude potessero aiutar lo a ottenere l’intero pagamento. Che fine abbia poi fatto la Maestà non è dato sapere: lo ignorava lo stesso Castiglioni, che nella sua contro-supplica a Bona la immaginava “appresso o vero in possanza della Celsitudine vostra”. Nel 1476 Hans era dunque a Milano e vi rimase almeno fino all’estate del 1478, quando entrò al servizio della duchessa Bona con uno stipendio fisso. 

È curioso che nell’atto milanese del 1478 non si faccia alcun accenno al fatto che l’artista doveva aver lavorato per i duchi di Savoia, strana omissione nel momento in cui entrava al servizio di Bona. Un caso di omonimia? È in effetti possibile che siano esistiti più maestri con lo stesso nome, attivi come pittori e vetrai negli stati sabaudi, probabilmente parenti fra loro e legati anche al più celebre Konrad. Il pittore venne comunque assunto a venti fiorini al mese (circa otto ducati), una cifra non enorme ma dignitosa. Nell’episodio si può anche leggere il tentativo di imprimere una svolta savoiarda all’arte della corte, possibile solo fin tanto che la duchessa restava al potere (e non ci restò molto): si capirebbe così la decisione di dare uno stipendio fisso a un pittore, prassi estranea alla tradizione della corte sforzesca, ma normale per i Savoia. 

Espliciti echi di questa breve stagione filo-sabauda, peraltro, non se ne sono rilevati nella pittura lombarda: era il tempo di maturazione del Bergognone, Leonardo non era ancora arrivato e Bramante lo era, forse, solo da pochi mesi. Il tentativo di infeudazione pittorica sabauda ebbe comunque carattere effimero, visto che già nel settembre del 1479 Ludovico il Moro riuscì a estromettere la vedova dall’effettivo controllo del ducato. E Ludovico aveva idee diverse in tutti i campi. 

La figura di Branda Castiglioni vescovo di Como (1415-1487), pronipote dell’omonimo presule, merita comunque un’attenzione meno episodica di quella fin qui ricevuta dagli storici dell’arte lombarda. Come committente potrebbe infatti non sfigurare a fianco di Ambrogio Griffi o di Giovanni Matteo Bottigella. In più, che il Castiglioni avesse familiarità con l’arte oltremontana è certo, dal momento che si trasferì da giovane in Normandia: nel 1439 era deputato al capitolo di Bayeux, poi fu arcidiacono di Coutances, canonico di Vireville e quindi della cattedrale di Liegi. Rientrò in Italia solo nel 1465 e sulla strada per Roma non trascurò di portare i saluti di Luigi XI alla coppia ducale milanese.

Fu ripetutamente impegnato in ambasciate in Francia e in Savoia prima per Galeazzo e poi per la reggente Bona, e fu durante una missione diplomatica che accolse nel suo seguito, come si è visto, il pittore Hans Witz. Né simili aperture settentrionali mancavano di tradizioni in famiglia: nella collegiata di Castiglione, tempio dei gusti del suo più celebre omonimo, si trovavano sculture in avorio e pietra colorata simili a quelle diffuse “apud Germaniam”.

In tempi relativamente recenti ma con ben diverso clamore, sono emersi in Lombardia due dipinti di evidente cultura nordica, più precisamente germanica: un murale e una tavola. Raffigurano Cristo davanti a Pilato, dipinto su una parete interna dell’oratorio di San Bernardo a Chiaravalle Milanese, e un Cristo di dolori fra sant’Ambrogio e Sant’Agostino su tavola quadrata, già nella chiesetta di sant’Ambrogio a Brugherio, ma probabilmente in origine in un’importante chiesa milanese, come testimoniava la grande ancona in legno intagliato che lo ospitava, ora perduta. La tavola si trova oggi presso il Museo Vescovile di Bressanone grazie alla totale assenza di sensibilità di uomini di cultura ecclesiastici e laici che hanno consentito questo inutile esilio di un pezzo di estrema rarità, radicatissimo nella storia milanese.

Jos Amman von Ravensburg: Cristo di dolori fra Sant’Ambrogio e Sant’Agostino, San Tommaso Didimo, San Giovanni evangelista, Dio Padre, colomba dello Spirito Santo, San Pietro, San Paolo. Bressanone, Museo diocesano (da Brugherio, Sant’Ambrogio).
Jos Amman von Ravensburg: Cristo di dolori fra Sant’Ambrogio e Sant’Agostino, San Tommaso Didimo, San Giovanni evangelista, Dio Padre, colomba dello Spirito Santo, San Pietro, San Paolo. Bressanone, Museo diocesano (da Brugherio, Sant’Ambrogio).

La stretta affinità culturale è evidente, l’identità di mano forse un po’ meno per le pessime condizioni attuali del murale, ma comunque intrigante. Sono dipinti che riconducono alla me tà del XV secolo o poco dopo, con una forte impronta “alto renana” che riprende motivi anche fiamminghi senza restarne travolta. Richiamano da un lato ciò che resta della decorazione della tomba di Otto III von Hachberg nel Duomo di Costanza e dall’altro il meraviglioso chiostro di Santa Maria di Castello a Genova, che sappiamo decorato da Giusto di Ravensburg (Joos von) e bottega intorno al 1451 42. Ciò che preme qui sottolineare è la fortissima prossimità fra il dipinto di Brugherio e quelli di Genova, e quella un po’ meno evidente (forse), con Chiaravalle.

La personalità di Hans Witz, così come è stata pazientemente e meritoriamente recuperata da Stefania Buganza, non sembra poter risolvere tutti gli interrogativi. Al di là dei problemi di data (la carriera del pittore sarebbe stata straordinariamente lunga), ne esistono anche di ordine stilistico. Il pittore che si recò a Milano mostrava un grado di modernità espressiva al passo con i tempi. Sappiamo invece che gli affreschi di Genova sono di metà secolo e, per attrazione stilistica, sembrano esserlo anche quelli di Costanza (1445 circa, il vescovo Otto III Hachberg morì nel 1451), Chiaravalle e la tavola di Brugherio. Anche se la distanza cronologica permetterebbe di pensare all’evoluzione di un solo pittore, la persistenza di stilemi tardogotici in accezione germanica rende possibile anche immaginare attiva qui una mano diversa, molto prossima a quella di Giusto di Ravensburg. La mano di un pittore di formazione non strettamente witziana, espressione di una cultura “conciliare”, una cultura del Bodensee, per dirla con De Marchi. Si noteranno peraltro sottili differenze, tutte da spiegare, fra la Vergine e gli angeli sulla balconata e le possenti figure della sottostante Crocifissione, di espressività quasi primitiva ma molto potente. La tomba Hachberg, ancora attualissima nel 1466 quando ad essa si ispirò l’autore della Grande Vergine di Ensiedeln, è molto sciupata nella parte propriamente pittorica ma le finte architetture e sculture sono perfettamente compatibili con Genova, Brugherio e Chiaravalle: ornati tedeschi resi con perizia quasi fiamminga. Per Genova abbiamo la data, almeno iniziale, per gli altri due si propone qui in via ipotetica una datazione successiva: 1455-1460 circa. La decorazione genovese è più estesa e presuppone l’intervento di più mani. Chiaravalle sembra il pezzo più moderno dell’intero gruppo. È forse il caso di ribadire che questo nucleo di opere di ascendenza germanica, sia o meno considerato del tutto omogeneo, poco ha a che vedere con la storia e la cultura di Zanetto.

Jos Amman von Ravensburg (?): Madonna col Bambino e angeli; Crocefissione tra i due dolenti, San Pietro e San Paolo che presentano il vescovo Ottone e un altro offerente (1445), foto storica. Costanza, Duomo, sepolcro di Ottone III von Hachberg.
Jos Amman von Ravensburg (?): Madonna col Bambino e angeli; Crocefissione tra i due dolenti, San Pietro e San Paolo che presentano il vescovo Ottone e un altro offerente (1445), foto storica. Costanza, Duomo, sepolcro di Ottone III von Hachberg.

Come ne La Settimana Enigmistica, insomma, sia per Giusto, sia per Zanetto Bugatto, la “pista cifrata” c’è, ma i punti cancellati o nascosti sono troppi per offrirci due immagini del tutto intellegibili. Quasi dispiace, dopo tanti anni, dover tornare a ribadire concetti che parevano assodati, ma che ancora vengono messi in discussione. Sulla scorta dei disastrati lacerti di Santa Maria degli Angeli a Vigevano, venticinque anni fa Maria Teresa Binaghi Olivari giudicava Zanetto Bugatto come un pittore “buono ma non eccellente”: dal testo si evince un certo gusto di ‘épater le bourgeois’, ben comprensibile dopo tanto accapigliarsi degli studiosi. Epperò… 

Quanto ancora si dovrà ripetere che a Vigevano sono solo pochi frammenti? Che la piatta e mediocre Madonna Lanz oggi a Maastricht non deriva dalla Cagnola? O che perdersi nell’impresa collettiva della volta della Cappella Ducale del castello di Milano non ha portato fin qui a nulla di preciso? Si potrebbe continuare. 

Zanetto Bugatto, ce lo garantiscono opere (poche, se si tiene conto anche della bottega) e documenti, non era un pittore da confondersi fra i vari Bembo, Zavattari, Vismara eccetera, figure non tutte ancora ben definite ma interessanti. Zanetto si poneva a un livello superiore, quello di Foppa o di Mantegna, rispetto ai quali ebbe solo la sfortuna di vivere e produrre per un periodo assai più breve. 

Se ci fosse ancora bisogno di convincersi che non è storicamente verosimile che il pittore avrebbe volentieri copiato per mettere insieme una modesta pala come quella di Sormano (Santa Maria in Decinisio), monumentale assai più nelle intenzioni che nel risultato, allora occorrerà mettere in fila le commissioni altolocate del pittore, in gran parte perdute o note solo tramite documenti. A questo lungo e prestigioso elenco si aggiungono ora, come si è visto, le carte inedite reperite da Carlo Cairati, che attestano lavori di Zanetto compiuti per conto di Cicco Simonetta, vale a dire il numero due (tre, se si conta Bona) a Milano nell’organigramma del potere nei primi tempi del governo di Galeazzo. Poi anche Cicco cadde in disgrazia…


* Titolo originale del saggio: “Altra pratica et altro modo” le relazioni fra lombardia e settentrione nella pittura del Quattrocento, capitoli di un racconto. [Ndr.]

April 13, 2024