Kelsey Isaacs: come sintetizzare gli strati di un sole di plastica
Kelsey Isaacs trasforma i bagliori di un cosmo artificiale in meticolosi dipinti, per riflettere i paradossi del reale
Di notte, nel cielo di Los Angeles, le stelle sono poche e distanti tra loro. I loro bagliori screziati donano una puntualizzazione poetica allo sgargiante paesaggio artificiale con cui competono. Rifacendosi a quest’idea, i dipinti di Kelsey Isaacs alchimizzano complesse economie di luce e spazio in dense anti-illusioni che irradiano auree di esistenza. Per Isaacs la pittura è un mezzo per indagare la realtà e dare una forma precisa ed estesa a particolari momenti di concomitanza altrimenti innominabili. In questo contesto, l’illuminazione è al centro della ricerca dell’artista, dove la luce, come la pittura, è puritana ed eretica al tempo stesso; mezzi per la genesi e la distruzione, ma solo simultaneamente, e in nome di un equilibrio risonante.
Il percorso di Kelsey Isaacs inizia con la costruzione di elaborate scenografie composte materiali di recupero. Serie di oggetti. Fogli di strass, custodie di CD, nastro vinilico, brandelli di sacchetti di plastica, orpelli, strisce di lattice e nastri. I materiali vengono ripensati con un metodo idiosincratico di schematizzazione intuitiva, per modellare intricati strati di plastica a guisa di paesaggi sconosciuti. A primo impatto, l’artificialità è il filo conduttore tra il lessico di Kelsey Isaacs e gli elementi accessori; e se questo può essere vero in apparenza, il loro valore emblematico è di natura meno superficiale.
Nel DNA molecolare di ogni oggetto impiegato ci sono millenni di innovazioni tecnologiche senza le quali questi artefatti non sarebbero possibili. Il progresso scientifico di generazioni e i cambiamenti sociali che ne sono conseguiti confluiscono nell’infrastruttura che sostiene la vita moderna. E il linguaggio visivo di Kelsey Isaacs è costituito proprio dai gioielli di questa infrastruttura. C’è una bellezza paradossale nel modo in cui il peso della storia è stato sfruttato per produrre tecnologie transformative. Come il sacchetto di plastica, per esempio, che al pari degli strass e delle palle da discoteca, diventa, per via della sua ubiquità, irrimediabilmente banale.
Riflettendo questo paradosso, i risultati dei rituali privati di costruzione del mondo di Kelsey Isaacs appaiono inizialmente giocosi, se non caotici; mentre il suo processo di assegnazione del tableau è in realtà assai complesso, persino faticoso. Attraverso molte operazioni di riordinamento meticoloso, l’artista disegna antropoceni in miniatura, arricchiti da costellazioni instabili di torce elettriche portatili. Queste fonti luminose sono comuni quanto i soggetti che illuminano, anche se poi nei dipinti di Isaacs non compaiono in maniera esplicita. Esistono, piuttosto, solo attraverso una confluenza di bagliori, foschie e altre forme di luce secondaria; l’ombra. Sebbene questa relazione univoca tra materiali artificiali sia di per sé una forma di riflessione, in questo caso una nota autonoma all’interno del coro di radianze coordinate, la natura della dinamica ricorda che la riflessione è anche una forma di assenza.
Una dinamica analoga esiste nella fotografia, la fase finale del processo di disegno pre-produttivo con cui Kelsey Isaacs indirizza i suoi universi precari verso la stabilità del presente, per poi espandere l’immagine finale nell’eternità corporea attraverso il vocabolario senza tempo della pittura a olio. Dato che Isaacs illumina i suoi modelli con luci nascoste, queste si attivano con seducente splendore. La scelta di dipingere sulla base di immagini fotografiche suggerisce un livello circolare di seduzione. L’artista nasconde la sua mano rimuovendo di proposito il dispositivo che usa per produrre la luce, prima di rivelarla attraverso lo strumento con cui alla fine la recupera; una macchina fotografica, che reca l’esistenza implicita e innegabile di un punto di vista.
Attraverso questo tedio, si capisce che quel che a prima vista sembra immediatamente gratificante, o addirittura inconsistente, nell’ambito della ricerca artistica di Kelsey Isaacs è in realtà il risultato di un processo attento, non lontano dal livello di analisi richiesto dall’indagine scientifica. A loro volta, le sue astro-masse manufatte sono impregnate di un ulteriore strato temporale che risuona in un’armonia contro-melodica rispetto alla linea temporale ontologica già incorporata nella loro costruzione. Alla luce di queste relazioni composte da materia e tempo, e dell’intreccio di percorsi evolutivi che si estende a tutti gli altri aspetti del suo lavoro, la decisione di Isaacs di rendere le immagini con l’antichità della pittura a olio si carica di generosa ironia poetica.
Si consideri ancora una volta che nell’immaginario di Kelsey Isaacs esiste il riflesso microcosmico di un mondo scandito dalle innovazioni energetiche del XX secolo. In mezzo a questa nuova esistenza globale imposta si cela un labirinto di mediazioni. Il processo di Isaacs rispecchia questa situazione, dando corpo alla crisi epistemologica di un mondo in cui tutto è e/o sta rapidamente diventando una rappresentazione di se stesso, o di qualcos’altro. La pittura a olio si colloca all’inizio di questo labirinto in accelerazione, ma anche come contrappunto permanente. Ciò che, secondo noi, è iniziato in modo semplice, come una combinazione di pigmenti elementari e oli di semi sulle pareti delle caverne, è rimasto pressoché immutato come tecnologia, evolvendosi soprattutto in termini di raffinatezza e applicazione, e guadagnando al contempo una relativa considerazione come forma d’arte. L’applicazione da parte di Kelsey Isaacs di questo mezzo stabile per incapsulare un teatro del perpetuo, da cui è lontano, ma anche così facilmente implicato, ha la sensazione di utilizzare un gioco di fumo e specchi, proprio per descrivere un gioco di fumo e specchi. E come in un vero gioco di fumo e specchi, la luce è fondamentale per il successo dell’esperienza.
Inutile sottolineare che la luce è un matriale fondamentale per la storia dell’arte, e questo è particolarmente vero nel caso degli artisti della California meridionale, che hanno iniziato a rispondere al fenomeno monolitico della luce nella sua abbondanza contro un paesaggio che si è aperto negli anni Sessanta. Da allora questi artisti sono stati canonizzati all’interno di un movimento coerentemente intitolato “Light and Space”. Kelsey Isaacs, cresciuta a Los Angeles, adotta un approccio più ampio e, considerando la meccanica di come la luce si muove e cambia attraverso i materiali sintetici in spazi ristretti, illumina le implicazioni del suo potere come strumento di frammentazione, trasfigurazione e conversione finale della società attraverso la mappatura comparativa di un realtà sull’altra. Dalla trasformazione cinematografica di granelli d’argento fotosensibili tramite particelle di luce, allo sviluppo di trame luminose nella progettazione delle produzioni dal vivo, la meccanica della luce come materiale fisico, a tutti i livelli, è stata fondamentale per la mediazione del nostro iper-presente.
Allo stesso modo, le proprietà organiche della pittura a olio e la sua luminescenza intrinseca sono state fondamentali per la sua efficacia, in quanto forma d’arte. E questo è particolarmente vero anche per il lavoro di Isaacs Kelsey, che, nella sua profonda e risonante piattezza, offre una magnifica articolazione di come sia possibile sperimentare quel iper-presente. Kelsey Isaacs prepara le sue superfici con gesso nero. Facendo eco a un maestro come Caravaggio, le cui opere sono ricche di audaci contrasti, Isaacs incide l’oscurità delle superfici impostando ciascuna composizione con il chiaroscuro, una tecnica rinascimentale esasperata in epoca barocca. In seguito, attraverso un processo che potrebbe essere facilmente paragonato alla stratificazione geologica sotto il peso della gravità, l’artista comprime lentamente gli strati di pittura in un’unica pianura di virtualità, conferendo infine una morbida luminosità agli estremi di partenza. Guardarli è un po’ come esercitare pressione su una molla: i suoi dipinti sono carichi di un’immediatezza visiva che aspetta di saltare, ma che vacilla nella neutralità, tenuta perennemente a bada da una sensazione di densità impenetrabile, ottenibile solo con la pittura e con il tempo.
Ripensando alla personale da Theta, a New York (autunno 2023), si ha la sensazione che Kelsey Isaacs concepisca le sue immagini come camere di risonanza e sia disposta a giocare con la loro ampiezza in vari modi. Il più importante è quello di impostare la vicinanza relativa dello spettatore al suo soggetto attraverso le superfici. La visione di più opere di Isaacs in una mostra produce una sensazione più simile all’osservazione di un universo in espansione che alla contemplazione dell’arte. L’implicazione di una portata così ampia, che rasenta l’infinito, si avvicina all’inconsistenza nella sua insondabilità. Per Isaacs non è un problema perchè, come dice “la pittura non ha bisogno di scuse”.
Anche in questo caso, il sublime può essere trovato nella perfezione di fronti opposti, soprattutto quando si osserva da vicino. Come il ciclo di vita della pelle delle celebrità, c’è una bella dissonanza tra le ore di preparazione necessarie per immortalare una bellezza impermanente e l’immediata eternità dell’immagine per la quale viene spesso preparata.
March 26, 2024