Jasmine Gregory: essere o apparire?
Sembra che Jasmine Gregory voglia chiederci cosa intendiamo davvero essere, pur prevedendo che la risposta per qualcuno sarà una non-scelta
Per certi artisti l’arte è soprattutto un fare. Ossia una sorta di fluido processo di trasformazione della materia innescato dal bisogno di esprimersi e guidato dall’istinto. Jasmin Gregory, che da qualche anno vive nella culturalmente ricchissima Zurigo, ma che è nata negli Stati Uniti (nel 1987), fa parte di questa ristretta compagnia. Dico ristretta perché gli artisti in grado di dare con un gesto “vita” alla materia sono rari; e ancora più rari, tra questi, sono quelli in grado di sfuggire alle catene dello stile. In questo momento una delle caratteristiche più evidenti del lavoro di Jasmine Gregory è infatti quella di potersi evolvere in qualsiasi direzione. La sua pratica artistica è aperta e promettente.
Le mostre istituzionali di Jasmine Gregory degli ultimi due anni – CAPC Bordeaux, France; Centre d’Art Contemporain Genève, Switzerland; Swiss Institute, Milan, Italy – provano che Jasmine può dipingere, elaborare ambienti installativi, creare oggetti scultorei, mescolando livelli e registri senza mai perdere il controllo di quel che sta dicendo. Già, perché se è verso che Jasmine Gregory è senz’altro sensibile ai valori puramente visuali dell’opera d’arte, ossia alla forma, al colore, alla natura dei materiali e alla loro organizzazione estetica (a volte piacevolmente funky), dall’altra le tematiche che l’artista affronta sono elevate, invece che pop. Le questioni di genere, il tema delle disuguaglianze, le problematiche sociali, quelle economiche.
Come ho avuto modo di verificare in un nostro recente incontro, la pratica artistica di Jasmine Gregory si nutre di saggistica più che di cultura popolare – senza perciò negare quest’ultima, anzi. Pur scevro da qualsiasi forma di intellettualismo, lo sguardo di Jasmine Gregory è rivolto alla profondità, piuttosto che alla superficie. Per rendersene conto basta visitare il profilo Instagram dell’artista. A chi scrive ha colpito il post dedicato alle vignette di Linus, che il padre di Jasmine chiama “the funnies”, ma che evidentemente, come sappiamo, ingenue non sono affatto. Nella prima vignetta della gallery Linus dice a Charlie Brown “The price of everything is the amount of life you exchange for it” (il prezzo di ogni cosa è la quantità di vita che si scambia per essa).
Torno all’idea di dar “vita” a qualcosa, e prendo in considerazione la serie di opere più iconica prodotta da Jasmine Gregory sino ad ora, ossia quella dedicata al tema del capitale attraverso la rilettura di manifesti pubblicitari di brand come UBS e Patek Philippe. Come la frase di Linus, anche le headline di queste di aziende propongono concetti assoluti, riguardo a temi “alti”, che in qualche modo trascendono l’immanenza per collocare un servizio (quello bancario) e un prodotto (un orologio) in un discorso escatologico. Per comunicare un brand si sceglie di parlare dell’uomo e del suo destino. Si tratta di una strategia di marketing. Se vuoi vendere un trapano, diceva Philip Kotler, non devi raccontarne le caratteristiche tecniche, ma magnificare il buco che è in grado di fare. “La gente non vuole un trapano – puntualizza Kotler -, ma un buco nel muro”.
È qui che interviene la pittura, una delle pratiche attraverso cui l’uomo cerca di superare il problema della morte – adombrato da entrambe le pubblicità in questione. Va notato che Jasmine Gregory dipinge queste opere con tecnica tradizionale, sfidando con la propria abilità la perfezione grafica e formale dell’immagine pubblicitaria. Dopotutto – sembra dire l’artista -, anche un dipinto tende all’assoluto. Ma lo fa provando quel che l’essere umano è in grado di raggiungere, per bisogno d’amore probabilmente, con il proprio lavoro. Il fare artistico, manuale, istintivo, e dunque imperfetto, è in sé antitetico alla produzione industriale, per la quale l’imperfezione è un difetto.
Dipinto, orologio e capitale puntano a sopravvivere immutabili nel tempo, ma perseguono lo scopo in maniera differente. Il buco, non il trapano, ricordi? Da una parte c’è un valore riconosciuto ma completamente impersonale, dall’altra ce n’è uno soggettivo, individualmente connotato. Sembra che attraverso questa serie di opere Jasmine Gregory voglia chiederci cosa intendiamo davvero essere, pur prevedendo che la risposta per qualcuno sarà una non-scelta. Come gli orologi, dopotutto, anche le opere d’arte necessitano di capitale per essere acquisite. E forse va notato che UBS è da vent’anni consecutivi sponsor di Art Basel. Dove sta la differenza, dunque? Di nuovo, è un problema di identità. Mentre i beni industriali e gli asset finanziari rappresentano la stessa cosa per tutti i loro possessori, l’opera d’arte, anche quella più canonica, è unica, e in quanto tale proietta la propria unicità sull’individuo che la acquisisce, definendolo, nel bene e nel male. Mentre acquistando un bene industriale è teoricamente impossibile “sbagliare” (anche se l’orologio può rompersi e la banca fallire), ogni opera è un discorso a sé stante, che parla in profondità dell’individuo che la possiede, della sua cultura, della sua intelligenza, dei suoi valori, e soprattutto del modo in cui prende le proprie decisioni.
Essere, quindi, o sembrare?
June 21, 2024