Tre scoperte ad Art Brussels 2022
Tre spunti trovati nello strato emergente del mercato dell’arte, incontrato nella prima edizione post-pandemica di Art Brussels
La pandemia ha probabilmente colpito Art Brussels più duramente di altre fiere d’arte contemporanea. Tra molteplici rinvii e cancellazioni, il 2020 e il 2021 sono stati anni difficili per la fiera belga, che ha dovuto destreggiarsi con opzioni alternative – un’edizione ad Anversa lo scorso dicembre, la Brussels Art Week, alcune iniziative online – prima di tornare al suo potenziale effettivo, nell’aprile del 2022. Percorrendo la sua elegante scenografia, finalmente senza maschere – anche il governo belga ha recentemente eliminato l’obbligo di indossare maschere in ambienti chiusi – si respirava un’atmosfera tornata frizzante, un’atmosfera che ricordava molto quella respirata appena pochi giorni prima dai più fortunati all’opening della Biennale di Venezia.
Dopo una visita approfondita, possiamo dire che la caratteristica informalità di Art Brussels è sopravvissuta alla pandemia, e così la sua reputazione di luogo dove approfondire gli intellettualismi dell’arte, piuttosto che indulgere nello shopping compulsivo. Ed ecco cosa ci ha più interessato, concentrandoci soprattutto sull’arte giovane e sulle gallerie emergenti.
La nuova avventura di Claas Reis
Oggi Claas Reis ha 53 anni e una galleria d’arte che porta il suo nome. Fino a poco tempo fa si occupava di investment banking, a Hong Kong. Ma quando la compagnia che aveva contribuito a fondare è stata acquisita da un colosso del settore Reis ha capito che era venuto il momento di cambiar vita. Già collezionista, per qualche tempo si è dedicato alla pittura, non con l’idea di diventare un artista, ma per capirne meglio come un artista pensa. Poi, nel 2020, il giorno prima che Londra conoscesse il primo lockdown, ha inaugurato la sua prima mostra, che ha dovuto chiudere il giorno dopo.


Il passo successivo è quindi l’edizione 2022 di Art Brussels, che è anche la prima fiera a cui Claas Reis ha preso parte. Gli artisti con cui si è presentato al raffinato pubblico belga sono Daniel Graham Loxton (1987) e James Collins (1992), due autori che se non altro provano la maturità dell’occhio di Reis. Il nostro modo di augurargli buona fortuna è dunque cogliere l’occasione per ricordare che dopotutto anche Leo Castelli, il maggior gallerista del secolo scorso, aprì la sua galleria da over cinquanta, a New York, nel 1957. E tutti sappiamo com’è andata a finire.
Willa Chasmsweet Wasserman da François Ghebaly
Seguiamo Willa Chasmsweet Wasserman (classe 1990) da qualche tempo. Abbiamo pubblicato un primo saggio sul suo lavoro in occasione della mostra del 2020 da Good Weather a Chicago. Imbattersi in tre dei suoi recenti dipinti su bronzo nello stand di François Ghebaly ad Art Brussels è stata una sorpresa stimolante e desiderata. La pittura su bronzo è una tradizione antichissima, associata all’idea di opere altamente dettagliate. Wasserman rompe con questa aspettativa optando invece per tratti grezzi e istintivi, per suggerire solo un’idea di figurazione. Tre corpi sembrano affiorare dalla superficie lucida. Le tonalità si fondono con il colore del supporto metallico, un aspetto della pittura di Wasserman che purtroppo non è apprezzabile nelle riproduzioni digitali.


Si tratta di opere belle in senso classico, il che, come sottolinea Sonia D’Alto nel suo saggio sull’artista, può anche essere un modo per contraddire il passato invece di abbracciarlo. La prima mostra personale di Wasserman con François Ghebaly aprirà a Los Angeles il mese prossimo. La galleria americana inaugurerà presto uno anche spazio parigino, confermando la crescente rilevanza della capitale francese nel mondo dell’arte di oggi.
La personale di Marin Majic da Nino Mier
In tempi di “figurazione zombie” per gli artisti più giovani, la domanda da porsi è come la generazione precedente ancora si occupi di rappresentare la realtà. La pittura di Marin Majic, nato nel 1979, è una risposta convincente. La sua personale ad Art Brussels da Nino Mier ha presentato opere su tela, appese in una stanza dalle pareti verdi, in cui il visitatore doveva entrare facendosi spazio tra le piante che ostruivano l’accesso. All’interno scene oniriche per affermare come la pittura figurativa abbia comunque un proprio posto nel discorso sulla rappresentazione. Certi soggetti sono esclusivi del medium, e c’è solo una quantità limitata elementi che la fotografia può imitare.


Le opere di Marin Majic ribadiscono dunque l’autonomia della pittura non diversamente da quanto cercavano di fare i divisionisti più di un secolo fa. La pittura deve essere sé stessa, o almeno quella del suo autore – la tavolozza di colori di Majic ha un’identità chiara e riconoscibile, radicata nella tecnica; è prodotta con polvere di marmo, olio, cera e trementina, dominata dalle varie tonalità tra il verde e il grigio su cui dà forma ai soggetti, con pennelli e matite.
May 5, 2022