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CONCEPTUAL FINE ARTS

Monocultura: ne parliamo con Nav Haq e l’M HKA

Piero Bisello

Abbiamo incontrato Nav Haq, neo-direttore associato dell’M HKA di Anversa, per parlare di monocultura (e della sua recente promozione).

L’M HKA, ovvero il Museo d’Arte Contemporanea di Anversa, è uno dei più grandi dell’area geografica che comprende Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. Il museo è sede di mostre grandi temporanee, e titolare di un’importante collezione permanente. In occasione della sua recente promozione a direttore associato, abbiamo parlato con Nav Haq dell’inaugurazione dell’ultima mostra a sua cura, che si intitola ‘Monoculture – A Recent History’.

Nav Haq
The Museum of Contemporary Art of Antwerp M HKA. Courtesy of M HKA.

Nel corso della carriera Nav Haq ha avuto modo di collaborare con artisti del calibro di Hassan Khan, Cosima von Bonin, Shilpa Gupta, Imogen Stidworthy, Otobong Nkanga e Cevdet Erek. Ha inoltre ideato retrospettive su autori come Hüseyin Bahri Alptekin, Joseph Beuys, Kerry James Marshall e Laure Prouvost, oltre a curare la Biennale Internazionale di Arte Contemporanea di Goteborg nel 2017 e ha ricoprire incarichi curatoriali presso Arnolfini (Bristol) e Gaswork (Londra).

Nav Haq
Nav Haq. Photo by Sarah Van Looy

Hai lavorato per molti anni come curatore al M HKA, ma di recente sei stato nominato direttore associato. Puoi dire qualcosa sui cambiamenti che questo nuovo ruolo comporta?

Nav Haq: Quello che ho fatto come curatore è stato concentrarmi su mostre temporanee specifiche. Sebbene sia contento di poter continuare a farlo, ora ho anche la responsabilità generale del programma artistico del museo; devo dirigerne lo sviluppo anche in termini di visione artistica. In precedenza, era Bart De Baere – cioè il nostro direttore generale, che ora sta lavorando a un eventuale nuovo edificio del M HKA, che dovrebbe inaugurare nel 2027 – ad averne la responsabilità. Ora ho diverse nuove responsabilità, che includono la gestione di un team di curatori e produttori per l’ulteriore sviluppo del programma artistico, nonché di coloro che sono coinvolti con gli aspetti tecnici e produttivi. In più, gestisco i coordinatori e programmatori di ‘De Cinema’, il nostro cinema. Sviluppare una visione globale del programma del museo è per me una sfida nuova ed entusiasmante.

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Kerry James Marshall, Untitled, 1998–1999, Ink, paper, 250 x 1545,6 cm. Collection M HKA. Photo credit: M HKA.

Tre dei più grandi musei statali Italiani  (gli Uffizi, la Pinacoteca di Brera di Milano e il Museo di Capodimonte di Napoli) sono ora gestiti da direttori stranieri, una mossa politica fatta nel 2015 per promuovere un’apertura più internazionale e anche per evitare rischiose referenzialità all’interno di queste istituzioni. Sei il primo direttore non belga di M HKA. Pensi che la tua nomina derivi da motivazioni politiche simili?

Nav Haq: Per la cronaca, sono belga. Ho acquisito la nazionalità belga nel 2019, oltre a quella britannica – e questo non dipende dal mio lavoro all’M ​​HKA, ma dalla Brexit. Mi è sembrata una buona idea, anche perché ad Anversa mi sento integrato e felice. La mia nomina non è stata motivata da una politica più ampia come quella italiana. L’M HKA ha lanciato un open call, e io ho dovuto seguire l’iter formale di candidatura tipico delle istituzioni pubbliche. Presumibilmente sono stato scelto perché mi consideravano il miglior candidato. All’interno del contesto regionale, Anversa ha avuto molti curatori stranieri, presso l’M HKA, ma anche presso organizzazioni, come Extra City e Objectif Exhibitions. È forse un’eco, o un’eredità delle avanguardie del dopoguerra, quando molti artisti passavano per Anversa e la vedevano come un possibile punto d’incontro.

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Philip Guston, Law, 1969. Acrylic on panel. 76 x 81 cm. Private Collection, Waalre, The Netherlands. Photo: Peter Cox.

Per l’M HKA hai recentemente curato la mostra ‘Monoculture – A Recent History’, che insieme al materiale d’archivio, espone opere storico e opere più recenti. Cosa credi il visitatore possa aspettarsi di imparare dalla mostra?

Nav Haq: Prima di tutto, è interessante notare come le persone interpretino diversamente la parola “monocultura”. Nel mondo anglosassone è abbastanza comune intenderla in relazione alla società, ai media, o alle scienze sociali. Ad Anversa, invece, le persone pensano alla monocultura in agricoltura, che è il campo da cui ha avuto origine il termine. L’argomento che ho voluto affrontare è l’omogeneità culturale, che porta poi a chiedersi in quale tipo di società vorremmo vivere. Negli ultimi anni c’è stata una grande attenzione al multiculturalismo, un’attenzione che spesso ha generato luoghi comuni e dibattiti stagnanti. Ho sentito che sarebbe stato significativo pensare a cosa possa essere considerato come l’opposto del multiculturalismo da parte delle persone, da una prospettiva prettamente storica. La mostra propone diversi casi – mappati durante più di due anni di ricerca – riguardanti il tema dell’omogeneità culturale negli ultimi 100 anni. Si va da esempi eclatanti di monoculturalismo – come il nazismo in Germania, il comunismo in Unione Sovietica e il capitalismo liberale proprio del modello americano – alle ideologie meno egemoniche, tra cui emergono i casi provenienti da movimenti di emancipazione – come il movimento Négritude in Senegal, inteso come parte di un imperativo postcoloniale – passando poi all’omogeneità religiosa e linguistica e, naturalmente, all’agricoltura. Nella mostra i visitatori possono imbattersi in questi casi-studio attraverso il dialogo tra le opere d’arte storiche e quelle contemporanee, la propaganda e i documenti del pensiero filosofico.

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Hannah Höch Mischling (Mixed Race), 1924. Collage, photomontage. 11 x 8.2 cm. Courtesy of Institut für Auslandsbeziehungen e.V., Stuttgart. Photo: Liedtke & Michel.

Tempo fai hai dichiarato che, nonostante la sua immagine multiculturale, Anversa è una città piuttosto monoculturale. In che misura Monoculture tratta della città che la ospita?

Nav Haq: Non lo fa in modo diretto. Quello che ho imparato è che le cose che accadono nel mondo, o nel tuo contesto, possono diventare sfondo di un certo progetto in maniera incontrollabile. Prendiamo, per esempio, il lavoro di Ibrahim Mahama presente in mostra, un’opera che l’artista ha creato in risposta a una statua di epoca coloniale presente ad Anversa. L’opera è di Constant de Deken, missionario cattolico attivo nel Congo belga. La statua in questione raffigura un congolese inginocchiato ai piedi del missionario. Ciò diventa fortemente pertinente, anche alla luce movimento ‘Black Lives Matter’. In tal senso, io cerco di lavorare con questi eventi nel modo più significativo possibile. Esistono forme di nazionalismo in questa regione e nelle Fiandre, e il mio modo di riflettere su questo argomento non è necessariamente volto a puntare il dito verso dove mi trovo. Piuttosto, attraverso la riflessione, cerco di portare il discorso verso un contesto più ampio. La mostra presenta anche alcuni oggetti che hanno a che fare con il Belgio: per esempio, ci sono materiali che documentano la collaborazione belga con il Nazismo, o chiariscono il ruolo della religione nell’istruzione pubblica belga durante le cosiddette ‘Guerre scolastiche’.

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Ibrahim Mahama, On Monumental Silences, 2018, Rubber. 210 x 60 x 80 cm. Collection M HKA, Antwerp / Collection Flemish Community. Photo credit: M HKA.

[Qui il link al nostro scritto sul centro artistico fondato da Ibrahim Mahama a Tamale. Ndr]

Prima della pandemia c’è stata ampia discussione, in Belgio, sui tagli alla spesa pubblica per la cultura, tagli di cui ha risentito anche M HKA. Fino a che punto avete dovuto fare appello alla sponsorizzazione privata per rimanere al passo?

Nav Haq: M HKA ha subito piccoli tagli. È stata la pandemia a gravare maggiormente sulle finanze del museo, che dipendono in gran parte dalla vendita dei biglietti d’ingresso. Tuttavia, non esiste ad oggi un piano per un radicale riorientamento verso i fondi privati, anche se cercheremo sicuramente di raccoglierne. Nonostante la crescente necessità di fondi privati, non credo che il Belgio sia ancora vicino a un modello neoliberista, almeno non come quello che ho sperimentato quando lavoravo in Gran Bretagna. Allo stesso tempo, non c’è alcun dubbio riguardo al fatto che sono gli artisti i più colpiti dai tagli di bilancio decisi dal governo belga. La pandemia è stata un modo per puntare i riflettori su una questione specifica: la situazione precaria degli artisti locali, e degli operatori culturali, figure che invece si potrebbero integrare maggiormente nelle istituzioni. Abbiamo cercato modi diversi per sostenerli, creando occupazione, o avviando nuovi progetti.

A causa della pandemia molti musei hanno rivolto la loro attenzione ai programmi online. Il M HKA ha mai utilizzato il supporto digitale? In tal caso, potresti parlarci della vostra presenza online?

Nav Haq: Probabilmente non siamo così integrati in esso come lo sono altre istituzioni in questo momento. Come dici tu, tutti, durante il primo lockdown, hanno iniziato a fare cose online. A riguardo, ho nutrito dei sentimenti contrastanti: il tentativo di rappresentare una mostra online mi è sembrato molto inadeguato. Ho pensato che alcuni eventi pubblici fossero stati fatti molto bene, altri no. La cosa che ho apprezzato di più sono state le proiezioni di film d’artista, messi a disposizione sia dalle istituzioni pubbliche che dalle gallerie commerciali. Dal canto nostro, stiamo invitando esperti di certi argomenti – come la storia coloniale o il nazismo in Belgio – a visitare ‘Monoculture’ e pubblicare le registrazioni delle loro analisi sotto forma di podcast. Stiamo cercando di fare il possibile per il museo, cercheremo anche di organizzarne eventi ibridi, dal vivo e online.

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Nicoline van HarskampPDGN, 2016 Video 16:20 min. Courtesy the artist. Photo: Bea De Visser

L’M HKA è noto per la sua vasta collezione di arte contemporanea. Ci può dire qualcosa sulla politica di acquisizione del museo?

Nav Haq: È una collezione che si è evoluta nel tempo. All’inizio è risultato quasi istintivo acquisire opere provenienti dalle mostre temporanee del museo. Questo accade ancora, ma la politica è più strutturata. Vi sono tre punti focali. Il primo è la creazione di immagini, basata sulla storia di Anversa come uno dei luoghi fondatori delle immagini pittoriche moderne, un concetto ancora molto rilevante per molti artisti contemporanei locali e sicuramente la cosa più popolare tra il pubblico. Il secondo obiettivo ha a che fare con le preoccupazioni della società, e il terzo con l’azione, ovvero con gli atti performativi. Questi sono i tre grandi obiettivi che abbiamo per le nostre acquisizioni, ma abbiamo anche interessi geografici specifici. Da un lato, guardiamo alla cosiddetta ‘Eurocore’ – la regione che combina il Benelux con Renania, in Germania – che è storicamente ben collegata ed è anche la zona più densa d’Europa. Dall’altro, ci concentriamo sempre più sull’Eurasia, la grande unione di Europa e Asia, riferendoci a essa in termini multiculturali. In tal senso, un fiammingo, un turco, un persiano, un desi, un tartaro o un cinese, sono tutti eurasiatici.

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Jos de Gruyter & Harald Thys, White Suprematism, 2016. Pencil on cardboard, plexi, wood. 147 x 147 cm. Courtesy of the artists and Galerie Isabella Bortolozzi, Berlin. Photo: Kristien Daem

Anversa può vantare molti collezionisti d’arte. Come direttore, hai rapporti con questa scena?

Nav Haq: Qualche tempo fa ho letto un interessante sondaggio secondo il quale il Belgio ha più collezionisti d’arte per miglio quadrato che in qualsiasi altra parte del mondo. Curiosamente, non li incontro così spesso. Dalla mia esperienza, vivono meno nelle aree edificate e di più nelle zone rurali. Non sembrano i tipici collezionisti motivati da investimenti o status symbol. Sono invece persone che fanno le proprie cose, uomini d’affari di successo, che per caso sono interessati all’arte. Si approcciano al collezionismo in un modo che non è volto alla presentazione di una particolare immagine di sé. Come ho detto, sono molto interessati, e lo trovo questo un fatto piuttosto incoraggiante.

December 17, 2020