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Sophie Gogl: a proposito della faccina che ride

Julius Pristauz

Sophie Gogl adora i cambiamenti. Li cerca per raggiungere la cima della piramide dei bisogni: la versione più creativa di sé stessa

Nella piramide dei bisogni teorizzata dallo psicologo Abraham Maslow la possibilità di auto-realizzarsi sta in cima allo schema, e si manifesta quando tutti i bisogni sottostanti sono stati soddisfatti. Per Maslow si tratta di raggiungere il pieno potenziale dell’individuo e permettergli di crescere nella versione più inventiva e creativa del sé. Gli strumenti che Maslow ritiene necessari per arrivare a questo punto intercettano le opere dell’artista Sophie Gogl, nata nel 1992, in Austria.

Scrivendo della propria idea di auto-realizzazione Maslow invita a “trascendere” la coscienza umana relazionandosi con sé stessi e con gli altri più “significativi”, ovvero con gli esseri umani nel loro insieme, ma anche con le altre specie. (1) Esaminiamo attraverso la lente offerta da questa piramide tendenze ed esempi offerti dalle opere più recenti di Sophie Gogl, e da alcune delle sue mostre.

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Sophie Gogl, “Unser Kopf ist rund”, ø90cm, acrylic on canvas, 2020.

Sophie Gogl è cresciuta in una famiglia di artigiani e vive tra Kufstein (Tirolo) e Vienna, ovvero i due luoghi in cui, ad oggi, ha trascorso la maggior parte della sua vita. Gogl si trova spesso a passeggiare sul confine nebuloso e ibrido che separa la pittura dalla scultura, ovvero i medium attraverso cui ha deciso di esprimersi, anche se poi la sua pratica artistica si concede digressioni in altri campi, come la scrittura, l’immagine in movimento, o gli universi semantici di oggetti d’uso come certe tende o lampade d’arredo.

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Sophie Gogl, “Me as a Lamp”, various materials, 100x120cm, 2019.

Nel lavoro di Sophie Gogl alcuni temi generali potrebbero non essere immediatamente evidenti, dato che la sua creatività è spesso radicata nelle fonti d’ispirazione e nei suoi interessi. Flussi di coscienza riecheggiano qui e là. Non facendo distinzione, e non indagandone l’origine, l’artista diventa una sorta di catalizzatore di impulsi che potrebbero derivare dai social media, o da comportamenti osservati nei propri coetanei.

A Sophie Gogl interessa illustrare ciò che percepisce come fosse un canone. Tuttavia, rappresentando – e quindi manifestando, quasi perpetuando certi motivi – l’artista sembra ottenere l’effetto contrario. Posizionando le opere come fossero bloccate nel tempo provoca una tensione “interna” al lavoro. L’artista così cammina in equilibrio sulla una corda tesa tra il rapido flusso contemporaneo di immagini e la rappresentazione tradizionale, specialmente nel contesto storico della pittura a olio.

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Sophie Gogl, “U up?”, 120x240cm, acrylic on wood, 2019. (inverted).

Alcuni dei dipinti circolari di Sophie Gogl provano d’esser più interessati a commentare che a imporre. Dopo che l’artista ha tentato di tradurre in pittura fenomeni della cultura online come i meme, queste nuove opere, che sembrano lattine multicolore calate in modo inquietante nello spazio espositivo, ricordano Andy Warhol e il suo appropriarsi delle immagini più mediatiche della cultura del consumo, come la zuppa in scatola, per esempio, che il pubblico normalmente consuma. (2)

Esistono ruoli definiti per gli artisti. Uno di questi prevede che egli evochi questioni di autorità, inclusa l’autorità che si suppone gli venga data ogni volta che viene loro chiesto di esporre. Attraverso le proprie opere Sophie Gogl prova a scomporre tale ruolo, di volta in volta sottolineando, o mettendo in secondo piano, la propria implicita missione educativa.

Sophie Gogl è solita mostrare corpi animali contrapposti alle loro controparti umane, spesso affidando loro compiti simili. Critica i sentimenti di superiorità che gli uomini nutrono, suggerendo che, dopotutto, non siamo così diversi dagli animali. Ci chiama in causa, perciò, come esseri appartenenti al presente, o come artisti, per chiederci se siamo davvero in grado di giudicare senza pregiudizi.

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Sophie Gogl, “Die Dose”, ø70cm, acrylic on canvas, 2020.

Nella mostra Secondhand Angst, che ha avuto luogo alla galleria Zeller Van Almsick, incontriamo esattamente il tipo di digressioni di cui dicevamo all’inizio. Appropriandosi giocosamente di elementi solitamente attribuiti alla fotografia e alle possibilità offerte della postproduzione, Gogl dipinge intenzionalmente con toni negativi alcune delle sue tele.

Un biglietto che tanto assomiglia a una delle lettere d’amore scritte da Frida Kahlo, con due impronte di labbra di colore diverso e il suggerimento di usare il proprio smartphone per la navigazione, l’artista annuncia la presenza di un’altra stanza, inaccessibile a qualsiasi forma di luce.

Qui gli smartphone non servono solo a far luce, o a invertire una certa immagine. Sono anche dipinti in molte opere, accanto al corpo dell’artista. Con i visitatori che agiscono come gli elementi di un gioco che ruota intorno all’idea di trasformare, copiare, replicare, la mostra offre un grande esempio di dove l’artista sia in grado di spingersi, con le sue sculture e con l’estensione dello spazio pittorico, garantendo un’esperienza più vivida e agile delle proprie opere.

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Sophie Gogl, “Secondhand Angst”, Installation View, Zeller Van Almsick, 2020.
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Sophie Gogl, “o.T.”, ink on paper, lipstick, 21.0cm x 29.7cm, 2019.

Un po’ meno vivida nell’esperienza spaziale, e ancora più morbosa in termini di contenuto l’installazione intitolata Storno è stata commissionata dal MAK di Vienna, nel contesto della serie Creative climate care. Non solo con l’intento di verificare la posizione l’artista all’interno di ambienti sensazionalistici, vertiginosi ed essenzialmente spreconi, ma anche, più in generale, puntando alla produzione di questa stessa iconografia all’interno delle arti, la funzione specchiante dello Storno risulta evidente.

In realtà, in una conversazione che ha avuto luogo prima che scrivessimo questo testo, Sophie Gogl ci ha detto che questa mostra si è rivelata esser più incentrata sul tema del femminicidio che sul cambiamento climatico, o sul consumismo – qualcosa che l’artista non aveva intenzione di fare, ma che non poteva nemmeno respingere. All’improvviso sembra del tutto normale che Lana Del Rey faccia capolino da una delle tante valigie sparse nello spazio. E non si può fare a meno di sorridere, dato che uno dei suoi album di maggior successo si intitola proprio Born to die. La questione intorno a ciò che effettivamente accade nella trasformazione di immagini popolari in nuove entità, che poi creano nuove immagini e alimentano nuovi algoritmi, rimane senza risposta. Tutto ciò che abbiamo di fronte sono avanzi di simboli e narrazioni, racconti di una realtà che un tempo qualcuno ha vissuto.

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Sophie Gogl, “Lana”, size variable, suitcase, smoothie, moss, acrylic on canvas, pendant, 2020.
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Sophie Gogl, “mistake game”, 120x160cm, 2019.

Alcune astrazioni viscerali e certe tradizioni teoriche potrebbero aiutare ulteriormente a interpretare le decisioni prese da Sophie Gogl riguardo al principio di rappresentazione. Scrive il critico letterario Sianne Ngai: “La faccina che ride non esprime il volto di nessuno, o piuttosto esprime il volto mediatizzato e indifferenziato di un generico chiunque. Richiama l’idea di un’uomo spogliato di tutte le sue qualità per essere ridotto alla sua forma più semplice, attraverso un implicito atto di perequazione sociale, mettendo in relazione ogni faccia con la totalità di tutte le facce.” (3)

Anche se nel nostro caso non c’è una faccina sorridente, estraendo l’argomento di Ngai e applicandolo alla materia della nostra analisi, finiamo per ripiegare sull’interpretazione maslowiana. Troviamo questa presa di posizione anche in uno degli ultimi scritti di Sophie Gogl, intitolato She brings the pain. In questo testo – che è stato pubblicato da Schwabinggrad, a Monaco, nel contesto di una mostra con il medesimo titolo – Sophie Gogl racconta la storia di un fidanzato che si sforza di allinearsi sulle questioni di genere e che perciò consulta la propria fidanzata a riguardo. Il libretto contiene anche alcuni screenshots presi da Instagram, che nella società di oggi rappresenta uno dei principali modi di relazionarsi con i propri pari.

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Sophie Gogl, “U up?”, 120x240cm, acrylic on wood, 2019.

Sophie Gogl ama le relazioni. Così come è solita ruotare le tele rotonde mentre le dipinge, allo stesso modo, quando si tratta di rappresentare i soggetti di tali relazioni, si permette di girare all’interno della propria pratica. Con infiniti movimenti circolari, come turbine d’aereo spinte da un motore implacabile, Sophie Gogl sfugge così al bisogno di legittimazione. Elabora il suo materiale di partenza, con una varietà di ispirazioni spesso radicate nei modelli sociali e nelle circostanze attuali, trasferendole infine nei suoi medium d’elezione. E siccome noi, gli spettatori, potremmo non essere sicuri di vedere ciò che si nasconde dietro a tutti i suoi espedienti, dato che non siamo consapevoli di quali processi ancora non hanno raggiunto la punta della piramide, restiamo in attesa, curiosi di vedere cosa verrà dopo.

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(1) The farther reaches of human nature, Abraham H. Maslow, 1971, p. 269.

(2) L’opera a cui si fa riferimento è Campbell’s Soup Cans di Andy Warhol, 1962.

(3) Theory of the gimmick, Sianne Ngai, p. 175-176.

January 28, 2021