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Latifa Echakhch: vedere le cose come se vibrassero (un’intervista)

Haseeb Ahmed

Latifa Echakhch parla del suo prossimo padiglione alla Biennale di Venezia, della nomina nel board dell’Istituto Svizzero e dell’intimità dell’opera d’arte

Latifa Echakhch – che è nata a El-Khnansa, in Morocco, nel 1974 – trasforma la vita in una scena teatrale sospesa. Per riuscirci impiega aneddoti personali, oppure oggetti che accendono sogni e ricordi. L’artista oggi vive tra Parigi e Matigny, nel Canton Vallese. In questi mesi sta lavorando all’opera che il Padiglione della Svizzera esporrà alla prossima Biennale di Venezia. Dopo essersi incontrati per la prima volta a La Becque, durante un residenza, Latifa Echakhch e Haseeb Ahmed – autore dell’intervista che segue, anch’egli è un artista – hanno continuato il loro dialogo negli ultimi anni, in particolare durante le mostre di Echakhch alla Dvir Gallery di Bruxelles e poi al centro BPS22 di Charleroi.

[Qui il link la nostra intervista con il direttore di BPS22, ndr].

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Latifa Echakhch, Liberty Tree, 2016. Installation view, Kunsthalle Mainz, Mainz. Courtesy of the artist and Kunsthalle Mainz / kaufmann repetto Milan | New York. Photo: Norbert Miguletz.

A cosa sta lavorando in questo momento?

Latifa Echakhch: Mi sto concentrando sul Padiglione Svizzero per la prossima Biennale di Venezia. Il nucleo del progetto è legato al ritmo e alla temporalità, in merito ai quali sto conducendo una ricerca più approfondita, soprattutto in relazione alla memoria e a come la mente modifica il ricordo di immagini e oggetti. Questo tema è già parte del mio lavoro, ma in questa occasione viene riformulato in relazione al ritmo e alla musicalità. Si tratta un altro meccanismo che devo imparare, e che mi sta offrendo una nuova prospettiva su quanto fatto fin ora. Sto imparando un altro modo di lavorare, riscoprendo la mia pratica. Sto anche preparando un’altra installazione per l’Istituto Svizzero di Roma. Sarà visibile anche dall’esterno. Si tratta di una scena teatrale in stile marcatamente romantico. Sviluppa un lavoro che ho presentato a Milano alla galleria Kaufmann Repetto lo scorso autunno. È un palcoscenico da concerto, caotico e disordinato. L’installazione sarà visibile dall’esterno, giorno e notte. Permette di pensare al processo espositivo in modo diverso. L’opera ha una sua temporalità. Cambia durante i diversi mesi della mostra. La cornice del concerto è congelata nel tempo; non sappiamo se l’evento accadrà davvero.

Ho iniziato a sviluppare quest’idea prima della pandemia, secondo una modalità che spesso uso. Lo spettatore arriva dopo che qualcosa è finito, oppure prima che sia iniziato, senza che però si sappia di preciso cosa o perché sia accaduto. Mi interessano gli interstizi temporali dove non è possibile definire il dove e il quando, oppure quello che sta accadendo. Lavoro sulla malinconia di ciò che non esiste nel momento, ma in un momento successivo. Sono tipi di poesia e significato non evidenti quando, invece, abbiamo un fenomeno reale davanti agli occhi. Da vent’anni lavoro sui questi temi, eppure durante la pandemia ho avuto la sensazione che solo ora il pubblico potrà davvero capire come mi sono sentita ogni giorno della mia vita, fin dall’infanzia.

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Latifa Echakhch, Screen Shot M.M., 2016, wood, aluminium frames, canvas, tack clothes, black india ink, 173 x 300 x 2.5 cm, unique. Courtesy of the Artist and Dvir Gallery Tel Aviv/Brussels.

Parli di ritmo e di temporalità in questo momento di tempo sospeso che tutti stiamo vivendo. Ma dici di esserti sempre sentita così. Stai dunque giungendo al tuo tempo nativo? Usi il ritmo come un modo per rafforzare il senso di sospensione del tempo? Temi il tempo che passa e per questo vorresti fermarlo, oppure preferisci il potenziale del tempo prima che le cose accadano?

Latifa Echakhch: Mi ci è voluto molto per capire perché mi sento in questo modo. Quando ero bambina ho vissuto l’esperienza di arrivare da un altro paese e ho dovuto adattarmi a istanze culturali che non avevo mai sentito prima. Tutto era strano: gli oggetti, il Natale, la Pasqua, tutta la cultura occidentale, compreso il modo in cui le persone interagiscono tra loro. Quando arrivi in un paese straniero vedi sempre le cose come se fossero allo stesso tempo vibranti e discutibili. Forse il mio ‘decalage’ è iniziato in quel periodo, quando, come osservatrice, stavo solo accanto alle cose, non dentro di esse. Più tardi mio padre ha iniziato a lavorare al Casino Grand Cercle di Aix-les-Bains. C’erano ristoranti e un palco per l’opera, la musica, la danza e i concerti pop. A volte assistevo agli eventi, seduta in un piccolo palco sulla balconata. Il teatro è strano perché ci sono persone, arredi e oggetti che non sono reali – anzi, che sappiamo non essere reali. Ci viene raccontata un’intera storia, che dura circa un’ora. Da questa impariamo cose sulla vita o sull’umanità. Ma in realtà l’esperienza per me più importante si consumava dopo l’evento. Per via del lavoro di mio padre, una volta che il pubblico e gli attori avevano lasciato la sala, mi era consentito camminare sul palcoscenico, e la cosa che mi piaceva moltissimo. Quello che era così fantastico o meraviglioso visto dalla balconata era in realtà semplice e falso. Tutto ciò che sembrava magico non lo era più, conservando tuttavia quel potenziale. Forse è così che è iniziata. Non è che io ami il dramma, o la tristezza; piuttosto amo immaginare che chiunque possa cambiare prospettiva ogni volta che vuole. Chi guarda il mio lavoro può sempre proiettare su di esso un’azione futura. Propongo qualcosa la cui aurea dovrebbe essere più grande dell’oggetto in sé e per sé. È qualcosa di molto più inconsueto di una semplice natura morta.

È interessante sentire come un altro luogo di grande potenziale si apra una volta superata la soglia tra l’essere spettatore e l’essere attore, quando puoi cambiare le cose consapevolmente. Aver conosciuto parti della tua vita personale in Svizzera, e poi aver visto la tua mostra alla Dvir Gallery di Bruxelles, mi ha dato un altro tipo di prossimità rispetto alla tua pratica. Le parti di tappeto che hai installato erano tableau della tua relazione al suo avvento. C’è una ricostruzione meticolosa e una messa in evidenza di certi aspetti. Ho anche cercato di guardare attraverso gli occhi di qualcuno che non ha le informazioni che invece avevo io. Come vedi questi diversi livelli di impegno? Dentro o fuori?

Latifa Echakhch: Quei lavori in realtà non riguardavano solo me stessa; erano ritratti frammentati dell’inizio di una relazione. Era una sorta di montaggio – c’erano parti rimescolate. Gli oggetti nel mio lavoro non vengono da storie specifiche per rispondere all’intenzione di mettere in mostra queste storie; piuttosto, rappresentano un semplice punto di partenza. Gli oggetti che impiego sono infatti molto semplici: una camicia, un disco, un bicchiere di vino. L’osservatore può riconoscersi nell’oggetto anche senza la mia storia. Per la mostra intitolata l’Air du Temps, al Centre Pompidou di Parigi (2013, ndr.), mi sono chiesta quali oggetti ricordassi dalla mia infanzia. Poi ho cercato per mesi gli oggetti più simili a quelli che avevo in mente. È stato bello vedere che anche altre persone ricordavano di avere avuto quegli stessi oggetti – è stato come se fosse proprio la loro banalità a renderli relazionabili. Nel momento in cui l’installazione viene presentata al pubblico non fa più parte di me, ma viene offerta all’immaginazione.

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Latifa Echakhch, Wind Wall Icon, 2020, metallic pigment, red, black paint, concrete, fiber and vinyl on canvas, 300 x 200 cm, diptych 200 x 150 cm (each), unique. Courtesy of the Artist and Dvir Gallery Tel Aviv/Brussels.

Tutti abbiamo relazioni speciali, ma se tutti possono relazionarsi con le nostre storie allora forse i nostri ricordi potrebbero sentirsi minacciati. Eppure, poi si trova un altro modo per connettersi con altre persone. Si perde qualcosa, ma si guadagna qualcos’altro.

Latifa Echakhch: L’inizio di una storia d’amore è qualcosa che sembra così eccezionale, così magico. In realtà ti trovi nello stesso stato d’animo in cui si trovano migliaia di altre persone. Sembra tanto eccezionale, non lo è affatto. Mi piacerebbe che vedendo il mio lavoro le persone ricordassero il primo mese della loro relazione più importante. Sarebbe un bel dono – ricordi la magia? La materialità del lavoro non è invece nulla eccezionale; è solo la rovina di un ricordo. Potrebbe essere visto come qualcosa di drammatico; ma la potenzialità dei momenti sta nella percezione e non nella realtà dell’installazione. Sono solo oggetti su un tappeto colorato con inchiostro nero, che è in realtà qualcosa di piuttosto asciutto e crudo.

Penso che questo indichi anche la differenza tra la cosa in sé e l’oggetto, come descritto nella filosofia continentale. Quello che vediamo non sono sempre le qualità materiali dell’oggetto, ma tutte le associazioni e il concetto mentale stesso della cosa.

Latifa Echakhch: Quando offro un po’ della mia vita al pubblico è per spingerlo a pensare alla propria. Più in generale, credo che gli artisti facciano solo un lavoro che le altre persone non ha tempo di fare. Gli artisti si sono esercitati a sviluppare la nostra percezione, la nostra capacità di analizzare e di creare collegamenti tra sentimenti e situazioni. Passiamo la nostra vita a ripensare a come percepiamo il mondo, per poi restituirlo alle persone. Il mio lavoro può solo rivelare i sentimenti delle persone. Sono solo un facilitatore, e un trasmettitore. Non credo che in questo ci sia nulla di straordinario.

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Latifa Echakhch, Movement and Complication, 2009. Installation view, Swiss Institute, New York. Courtesy of the artist and FRAC, Reims / kaufmann repetto Milan | New York.

Una volta mi hai detto che la mia tendenza a lavorare troppo è un problema degli immigrati, che devono lavorare per dimostrare il proprio valore, non solo a sé stessi ma anche al mondo che li circonda. Oltretutto, per un artista il concetto di lavoro è questione di per sé ambigua. Puoi darci il tuo punto di vista sul problema dell’immigrazione e su come questo stato riflette sul ruolo dell’artista?

Latifa Echakhch: Ho pensato a questo anche di recente. Un giorno – avevo 27 anni – un curatore mi disse che come immigrata dovevo provare a me stessa che ero nel posto giusto, che dovevo lavorare più duramente degli altri per dimostrare che avevo titolo di stare nel campo della cultura. È difficile sentirsi legittimi nella propria posizione di artista. Ora, poiché sto insegnando di nuovo, sto cercando di capire come lavorano i miei studenti. In alcuni di loro vedo la stessa problematica. L’essere immigrati non è il motivo per cui lavoriamo di più, e penso che non ci sentiamo mai del tutto legittimati. Ci sentiamo come se dovessimo lavorare più degli altri. Abbiamo qualcosa in fondo alla mente che ci dice che dobbiamo lavorare di più per dimostrare che siamo nel posto giusto. Ma solo quando non hai più questa domanda in testa capisci di essere nel posto giusto. E se poi lavori molto è solo perché il lavoro lo richiede.

Trovo questa una sfumatura interessante perché riconosce le convenzioni e poi misura il tuo lavoro rispetto a esse. Mi chiedo se, quando si è in grado di riconoscerla, ci sia davvero la libertà di affrontare il tipo di convenzione che sottende.

Latifa Echakhch: L’aggettivo “normalizzato” non mi piace, ma è pur vero che più siamo normalizzati e più ci sentiamo legittimati. Cerco sempre di fare uno sforzo per parlare perfettamente il francese, perché so che quando la gente mi vede non vede una persona francese. Durante l’apertura della mia prima mostra a Parigi ricordo che una donna mi ha guardato e mi ha detto di essere sorpresa di come parlassi bene il francese. Anche la lingua può rivelarsi un’arma a doppio taglio. Se nessuno se ne curasse sarebbe molto più facile per tutti. Ma per cambiare le cose, dobbiamo cominciare dalla nostra percezione.

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Latifa Echakhch, Work Hard, 2015. Installation view, Swiss Institute, New York. Courtesy of the artist and Swiss Institute, New York / kaufmann repetto Milan | New York.

Da qualche tempo sei entrata a far parte del consiglio di amministrazione dell’Istituto Svizzero di New York. Credi che anche questo possa essere un luogo di normalizzazione degli immigrati?

Latifa Echakhch: Sono una donna, e sono un’immigrata. È parte del gioco. Conosco Simon Castets, il direttore dell’Istutito, da molti anni. Sono sempre stata consapevole di ciò che stava cercando di costruire. Abbiamo discusso molto riguardo a come un’istituzione possa non solo aiutare gli artisti ma anche mettere in discussione la società in cui essi vivono. Quando si è presentata l’opportunità per un altro artista di far parte del consiglio, Castets ha scelto me, permettendomi così di approfondire il nostro dialogo. Ora conosco il programma e il funzionamento interno dell’Istutito Svizzero; ne faccio parte. Ad alcuni artisti non piace essere coinvolti in gruppi, istituzioni politiche, consigli, o magari non gradiscono insegnare. Non è il mio caso. Per me si tratta di una possibilità di aiutare la nostra comunità. Penso che sia un buono strumento, e sono a mio agio nelle discussioni riguardanti la politica, i finanziamenti, gli incontri e le traiettorie da seguire.

Vorrei precisare che non intendevo avanzare l’idea che la tua nomina fosse in qualche modo legata alla tua etnia o al tuo genere sessuale.

Latifa Echakhch: Capisco, ma ci si pensa, non si può negarlo. Quando il mio nome appare all’interno di un’istituzione poi si viene a sapere che vengo dal Marocco, e ci sono sempre immigrati che si presentano il giorno dell’inaugurazione. Forse i ragazzi pensano ‘wow, fico, posso farlo anch’io’. Quando ero ragazzina non c’erano artisti immigrati nella scena. Sono cose importanti. Ora gli immigrati arabi sulla scena sono molti.

Latifa Echakhch, Le rappel des oiseaux, 2010. Installation view, FRAC Champagne-Ardenne, Reims. Courtesy of the artist and FRAC, Reims / kaufmann repetto Milan | New York.

È questo un fatto decisamente incoraggiante, che spiega il senso di avere un artista in un consiglio di amministrazione: immaginare traiettorie ed esserne cassa di risonanza.

Latifa Echakhch: I consigli sono fatti per condividere informazioni e punti di vista. Persone con diversi background danno una diversa comprensione delle cose, aumentando la consapevolezza riguardo alle molte domande che la società pone. Imparo molto di membri che vengono dal mondo del collezionismo e della finanza. In un certo senso, nel 2009 la mia carriera è iniziata proprio grazie all’Istituto Svizzero. Mi hanno accolto come artista, mi hanno dato carta bianca. Essere nel suo consiglio di amministrazione è per me anche un modo per ricambiare l’opportunità che mi è stata data. E come è accaduto per me accadrà anche per la nuova generazione di artisti internazionali.

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Latifa Echakhch, The Illusion of Light, 2014. Installation view, Palazzo Grassi, Venice. Courtesy of the artist and Palazzo Grassi, Venice / kaufmann repetto Milan | New York. Photo: Palazzo Grassi, ORCH orsenigo_chemollo.

È assai stimolante riconoscere il mondo dell’arte come una comunità, costituita da tipi molto diversi di persone, di diversa estrazione e provenienza. In un certo senso, si tratta di una comunità utopica, costruita nella società sugli ideali dell’arte. È anche qualcosa di piuttosto sottile, perché è difficile da afferrare e si auto-seleziona, il che è diverso da quello che avviene in altre comunità.

Latifa Echakhch: Oggi mi trovo nella posizione di mostrare il mio lavoro, di condividerlo e di poter vivere di questo. Sono fortunata. All’inizio pensavo che fosse impossibile. A un certo punto ricordo anche di aver pensato che il mio lavoro non era affatto desiderabile. Non è divertente, non è sexy o sensuale, mi dicevo. Pensavo che non avrei mai venduto nulla, che nessuno sarebbe stato interessato, perché il lavoro è troppo serio, o denso, o ha troppa gravità. Mi andava bene che fosse solo il mio percorso. Quando invece ho cominciato a essere riconosciuta l’unica cosa che è davvero cambiata è stata la possibilità di evolvere. Non avrei mai potuto produrre e condividere da sola un’opera pensata per 10.000 spettatori. Ma devi essere sempre coerente alla tua pratica, perché il successo può essere volubile. Se hai un lavoro che nessuno compra, questo è comunque quel che è. Non puoi trovare un altro stile – gli artisti non sono produttori. Come dicevo, noi vediamo le cose e le traduciamo.

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Latifa Echakhch, Cross fade, 2016. Installation view, The Power Plant, Toronto. Courtesy of the artist and The Power Plant, Toronto / kaufmann repetto Milan | New York.

Questo è esattamente quel che cerco di insegnare ai miei studenti. Siate felici del vostro lavoro e speriamo che tutto il resto vada per il verso giusto.

Latifa Echakhch: Un artista può anche evidenziare dettagli del mondo che ci circonda. La settimana scorsa ero in montagna in Svizzera e c’era molto vento. Ho iniziato a pensare al vento, e poi ho pensato a te, e mi sono ricordata che il vento viene da molto più lontano di quanto pensiamo. Mi hai fatto notare che il mio modo di percepire le cose potrebbe andare oltre. Dato che tu hai fatto il lavoro, posso semplicemente ricordarlo come qualcosa di prezioso.

Latifa Echakhch, Frail branch brush against the back, turn immediately and run away. Until forgetting why. detail, 2019. Courtesy of the artist and Fondazione Memmo, Rome / kaufmann repetto Milan | New York. Photo: Daniele Molajoli.

Grazie. Penso che molte opere d’arte funzionino come una post-immagine; riconosci il cambiamento percettivo che hanno causato solo dopo averle viste. Questo però porta a un’altra domanda, perché so che hai iniziato a collezionare opere d’arte. Riguardo al valore che puoi creare come artista, e al ruolo della creazione di oggetti e delle conseguenze che questa comporta, vorrei chiederti di parlare delle opere d’arte che ti interessano, o di qualcosa che magari hai acquisito.

Latifa Echakhch: Quando ero piccola collezionavo porcellini; più tardi ho collezionato libri, anche se dovevo risparmiare per comprarli. Così quando ho iniziato ad avere figli e più mezzi ho iniziato la mia collezione. Ero consapevole dell’importanza della prima opera, e ho cercato una fotografia di Jean-Luc Moulène, perché mi ricordavo di averla vista la prima volta che sono stata a Parigi. Non sono ricca, ma quando guadagno qualcosa tengo una parta per comprare un’altra opera d’arte. Le opere che ho sono di artisti importanti per me. Ci sono molte opere che non posso permettermi, come quelle di Bruce Naumann o David Hammons. Ho un lavoro di Bas Jan Ader, uno studio nella ricerca del nuovo plasticismo, e quando lo vedo è così bello e assurdo. Mi piace molto. So tutto del suo lavoro, ma non so cosa pensano le mie figlie quando lo vedono. Ho anche delle foto di Wolfgang Tillmans. Quando ero più giovane odiavo il suo lavoro – era così alla moda. Ma ho continuato a vedere le sue immagini e a un certo punto ho iniziato a capirlo davvero. Ogni volta che esco da una delle sue mostre torno alla vita reale e mi sembra di riformulare tutto secondo il suo modo di comporre. Si tratta di qualcosa di estremamente potente. Ho anche lavori storici di autori come Meret Oppenheim e Francis Picabia, e possiedo una cera incisa di Victor Brauner. Nel 2006 ho fatto un lavoro sull’avanguardia ebraica in Romania; non erano considerati rumeni e si sono trasferiti altrove, soprattutto in Francia. Ho creato un lavoro dalle riviste d’avanguardia rumene tra gli anni ’20 e ’40, incidendo su un pavimento di linoleum. Quando ho trovato l’incisione di Brauner mi è piaciuto constatare come avere quest’opera in casa mia abbia in qualche modo chiuso un cerchio. Sostengo anche artisti più giovani come Mohamed Bourouissa, Petrit Halilaj, Simon Fujiwara, Adrien Chevalley, Naama Tsabar… Le cose che amo e che costituiscono il mio paesaggio sono molto vaste, come la mia collezione di musica. Però non ho alcun mio lavoro in casa. Agli amici, ai miei ospiti, e naturalmente ai miei figli, Preferisco mostrare i miei interessi e le cose che amo.

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Latifa-Echakhch, Nude, 2017, concrete, acrylic, paint, 200x150x3cm, Unique. Courtesy of the Artist and Dvir Gallery Tel Aviv/Brussels. Photography: Elad Sarig.

Vorrei anche parlare della tua mostra per la Biennale di Venezia e dell’idea che questa sia una specie di penultima mostra d’artista. Hai un approccio diverso da quello che avresti avuto altrove?

Latifa Echakhch: Mi sono avvicinata a questo progetto in un modo molto diverso rispetto al solito. Piuttosto che pensare a quello che farò, ho pensato a come le persone si sentiranno dopo averlo visto. La musica e la temporalità sono centrali, ma non ci sarà il suono – si tratta del meccanismo, non dell’effetto. Tutto è iniziato con una conversazione che ho avuto con Alexandre Babel su come inizia un progetto. Gli ho chiesto, scrive prima di suonare? Come pianifica il suono? Quando sono stata invitata a proporre un progetto per il padiglione svizzero volevo lavorare con qualcuno che lavora in un modo completamente diverso dal mio. Usiamo strumenti diversi, e infatti la nostra percezione del tempo non coincide. Ma le ripetizioni, le variazioni, le alterazioni delle note, le questioni di armonia e dissonanza sono le stesse. Ho anche iniziato ad ascoltare la musica in modo diverso. Dopo quella conversazione ho iniziato a proiettarmi come musicista, intendendo il suono come un paesaggio. Mi si è aperto un nuovo mondo; è stato come imparare un’altra lingua, ma in modo molto più profondo. Poi ho iniziato a praticare la musica da sola; ho ricominciato a studiare pianoforte, a leggere la musica e a cantare. Con il pianoforte, le note sono esatte. La voce invece deve essere diretta. Questo significa che non si può pensare troppo, o il canto sarà forzato. È qualcosa che deve essere sentito, ma tutto è più flessibile e fluido. La matematica gioca un ruolo, ma quando si pratica, deve essere diretta. È come la mia pratica scultorea – se ci penso troppo, farò degli errori.

February 3, 2022