A Tokyo, da Misako & Rosen: un’intervista
Abbiamo incontrato i fondatori della galleria Misako & Rosen, ponte tra l’arte contemporanea giapponese e il resto del mondo
Nicchia di una nicchia, l’arte contemporanea giapponese spesso sfugge anche ai collezionisti più attenti, benché esista più di un motivo per ritenere un errore quel che di solito è un deficit di curiosità. L’assimilazione giapponese dell’arte contemporanea occidentale, d’altro canto, può insegnarci molto su ciò che pensiamo di conoscere. Così, a una paio di settimane dall’inizio della residenza di Misako & Rosen a Milano – con una personale di Kaoru Arima (CFAlive, dal 14 dicembre) – abbiamo chiesto a Jeffrey Rosen di raccontarci cosa vuol dire avere una galleria d’arte contemporanea a Tokyo e quali sono le vie che oggi collegano il Giappone al mondo dell’arte occidentale.
Com’è nata Misako & Rosen?
Io e Misako, mia moglie, abbiamo aperto la galleria nel 2006. Era dicembre. Entrambi venivamo da quella che ritengo sia stata, in Giappone, la prima generazione di gallerie d’arte contemporanea. Misako aveva già lavorato per Tomio Koyama, con artisti come Takashi Murakami e Yoshitomo Nara. Io avevo collaborato con Taka Ishii, che mi aveva assunto dopo essermi presentato nel suo spazio a Santa Monica… con i capelli rosa. All’epoca mi appassionava la cultura rave. Sono stato direttore della galleria dal 1998 al 2000. Nel 2002 mi sono trasferito a Tokyo, per dirigere un’altra sede di Taka Ishii. Lì ho conosciuto Misako, e dopo qualche tempo abbiamo fondato Misako & Rosen. La nostra prima fiera è sta NADA, a Miami, due anni dopo. Devo precisare che mentre io e Misako costruivamo il nostro programma ho continuato a lavorare anche per Taka Ishii; e questo è stato possibile grazie alla cooperazione che è tipica del mondo dell’arte giapponese. Avevo il piede in due scarpe, e perciò stavo molto attento a non dare priorità. Ero consapevole della fortuna di avere qualcuno che mi sostenesse. Per me era come avere un fratello maggiore. Taka Ishii mi lasciava viaggiare alla ricerca di opportunità per entrambi. Ho cercato di mantenere un approccio spiccatamente culturale anche con Misako & Rosen; la fiducia in quel che fai nasce quando le persone riconoscono che l’arte ti interessa davvero.
Questo approccio ha a che fare con il vostro background?
Né io né Misako abbiamo formazione artistica. Io ho studiato filosofia e non ho mai frequentato una scuola d’arte. Non me ne faccio un cruccio, anche perché oggi sono un’artista praticante. Misako ha studiato psicologia. Ci piace concepire la galleria come un artists run space. Forse è per questo che ci sentiamo così vicini a progetti come Queer Thoughts a New York, oppure il Collettive XYZ qui a Tokyo. Abbiamo sentito l’esigenza di adottare questa mentalità anche a causa della nostra posizione, che è di fatto periferica. Trovandoci geograficamente ai margini del mondo dell’arte, abbiamo a tutti gli effetti attivato un meccanismo di sopravvivenza. Combiniamo il mondo del non-profit artistico con quello dell’arte commerciale, nel quale entrambi siamo cresciuti. Ciò detto, credo che l’idea che la cultura venga prima di tutto sia una diretta conseguenza dell’aver aperto la nostra galleria nel bel mezzo di una crisi finanziaria mondiale.
Puoi approfondire quest’ultimo punto?
Il mercato dell’arte di oggi mi ricorda quello precedente al 2008. Si tratta addirittura di una sua versione esasperata. A quei tempi si poteva cinicamente prezzare un’opera 25 mila dollari più del dovuto e nessuno avrebbe avuto da dire. Quando abbiamo iniziato le cose erano molto diverse. Se c’è una differenza tra il boom precedente al 2008 e quello attuale è la presenza di una comunità più solida di spazi gestiti da artisti, che operano in connessione con il mondo dell’arte commerciale, ossia il cosiddetto mercato dell’arte. Un chiaro esempio è la Green Gallery di Milwaukee, un progetto di rilevanza internazionale, dal punto di vista commerciale come da quello artistico, che oltretutto mantiene una comunità radicata nel luogo in cui opera.
Come descriveresti il programma di Misako & Rosen?
Il modo più semplice per descriverlo è dire che siamo una galleria dalla mentalità piuttosto letterale. All’inizio il programma era radicato nel quotidiano, ma ora è diventato più intricato. Abbiamo due personalità, una molto astratta a livello formale – o almeno per ciò che viene percepito come astratto – e un’altra che si occupa delle viscere del corpo umano e della sua condizione. Questi due aspetti lavorano in tensione, in relazione, e talvolta in modo complementare tra loro. Ci soffermiamo sulle contraddizioni. Alla base del nostro lavoro, poi, non manca un certo senso dell’umorismo. Se da un lato prendiamo il nostro lavoro molto seriamente dall’altro facciamo di tutto per minare questa serietà.
Parlando degli artisti giapponesi che esponete all’estero, in che misura è importante spiegare al pubblico il contesto specifico in cui lavorano? Pensiamo, per esempio, a quegli artisti che fanno uso di uno specifico riferimento culturale; come una barzelletta, per esempio, che però può essere compresa solo in Giappone.
Alcuni artisti sono molto specifici rispetto a quello che accade in Giappone. Per le persone che vengono da fuori sarebbe praticamente impossibile capire il loro lavoro; potrebbe essere radicato nella lingua giapponese o nella quotidianità di questo paese. Allo stesso tempo dobbiamo compensare l’esotismo che le culture occidentali istintivamente applicano al Giappone e ai suoi artisti, a volte a nostro discapito; è facile apprezzare certe opere per ragioni sbagliate. Il fatto di trovarci in un luogo straniero è un altro motivo per cui non possiamo permetterci di essere cinici. Educhiamo costantemente le persone, cercando di evitare il paternalismo. Vogliamo semplicemente spiegare loro ciò che non conoscono di quello che mostriamo. Io stesso, non essendo giapponese, devo costantemente imparare. D’altro canto, può essere divertente mostrare un lavoro che sappiamo verrà frainteso. Questa può diventare una vera e propria missione culturale, ossia capire come gli artisti con cui lavoriamo possono inserirsi in un contesto più ampio. Ci troviamo in un luogo periferico, ma ne abbracciamo la goffaggine.
Come si inseriscono in questo quadro gli artisti occidentali con cui lavorate?
Vogliamo suscitare interesse in Giappone per il loro lavoro, ma abbiamo anche cercato artisti europei e statunitensi che potessero rispondere alle nostre domande sull’arte giapponese. Una volta acquisita una posizione stabile, ci siamo sentiti a nostro agio nell’invitare artisti occidentali più anziani, anche per contestualizzare i nostri artisti giapponesi più giovani. Siamo partiti dal presupposto che i curatori e i collezionisti giapponesi avrebbero immediatamente riconosciuto la loro importanza anche in Giappone, cosa che di fatto è avvenuta.
Che criteri utilizzate nella scelta di rappresentare un certo artista?
Sebbene ci fossimo ripromessi di non aggiungere altri artisti al programma – la galleria siamo Misako ed io e lavoriamo già con più di 30 artisti – di recente abbiamo iniziato a rappresentare un’artista più giovane, Reina Sugihara. Abbiamo pensato che il suo lavoro fosse così forte da non poter aspettare che altri intervenissero per promuoverlo. All’inizio cercavamo artisti in Giappone il cui lavoro fosse contemporaneo; ma non ce n’erano molti. In definitiva, si è sempre trattato di dare una risposta profondamente intuitiva alla loro arte. Spesso i galleristi rispondono a questa domanda in termini di condivisione delle ambizioni.
Secondo la tua esperienza, quanto sono ambiziosi gli artisti giapponesi e in che misura vedono in voi un modo per assicurarsi che il loro lavoro sia visibile anche all’estero?
C’è un pensiero di Wittgenstein che cerchiamo di seguire: “L’ambizione è la morte del pensiero”. Credo che gli artisti apprezzino il fatto che non li spingiamo a fare nulla che vada oltre ciò che a loro interessa. Proprio per questo capiscono che la nostra capacità di far conoscere il loro lavoro, attraverso il mercato e attraverso le istituzioni, richiederà molto tempo. Esiste tuttavia una fiducia condivisa nella cultura e nel modo in cui essa viene ricompensata.
Credi che la vostra galleria potrebbe esistere senza le fiere d’arte?
Siamo agili, quindi sì; ma abbiamo imparato a usare le fiere a vantaggio dei nostri artisti.
Puoi parlarmi della partecipazione di Misako & Rosen a La Maison De Rendez-Vous, il progetto di galleria condivisa con LambdaLambdaLambda e Park View / Paul Soto a Bruxelles?
Il nostro obiettivo è quello di sostenere strategie alternative e questa è sicuramente un’opportunità che va in questa direzione; ciò detto, non ci mettiamo pressione. Dopotutto siamo solo tre colleghi che la pensano allo stesso modo. Stiamo cercando di capire fino a che punto possiamo spingere un modello di collaborazione reciproca.
Siete coinvolti nella June Art Fair?
La nostra galleria aderisce sia come partecipante che come consulente non ufficiale. Proviamo un enorme rispetto per i co-fondatori di June, Christian Andersen ed Esperanza Rosales, che hanno avuto il coraggio di andare contro il sistema di Basilea, a favore dell’innovazione.
Puoi parlarmi dei collezionisti in Giappone e della differenza con quelli con cui lavori altrove?
Il collezionismo d’arte in Giappone non ha a che fare con la speculazione, ma solo con l’amore per l’arte. Forse alcuni collezionisti sono meno consapevoli del contesto storico globale da cui si è sviluppata l’arte, ma non mancano di curiosità ed entusiasmo.
November 30, 2022