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Un tormentato Lorenzo De Ferrari e il suicidio di un politico ateniese

Piero Boccardo (da Nuovi Studi 26, 2021 anno XXVI)

Dopo secoli di equivoci, un dipinto al Palazzo Reale di Torino è finalmente riconosciuto come un’opera maggiore di Lorenzo De Ferrari

Sulla parete a settentrione della Sala degli Staffieri del Palazzo Reale di Torino, quella cioè adiacente alla Sala da Ballo, a far da pendant alla sovrapporta raffigurante Clelia ricondotta davanti a Porsenna dipinta da Placido Costanzi nel 1749, è una tela di una decina d’anni più antica della quale soggetto e autografia sono stati a più riprese e fino ad oggi equivocati. Per quanto sia in quella anticamera o, più probabilmente, in quella retrostante e poi soppressa dei Valets à pied del re, fin dall’origine, dato che il nome del suo effettivo autore (Lorenzo De Ferrari) è menzionato – come “Ab[a]te de Ferrari” – nel novero degli artefici delle sovrapporte di quegli ambienti nell’inventario della reggia steso nel 1754, alla successiva sfortuna di quel dipinto ha certamente contribuito sia il fatto di non essere citato nel Catalogues Des Tableaux del 1777 – dove per altro l’estensore, Pietro Paolo Wehrlin, conclude l’elencazione con la specificazione che “On retrouvrera dans les susdits Appartements, Galleries et plusieurs autres Tableaux dont l’énumérations seroit trop grande” – sia la rara iconografia che, come si illustrerà, è tratta dalla storia greca, ma venne presto dimenticata visto che a distanza di meno di un secolo risulta equivocata nei termini di “Amilcare che beve il Sangue della Vittima in conferma del Giuramento contro i Romani [di autore] Incognito”. 

Lorenzo De Ferrari
Lorenzo De Ferrari, “Il suicidio di Temistocle”, Palazzo Reale di Torino.

Taciuta pure nella Descrizione del Reale Palazzo di Torino pubblicata da Clemente Rovere nel 1858, la tela è menzionata come “Sacrificio pagano” nel catalogo della memorabile Mostra del Barocco Piemontese del 1963, dove Andreina Griseri – studiosa che pure già si era distinta in studi sulla pittura genovese – per via della vena classicista che permea la composizione fraintese l’ambito culturale di provenienza e l’ascrisse alla scuola bolognese. Una quindicina d’anni più tardi Renato Roli propose di individuarne l’autore nel savoiardo Francesco Josserme detto L’Ange (1675-1756) credibilmente perché costui, dopo aver lavorato nella capitale sabauda agli inizi del XVIII secolo, aveva continuato la sua attività a Bologna, ma tale attribuzione è stata prima recepita con cautela da Cristina Mossetti, che ha rimarcato come il dipinto di Palazzo Reale risulti superiore alle due tele dipinte dall’artista per la cappella dedicata a santa Genoveffa nella chiesa pur torinese di San Francesco da Paola, e più di recente rigettata da Stefania De Blasi che nel suo monografico contributo sul pittore la stigmatizza come “poco convincente e priva di appigli documentari”, tanto da non includere il “Sacrificio pagano” nel regesto finale delle opere solo attribuite, e nemmeno in quello delle incerte. 

Il suo autore non è infatti il savoiardo Josserme ma il poco più giovane e meno longevo pittore genovese Lorenzo De Ferrari (1680-1744), il dotato figlio del più grande Gregorio, che nel Settecento come riporta lo storiografo Carlo Giuseppe Ratti in conclusione della biografia che gli dedicò nell’ambito delle sue Vite, “comunemente appellavasi l’Abate De’ Ferrari, e solo sotto tal nome e titolo era fra noi conosciuto”, e dunque deve risultare del tutto normale che negli stessi termini sia menzionato, come si è detto, anche nell’inventario torinese del 1754.

Ma il riconoscimento della mano dell’ultimo grande interprete del barocco della Superba non discende dal documento settecentesco, ma proprio dalle qualità formali e stilistiche della tela che, insieme all’Alessandro e il nodo di Gordio di recente pubblicato e che costituisce un ottimo termine di confronto, rappresenta un’importante acquisizione al catalogo dell’artista. I due dipinti infatti non solo accrescono il ristretto novero dei quadri da stanza del più giovane De Ferrari, ma soprattutto documentano in maniera più che eloquente che il soggiorno a Roma nel 1734 aveva determinato, almeno in questo tipo di produzione del pittore, una netta virata in direzione classicista rispetto alla lezione del padre Gregorio, protagonista ante litteram del Rococo. 

Del viaggio nella Città Eterna riferisce sempre Ratti, specificando che colà Lorenzo era entrato in contatto sia con due tra i principali esponenti della tradizione marattesca, Sebastiano Conca e Agostino Masucci, sia con Marco Benefial che si rifaceva piuttosto ai bolognesi di primo Seicento, ma la critica moderna, che da un lato non conosceva quelle due sue opere e dall’altro era influenzata dagli esiti complessivi degli interventi più tardi del De Ferrari – di cui il più eclatante è la celebre “Galleria Dorata” del palazzo Carrega (1742-44) – non aveva colto appieno quanto l’artista avesse effettivamente assimilato sulle sponde del Tevere. 

Lorenzo De Ferrari
Lorenzo De Ferrari, “Alessandro taglia il nodo di Gordio”, Genoa, Musei di Strada Nuova – Palazzo Bianco.

In realtà in tutti i dipinti risalenti all’ultimo decennio della sua attività, ovvero posteriori all’esperienza nella Città Eterna, si colgono in maniera più o meno marcata gli effetti delle suggestioni romane: se già i protagonisti maschili dell’Enea sbarca sulle sponde del Lazio documentato nel palazzo Saluzzo Granello, della Giustizia di Tito Manlio Torquato e della Fortezza di Muzio Scevola di Palazzo Rosso, del tondo con Enea e Didone e delle due grandi lunette della “Galleria Dorata”, certo anche per effetto dei loro paludamenti da armati all’antica, sono in stretto rapporto con quelli delle due opere sopra citate, nella tela di Torino il punto di vista ravvicinato, il più limitato numero di figure, la minor concitazione nei gesti e alcune citazioni dall’antico – su tutte la testa di Vitellio in secondo piano, raffigurata per altro anche nell’Alessandro e il nodo di Gordio – o abili ricreazioni – il dettaglio del taurobolium – ottengono un esito che sembra attingere anche a un più aulico e retorico modello classicista, quello di Charles Le Brun, che al servizio del Re Sole aveva saputo coniugare al meglio temi storici, sontuosità cromatica ed eleganza compositiva. 

Poiché non risulta che Lorenzo De Ferrari abbia mai varcato le Alpi, è da credere che la conoscenza dell’opera del grande artista francese sia avvenuta per il tramite di stampe (e forse anche di qualche arazzo?) e d’altronde sempre quel genere di carte devono aver favorito il suo aggiornamento in materia di lessico dell’ornato. Se, per altro, è noto almeno un caso in cui Lorenzo prese a modello incisioni – addirittura da Mantegna – per un suo affresco, in questo contesto è significativo ricordare che già il marchese Niccolò Maria Pallavicini aveva invitato Domenico Piola a trarre ispirazione per l’Alessandro e la famiglia di Dario che gli richiedeva, dalle “carte intagliate che suppongo che averà viste” tratte dalle storie del condottiero macedone che proprio Le Brun aveva realizzato per Luigi XIV, incisioni che per altro il gentiluomo genovese ma romano d’adozione in quelle stesse righe dichiarava di reputare più belle rispetto ai dipinti. 

D’altronde proprio a quelle stesse fonti iconografiche attinse Francesco Trevisani, altra credibile conoscenza romana del De Ferrari, quando tra il 1735 e ’36 avviò un altro Alessandro e la famiglia di Dario pertinente il ciclo eseguito a più mani per la Sala delle Virtù del re a La Granja de San Idelfonso, in Spagna. 

Questa circostanza induce a ipotizzare che anche in questo caso l’input a guardare Le Brun sia venuto al pittore genovese dalla committenza, dato che pur sempre a un ambito aulico quale una reggia era destinato il suo dipinto. È comunque certo che la commissione del fino ad oggi presunto “Sacrificio pagano” sia venuta direttamente dalla corte di Torino, giacché lo attesta sempre Ratti in un brano della biografia del De Ferrari rimasto fino ad oggi senza concreto riscontro: tra i quadri fatti per “signori forestieri” cita infatti quello “che bellissimo riuscì […] di Temistocle, effigiato in atto di bere il sangue del toro […che] lo ebbe il Conte Grossocavallo Guardaroba del Re di Sardegna”. 

E la preziosa testimonianza dello storiografo – assai attendibile giacché aveva conosciuto di persona l’artista – non fornisce quindi solo il nome di chi scelse l’artista per conto del re Carlo Emanuele III di Savoia ma scioglie anche la questione del soggetto della tela che, come dimostrano diversi dettagli – il serpentello che pare fungere da manico della coppa che il protagonista porta alla bocca, chiaramente allusivo al venefico contenuto di quella, e le espressioni allarmate di alcuni degli astanti – non può illustrare il sacrificio del condottiero cartaginese Amilcare in procinto di partire per la Spagna, così come lo registrava l’inventario del 1822, né un generico “Sacrificio pagano” come in tempi moderni è stato un po’ sbrigativamente designato, bensì appunto Il suicidio di Temistocle. 

Lorenzo De Ferrari
Lorenzo De Ferrari, “La fortezza di Muzio Scevola.” Genoa, Musei di Strada Nuova – Palazzo Rosso.

A dirla tutta, il dipinto citato da Ratti figura già nel catalogo delle opere di Lorenzo De Ferrari messo insieme da Ezia Gavazza, ma solo perché fu scambiato – terzo equivoco per questo sfortunato dipinto – per il citato Alessandro e il nodo di Gordio, allora nei depositi di Palazzo Bianco a Genova, ma in condizioni di così scarsa leggibilità non solo da ingannare la studiosa, ma anche da indurla a non esprimere alcun giudizio sull’opera. 

Per ciò che riguarda la rarissima iconografia, merita ricordare che Tucidide riferendo della fine di Temistocle – l’uomo politico ateniese, vissuto a cavallo tra il VI e il V secolo a.C., celebre per aver sbaragliato la flotta di Serse a Salamina, ma che poi dovette lasciare la patria, finendo ospite di Artaserse, figlio del suo antico nemico, in quanto vittima dell’ingrato ostracismo dei suoi concittadini – riporta in prima istanza che morì di malattia, ma riferisce altresì, a stregua di diceria, che in conseguenza della richiesta di guidare l’esercito persiano contro la Grecia, si fosse suicidato col veleno. 

Questa voce col tempo sopravanzò e finì accreditata da Diodoro Siculo che fornì anche una nobile spiegazione a quel gesto estremo: in precedenza l’ateniese avrebbe impegnato Artaserse a non muovere guerra senza di lui, sicché dandosi la morte avrebbe evitato una nuova campagna dei Persiani contro la sua patria. È per altro proprio Diodoro a raccontare in che modo attuò il suo proposito: dichiarando di voler ottenere il favore degli dei, Temistocle fece predisporre il sacrificio di un toro, immolato il quale, ne raccolse il sangue – che nell’antichità era ritenuto un potente veleno – e lo trangugiò, spirando subito dopo in presenza degli astanti. 

La vicenda è ricordata anche da Cicerone, per rimarcare come questa versione abbia sensibilmente giovato all’immagine valorosa di Temistocle rispetto alla “banalità” di una morte per malattia. Per quanto poi Cornelio Nepote e soprattutto Plutarco abbiano adombrato la possibilità che la scelta di togliersi la vita fosse derivata dalla consapevolezza di non poter facilmente battere l’ardimento dei suoi compatrioti, Valerio Massimo, invece, inserì il suicidio di Temistocle tra i più fulgidi esempi stranieri dell’amor di patria, perseguito in quell’occasione “ante ipsam aram quasi quaedam pietatis clara victima concidit”.

 È quindi certamente dalla consultazione dei Fatti e detti memorabili che venne estrapolato l’episodio funzionale alla celebrazione di Carlo Emanuele III e della sua dinastia, proprio in quanto modello di virtù civile eroicamente praticata fino al sacrificio di se stessi, e la scelta di un personaggio poco frequentato come Temistocle in realtà non stupisce più di tanto se si tien conto dei protagonisti delle storie richieste agli artisti via via coinvolti nei programmi decorativi portati avanti a Torino in quei decenni prima da Filippo Juvarra e poi proprio dal conte, nonché architetto, Carlo Emanuele Cavalleri di Groscavallo. 

Quest’ultimo, esattamente come riporta Ratti, fu per l’appunto governatore dei reali palazzi sabaudi e, con questo ruolo, si occupò dell’arredo delle dimore del re fino al punto di commissionare quadri, mobili e suppellettili, e a questo riguardo merita riportare anche qui quanto scrive Jean-Claude Richard de Saint-Non, l’Abbé de Saint-Non, nel suo Voyage pittoresque facendo riferimento alle collezioni sabaude: “Ils sont bien conservés et arrangés avec autant de goût et d’ordre qu’ils pourroient l’être dans le cabinet d’un curieux et d’un amateur. C’est M. le Comte de Grosseçavalle, Governeur du château, à qui l’on a l’obligation de l’ordre dans lequel cette collection immense est tenüe”. 

La nomina regia del gentiluomo torinese risale al 3 agosto 1737 – e il Cavalleri mantenne l’incarico addirittura per tutta la prima decade del regno di Vittorio Amedeo III, ovvero fino al 1783 – sicché quella data viene a costituire, in base a quanto riporta Ratti, il termine post quem per l’esecuzione del Suicidio di Temistocle. In effetti il dipinto trova nel citato ciclo di Palazzo Rosso, databile intorno al 1740, i confronti stilistici più efficaci e convincenti per cui, in attesa di poter consultare i libri di conti della corte sabauda al fine di verificare l’esistenza di uno specifico pagamento, risulta credibile che sia stato recapitato a Torino intorno al 1739-1740. 

Lorenzo De Ferrari
Lorenzo De Ferrari, “La giustizia di Tito Manlio Torquato”, Genoa, Musei di Strada Nuova – Palazzo Rosso.

Anche se la commissione rientra pienamente nel novero delle scelte artistiche del nuovo governatore, queste ultime si mantennero in linea con quelle condotte in precedenza da Juvarra per le diverse residenze sabaude. Tuttavia, rispetto agli ambiti culturali di provenienza dei pittori selezionati fino a tutto il 1734 dall’architetto messinese e dal 1737 dallo stesso Cavalleri – Napoli, Roma, Bologna e Venezia – il coinvolgimento di Lorenzo De Ferrari, in quanto genovese, viene a costituire una sorta di eccezione, ancorché in un più remoto passato non erano mancati incarichi torinesi per artisti della Superba, quale, tra gli altri, proprio il padre di Lorenzo, Gregorio. 

Un’eccezione che, però, per via della prossimità della data e della ricorrenza del nome di alcuni protagonisti sembra in un certo modo rispondere ai criteri di scelta applicati ancora da Juvarra ma non più a Torino, bensì per la già citata Sala delle Virtù del re a La Granja, ovvero quando ormai era al servizio di Filippo V di Spagna. Come è noto agli inizi di settembre del 1735 l’architetto scrisse da Madrid al napoletano Francesco Solimena, ai “romani” Francesco Trevisani, Sebastiano Conca e Agostino Masucci, al veneziano Giovanni Battista Pittoni, al bolognese Donato Creti e al genovese Domenico Parodi nell’intento di coinvolgerli, ciascuno con un dipinto, a un ciclo di Storie di Alessandro Magno destinato a celebrare per l’appunto le virtù morali del suo nuovo committente. 

Se da un lato il coinvolgimento di Parodi – che poi, per i tempi e il compenso richiesti dall’artista, non andò a buon fine – si spiega facilmente con i rapporti che già intercorrevano tra Juvarra e il genovese, un’espressione dell’architetto nella corrispondenza con Solimena – “tutte le scole d’Italia” – formulata in termini analoghi anche dal Parodi in una sua risposta – “maniere italiane” – ha fatto intendere che ci sia stato un disegno ben definito volto a veder rappresentati in quell’occasione tutti i migliori talenti della Penisola secondo un’esplicita logica regionale, e che tale canone sia stato pienamente applicato anche a Torino nel momento in cui il conte Groscavallo si è rivolto per l’appunto al De Ferrari. 

Di fatto può essere che ci sia stato anche un pensiero del genere ma, come ha ben argomentato José Álvarez Lopera nel caso del ciclo de La Granja, non solo non si rintracciano documenti ufficiali di corte che attestino l’adozione di un tale criterio, ma per di più diversi fattori, sembrano del tutto smentirlo, sicché “tutte le scole d’Italia” sarebbe stato solo un espediente retorico di Juvarra funzionale a stimolare l’emulazione tra gli artisti che intendeva coinvolgere. 

A questo punto, considerando il fatto che allora poteva esser ben risaputo che Lorenzo De Ferrari aveva – parafrasando la celebre immagine di Alessandro Manzoni – risciacquato i panni in Tevere, è piuttosto da credere che il suo incarico torinese sia stata una conseguenza del fatto che in quei termini i suoi modi pittorici erano ormai del tutto coerenti a quell’”internazionale accademica” – come con efficace immagine l’ha definita Andreina Griseri – in cui più o meno consapevolmente già militavano gli altri artisti coinvolti da Juvarra e Cavalleri di Groscavallo.


Ringrazio in primo luogo Enrica Pagella, che in qualità di direttore dei Musei Reali di Torino ha accolto con entusiasmo la mia proposta di studiare il dipinto oggetto di questo contributo; a seguire Gelsomina Spione che durante le ricerche mi ha assistito con competenza, amicizia e pazienza; e infine Alessandro Avanzino, Miriam Failla, Carmen García-Frias, Angelo Mazza e Tomaso Ricardi di Netro, che mi hanno facilitato, in tempi di pandemia, testi altrimenti inaccessibili.

April 18, 2023