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CONCEPTUAL FINE ARTS

Vendite mancate e “stravagante maniera”: due tele di Paolo Pagani

Paola Apreda & Odette D’Albo
(da Nuovi Studi 26, 2021 anno XXVI)

Lo “stravagante” Paolo Pagani avrebbe senz’altro gradito il destino di sue due tele, oggi distanti dal loro contesto geografico e tematico

Dal 1962, quindi da quasi sessant’anni, due notevoli tele di Paolo Pagani (Castello Valsolda 1655- Milano 1716) sono silenziosamente custodite nell’episcopio di Ferentino, non lontano da Frosinone, in attesa di essere riportate all’attenzione degli studi. La loro riscoperta si deve all’attività di tutela della Soprintendenza del Lazio e in particolare a Lorenzo Riccardi, il funzionario competente per l’area a sud-est di Roma chiamata, dall’Ottocento, Ciociaria, che ha promosso e seguito il recente restauro dei dipinti favorendo le ricerche qui proposte.

Paolo Pagani
Paolo Pagani, “Sacrificio di Muzio Scevola”. Ferentino, Museo Diocesano.

I dipinti di Pagani dalla collezione Parignani Gizzi al Museo Diocesano

Il Museo Diocesano di Ferentino è stato istituito con decreto vescovile del 30 giugno 2011 da Monsignor Ambrogio Spreafico presso l’antico palazzo episcopale che è parte del complesso della chiesa concattedrale di Ferentino. Il palazzo oggi ospita al primo piano, in quattro sale, l’esposizione museale: i beni provengono da diversi luoghi di culto della città, da donazioni, ma principalmente dal patrimonio di suppellettile sacra e di dipinti del Capitolo della Catte- drale. L’allestimento conserva e rievoca i caratteri dell’antica residenza vescovile. Di particolare pregio è il corpus della suppellettile sacra, che annovera rilevanti nomi dell’oreficeria romana sette-ottocentesca.

I dipinti oggetto del presente contributo sono pervenuti al Museo Diocesano tramite la donazione dei propri beni alla Diocesi di Ferentino da parte del commendatore Giuseppe Parignani, possidente originario di Amelia e della moglie Luigia Gizzi, appartenente ad una antica famiglia nobiliare di Ceccano e pronipote del cardinale Tommaso Pasquale Gizzi, che fu Segretario di Stato pontificio dal 1846 al 1847.

Rimandando ad un’altra sede una indagine storica, quantitativa e qualitativa del corposo lascito dei beni mobili, è necessario offrire qui alcuni cenni che ripercorrano le vicende che hanno condotto le opere a Ferentino.

Nel suo testamento, Giuseppe Parignani stabiliva che il suo patrimonio “in beni mobili e immobili” fosse destinato all’erezione di un Ente di culto dedicato a Giovanna Parignani Gizzi (in ricordo della figlia prematuramente scomparsa). L’erezione dell’ente sarebbe spettata al vescovo di Ferentino, nella cui diocesi cadeva Ceccano, che ne avrebbe anche curato il riconoscimento presso lo Stato italiano. La vedova era nominata usufruttuaria di tutti i beni, sua vita durante.

Il Parignani muore nel 1952 e l’anno successivo, con decreto del vescovo di Ferentino Tommaso Leonetti del 13 luglio 1953, viene eretta, con sede nel Palazzo Gizzi a Ceccano, la Fondazione di Culto “Casa di riposo del Clero – Giovanna Parignani Gizzi”, che ottiene il riconosci- mento della personalità giuridica tre anni dopo.

Dei beni mobili faceva parte una corposa collezione di dipinti, piccole sculture e arredi destinati alla vendita a favore della casa del clero. La raccolta di quadri viene sottoposta alla valutazione di esperti. Secondo quanto emerge in una lettera inviata dall’allora Ministro delle Finanze Giulio Andreotti al vescovo di Ferentino, nel 1957 lo scrittore e critico d’arte Francesco Sapori esamina la collezione nel suo insieme, suggerendo una revisione dello stato conservativo e un ambiente più idoneo per una migliore presentazione. Nonostante queste indicazioni, nel 1960 la Parignani Gizzi, oramai in età avanzata, ha premura di assicurare la rendita spettante all’ente dalla vendita dei beni mobili: si decide quindi per la vendita all’asta di quadri e oggetti.

Paolo Pagani
Paolo Pagani, “La fuga di Enea da Troia”. Ferentino, Museo Diocesano.

Il 25 aprile 1961 i dipinti vengono consegnati alla casa di vendite all’asta “Arte” in Palazzo Lancellotti a Roma. Nell’elenco delle opere consegnate dalla vedova figurano due tele, con cornice, attribuite a Paolo Pagani: nel catalogo della vendita, svoltasi dal 21 al 27 maggio, sono elencate ma non illustrate con i numeri 242 e 243 e con i rispettivi soggetti, “Enea all’Averno” ed “Enea col padre Anchise”.

Le opere, per le quali il prezzo minimo era fissato a £ 600.000 ciascuna, restano invendute, tanto che il 15 giugno vengono restituite, insieme ad altre, alla Parignani Gizzi, che contestualmente le affida al prof. Giovanni Lanzi affinché le custodisca nella sua casa romana. Qui rimangono fino all’inizio del 1962, quando, a seguito della difficoltà palesata dal Lanzi nel continuare a tenerle con sé, Monsignor Leonetti suggerisce di portarle a Ferentino, ove risultano presenti almeno dall’estate dello stesso anno 10. L’intento era di alienarle, ma le dimensioni importanti e il prezzo si erano rivelati fattori deterrenti. La somma minima proposta nella vendita del 27 maggio, non soddisfaceva d’altronde la contessa Parignani Gizzi, che chiedeva la somma £ 1.200.000 per ciascuno dei dipinti e non per la coppia, prezzo indicato nella ricevuta di presa in carico della casa d’aste.

Nonostante la disponibilità a trattare leggermente sulla cifra e l’interessamento, oltre che di Monsignor Leonetti e del Lanzi, anche della baronessa croata Elda Kuperlwieser, nota per il suo impegno nei confronti degli esuli istriani in Italia, le tele non trovarono acquirenti. Il valore non era ulteriormente negoziabile, poiché la somma di £ 600.000 ciascuno veniva definita insufficiente rispetto al prezzo pagato dalla Parignani Gizzi al Lanzi. Quest’ultimo, d’altronde, riteneva decisamente più alto il valore dei due dipinti, “fino a tre o quattro milioni”, cifra che, sosteneva, si sarebbe potuta raggiungere se della vendita si fosse occupato Roberto Longhi, evocato a garanzia del buon esito di eventuali nuove trattative.

I documenti al momento non rispondono alla domanda se Giovanni Lanzi sia stato mediatore o diretto venditore, ma chiariscono che le opere pervennero al patrimonio della contessa Parignani Gizzi tramite acquisto. Altri dipinti della raccolta furono venduti negli anni seguenti con soddisfazione; altri, sottoposti a ulteriori valutazioni di esperti, videro ridimensionata significativamente la loro attribuzione e conseguentemente il loro prezzo. Le tele di Pagani non lasciarono mai Ferentino.

Due esempi della “stravagante maniera” di Paolo Pagani

Quando, nel novembre 2018, i due dipinti del Museo Diocesano di Ferentino sono stati segnalati a chi scrive da Lorenzo Riccardi, si erano perse le tracce della loro attribuzione a Paolo Pagani, nonostante questa fosse già indicata nella documentazione relativa alla collezione Parignani Gizzi ritrovata, parallelamente, da Paola Apreda.

I corpi muscolosi e prorompenti delle figure, la monumentalità e l’originalità delle composizioni riflettono in maniera inconfondibile la “grande invenzione” e la “stravagante maniera”, come le percepiva già nel primo Settecento Pellegrino Orlandi, dell’irrequieto pittore di Castello Valsolda. Nonostante le peculiarità del suo stile permettano oggi di sciogliere senza difficoltà il quesito attributivo a chi, con un po’ di famigliarità con le prove dell’artista, si accosti alle opere a Ferentino, non è noto chi abbia proposto per primo di assegnarle al maestro, il cui nome è ricordato già nel catalogo dell’asta romana del 1961. Una data molto precoce per gli studi su Pagani, che, in assenza di informazioni sulle circostanze che portarono le due grandi tele all’approdo nella collezione Parignani Gizzi, potrebbe far pensare ad un riferimento di tipo tradizionale.

Se ora, grazie a numerosi approfondimenti condotti negli ultimi decenni, conosciamo meglio la fisionomia dell’artista, nei primi anni sessanta del secolo scorso la letteratura sul suo conto era tutt’altro che nutrita. Spetta a Hermann Voss aver inaugurato gli studi moderni su Pagani con il pionieristico saggio del 1929, seguito qualche anno dopo, nel 1936, da un nuovo articolo in cui il tedesco puntava per la prima volta i riflettori sulla più spettacolare decorazione ad affresco del pittore, la volta della chiesa di Castello Valsolda. Sulla scia di Voss, sul fronte italiano si erano mossi, ricordando i contributi più rilevanti, Giuseppe Fiocco ed Edoardo Arslan ai quali si era aggiunto, allo scadere degli anni cinquanta, Nicola Ivanoff. Nonostante le loro significative segnalazioni, la lettura più intelligente e sensibile, in grado di cogliere con acutezza lo stile di Pagani individuandone la formazione in ambito veneziano e di percepirne, con le sue stesse parole, la “mente affollata di immagini grandiose”, la “sfrenata fantasia” e “un’audacia nel modellare il nudo che quasi parrebbe ispirata a Michelangelo stesso”, spetta senza dubbio a Voss.

Tutte le caratteristiche evocate trovano un valido riscontro visivo negli imponenti dipinti di Ferentino, che peraltro lo studioso tedesco conosceva grazie a due riproduzioni conservate nella sua fototeca. Una di esse, la Fuga di Enea da Troia, era già stata resa nota da Alessandro Morandotti, mentre la seconda, in cui il soggetto dell’opera è identificato genericamente come scena storica o mitologica, recava stranamente l’attribuzione, con quale incertezza, al fiorentino Gregorio Pagani. Si tratta delle prime immagini note delle tele, non illustrate nel catalogo d’asta del 1961. Entrambe recano sul retro il riferimento alla casa d’aste Gonnelli di Firenze e, su una delle due, Voss aveva appuntato anche la data 1965. Nessuna delle fotografie, per evidenti ragioni di discrezione, riporta l’ubicazione delle opere: è quindi verosimile supporre che gli scatti fossero stati inviati al conoscitore per accertare l’attribuzione a Pagani nell’ambito di un’ulteriore tentativo di vendita, seguito al fallimento delle precedenti trattative a Roma.

Paolo Pagani, “La fuga di Enea da Troia” (particolare). Ferentino, Museo Diocesano.

Oltre ad aggiungere un nuovo tassello alla storia materiale dei dipinti, le immagini costituiscono un prezioso documento del loro stato di conservazione alla metà degli anni sessanta, probabilmente dopo la fase di pulitura condotta durante un restauro: ben visibili risultano in entrambi alcune piccole lacune nella pellicola pittorica ma soprattutto l’aggiunta in alto di una fascia alta circa quindici centimetri, eseguita in un momento difficilmente precisabile, forse legata all’esigenza di adattare le tele al formato delle cornici all’interno delle quali sono tuttora inserite. Per quanto riguarda le condizioni delle opere in generale, l’Enea in fuga da Troia è senza dubbio il dipinto che ha maggiormente sofferto, come emerge anche nella relazione del restauro più recente. La pellicola pittorica è infatti abrasa in corrispondenza del braccio di Enea e del volto di Creusa, reintegrati a velature, per restituire uniformità cromatica all’insieme, nel corso dell’ultimo intervento.

È bene ora rivolgere lo sguardo alle due maestose tele, nate in pendant per le analoghe misure e proporzioni delle figure, nelle quali sono illustrati due vicende di storia romana. Nella prima è riconoscibile il momento iniziale della Fuga di Enea da Troia, messa in scena seguendo con particolare fedeltà il testo del poema virgiliano. L’eroe destinato a fondare Roma si staglia a sinistra ed è colto nel momento in cui lascia la città in fiamme portando vigorosamente tra le braccia il padre Anchise; alla sua destra, secondo quanto narrato da Virgilio, sta il figlio Ascanio che, spaventato, gli si stringe alle gambe, seguito dalla sposa Creusa, figlia di Priamo, destinata a perdersi di lì a poco proprio quella notte.

Più complessa da sciogliere l’iconografia del secondo dipinto, ambientato in un antro che ha fatto a lungo pensare ad un episodio ambientato negli Inferi, identificato in passato come “Enea nell’Ade”. In realtà, come mi segnala Andrea De Marchi, nell’opera è raffigurata un’altra vicenda legata alla storia dell’Urbe, narrata da Livio: il Sacrificio di Muzio Scevola. Al centro della composizione, Muzio Scevola, giovane e vigoroso patrizio romano, sta ponendo su un braciere ardente la mano destra, che lascerà bruciare per punirsi della colpa di non essere riuscito ad uccidere Porsenna, il re etrusco che aveva posto sotto assedio Roma, raffigurato in alto a sinistra, in mezzo ai suoi soldati, mentre balza in piedi, incredulo davanti all’atto di estremo coraggio che si sta compiendo davanti a suoi occhi.

Nelle tele Pagani offre un magnifico esempio della sua capacità di reinterpretare con una visione eccentrica e fantasiosa le storie e i miti del mondo classico, proponendo una lettura dei due episodi che, nonostante l’ambientazione cupa e in notturno, trasmette una straordinaria vitalità. Nella Fuga di Enea da Troia, dove l’oscurità è legata, giocoforza, allo svolgersi delle vicende narrate nel cuore della notte, Pagani costruisce le luci in maniera teatrale e artificiale, illuminando la scena dal basso a sinistra con l’intento di dare all’osservatore l’impressione che l’eroe troiano sia circondato da fiamme che, rifrangendosi sul suo volto, gli conferiscono un’aria spettrale. Del tutto deliberata e spiazzante, a meno che non si trattasse di un precisa richiesta della committenza, è invece la scelta di immaginare il Sacrificio di Muzio Scevola in uno scenario tenebroso, connotato nubi nere dalle quali emerge Porsenna come una sorta di Vulcano, nella cui fucina non sfigurerebbe certo il magnifico brano di pittura del braciere con i tizzoni incandescenti, di consistenza magmatica e quasi carnosa.

Animato da un’inesauribile vena creativa, Pagani sembra ereditare il michelangiolismo irrequieto di Pellegrino Tibaldi, originario di Puria di Valsolda, poco distante da Castello, patria del pittore. Il legame a distanza con il grande emigrante valsoldese del Cinquecento, un’affinità elettiva più che una precisa influenza sul fronte dei modelli figurativi, potrebbe essere una delle ragioni alla base del neomanierismo già evocato come chiave interpretativa dello stile del pittore, che ancora una volta dimostrerebbe le salde radici territoriali nella scelta dei modelli di riferimento. A questo proposito non sappiamo, per esempio, se Pagani abbia mai avuto occasione di vedere la più capricciosa delle creazioni del suo conterraneo, la sala di Ulisse in Palazzo Poggi a Bologna, che sarebbe senz’altro stata di suo gusto. L’occasione potrebbe essersi creata accompagnando in uno dei viaggi in Emilia il suo più importante committente e collezionista, il marchese Cesare Pagani (Milano 1635-1707) che, a partire dal 1690 gravitava su Parma e Modena per incarichi diplomatici svolti a servizio dell’elettore palatino Guglielmo di Neuburg. La figura del nobile milanese, riscoperta in tempi piuttosto recenti come uno dei più sensibili e aggiornati collezionisti della Milano tra Seicento e Settecento, è centrale per la vicenda di Paolo Pagani, che gli fu legato non solo perché il marchese fu il suo principale mecenate, ma anche perché, a seguito di una dibattuta vicenda giudiziaria, il pittore riuscì, nonostante non fossero parenti e in maniera rocambolesca e truffaldina, ad impossessarsi della sua eredità.

Ritornando ora ad esaminare le storie romane di Ferentino, è bene mettere in rilievo che le due opere rivelano una consapevolezza espressiva e una libertà inventiva tali da indurre a confrontarle con le prove licenziate da Paolo Pagani nel momento della sua “più compiuta e autonoma affermazione”, vale a dire dopo il 1696, anno che segna il definitivo rientro del pittore in Lombardia dopo un intenso periodo di attività in Mitteleuropa. Forte di una prima formazione avvenuta in Valsolda in una “famiglia artistica” di solida tradizione lombarda composta da scultori, architetti e maestranze specializzate in apparati decorativi, Pagani si sposta a Venezia nella seconda metà degli anni sessanta del Seicento, facendo suoi e rielaborando, come emerge dallo stile delle sue opere, spunti eterogenei dai maestri allora attivi in Laguna: dalla luce e la sensualità gioiosa di Pietro Liberi, alla maniera dei ‘tenebrosi’ Johann Carl Loth e Giovan Battista Langetti, dalla pittura sfrangiata ed enfatica di Johann Liss, alla sofisticata eleganza del francese Louis Dorigny. A seguito di una simile apertura di orizzonti, l’artista coglie l’occasione di inserirsi pienamente nel contesto internazionale partendo nel 1690 alla volta della Vienna allora imperiale, della Moravia e della Polonia, dove lavora sotto l’egida di Carl Liechtenstein Castelcorno, principe vescovo di Olomouc, decorando ad affresco la sua residenza di Kroměřìž, l’abbazia di Velehrad e inviando altre opere sul territorio.

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Paolo Pagani, “Studio di testa maschile di profilo”, Olomouc, Biblioteca Statale delle Scienze.

Attestato di nuovo a Castello Valsolda nel marzo 1696, Pagani dà inizio alla più spericolata delle sue creazioni, gli affreschi della volta della chiesa del borgo, intitolata a San Martino, che decora a sue spese entro la fine dell’anno seguente. Proprio tra corpi imponenti e grandiosi dei santi raffigurati sulla volta candida della parrocchiale e in alcune altre opere licenziate in anni di poco successivi, i protagonisti delle tele di Ferentino trovano i loro confronti più evidenti. La posa scattante di Porsenna che, con gli occhi quasi fuori dalle orbite per lo stupore, piomba sul giovane Muzio Scevola, richiama, in maniera più pausata, la figura del Precursore proteso verso la folla fluttuante ai suoi piedi nella Predicazione del Battista affrescata in San Martino, assimilabile anche a quella del Gesù nella Discesa al Limbo già a Villa Gallia a Como e ora presso il Museo Casa Pagani, sempre a Castello Valsolda. Le carni sode e in tensione di Muzio Scevola, di Porsenna e dei prestanti soldati accampati in cerchio attorno a loro si legano all’ampio campionario di nudi che anima i dipinti del pittore allo scadere degli anni novanta del Seicento, tra i quali la Caduta dei Giganti ad Azay-Le Ferron e la Caduta degli angeli ribelli in collezione privata.

Paolo pagani
Paolo Pagani, “Nudo maschile visto da tergo” (particolare). Bergamo, Accademia Carrara.

Rispetto alle ultime prove richiamate, dove i corpi si arrovellano in pose acrobatiche e contorte, nel Sacrificio di Muzio Scevola si avverte un’atmosfera più distesa, con la sola eccezione del soldato in primo piano, le cui spalle poderose chiudono la scena sulla destra. Alla magnifica figura in torsione è possibile legare un disegno acquerellato, conservato all’Accademia Carrara di Bergamo, notevole esempio dell’abilità di Pagani nel campo degli studi accademici di nudo, analogo nella posa e nella resa nervosa della muscolatura tesa nello sforzo di arcuare il bacino, ulteriormente accentuato, per la presenza dell’ampio manto violaceo che copre la parte inferiore del busto e le gambe, nel dipinto di Ferentino.

Se nel Sacrificio di Muzio Scevola, Paolo Pagani esibisce una stesura pittorica molto compatta e quasi lucida, volta soprattutto alla definizione delle muscolature possenti dei protagonisti, quasi dei body builders ante litteram, nella Fuga di Enea da Troia l’artista adotta un registro stilistico differente, connotato da un uso del colore più liquido e sfaldato, nel quale si coglie maggiormente il legame con la tradizione veneziana. Della difficoltà nello scalare cronologicamente le opere dell’artista immaginandole in progressione sulla base dello stile e del fatto che Pagani “dipingesse in modi differenti all’altezza delle stesse date, ritornando a meditare continuamente sulle proprie esperienze visive”, si è accorto Morandotti che, sulla base della fotografia nell’archivio di Voss, aveva già proposto per la storia tratta dall’Eneide, in maniera del tutto condivisibile, una datazione intorno al 1700. Eloquente, sotto il profilo della rapidità esecutiva, è il particolare che vede ravvicinati il volto dell’anziano Anchise, canuto e sdentato, risolto con una pittura abbozzata, quasi a macchie, e quello di Enea, tracciato con materici rialzi biancastri, che simulano il rifrangersi della luce delle fiamme da cui sta sfuggendo. Un accostamento simile, per l’analoga ambientazione in notturno, la delicatezza della stesura pittorica e l’intenso dialogo tra una figura anziana e una giovane, compare, connotato però da una certa malizia, nella Carità romana in collezione privata, attestata nel 1706 nella collezione del marchese Cesare Pagani, ma eseguita verosimilmente qualche tempo prima.

Paolo Pagani, “Sacrificio di Muzio Scevola” (particolare). Ferentino, Museo Diocesano.

Quest’ultimo dipinto si confronta in maniera efficace con la Fuga di Enea da Troia anche per la descrizione minuziosa dei gioielli femminili: il bel bracciale con pendagli e pietre preziose sul braccio di Pero, intenta a nutrire con il suo latte il padre Cimone in carcere, ritorna molto simile nella figura di Creusa, adornata più riccamente, come si confà ad una principessa, di perle nell’acconciatura, negli abiti, nella preziosa fibbia sulla gamba sinistra e nei sandali infradito. Nello sfoggio dei raffinati ornamenti, la figlia di Priamo sarà battuta, come preavvisa il soggetto stesso dell’opera, nella poco più tarda Allegoria della Vanità datata 1704, dove tre monumentali Grazie mettono in mostra in piena luce, dinanzi al Tempo, oltre ai gioielli, corpi opulenti e rubensiani. All’immagine potente delle figure adulte raffigurate nella Fuga di Enea, si contrappone il piccolo Ascanio, un po’ rattrappito all’interno del manto nero da cui spuntano le sottili gambette, mosse quasi a passo di danza. Il suo volto, caratterizzato dagli occhi infossati, dal naso dritto e un po’ all’insù e dai capelli neri arruffati e scomposti, sembra trovare un eloquente riscontro visivo, in controparte, nel profilo del giovane uomo raffigurato in un disegno conservato a Olomouc, databile tra 1691 e il 1695, che ricompare anche in una versione più schiarita, sotto le spoglie di un angelo nel San Giuseppe in adorazione del Bambino in collezione privata, dei primi anni del Settecento.

Considerando che i dipinti di Ferentino, alla luce dei confronti evocati, risalgono con ogni verosimiglianza agli ultimi anni del Seicento o poco oltre, è possibile formulare, anche sulla base dei soggetti raffigurati, alcune proposte per la loro provenienza antica. Sebbene l’artista abbia realizzato almeno altre due versioni della Fuga di Enea da Troia, entrambe attualmente in collezioni private, le fonti attestano un solo dipinto con il Sacrificio di Muzio Scevola, perduto, ricordato nel 1707 nella raccolta del marchese Cesare Pagani, già menzionato come il maggiore mecenate del pittore. Come emerge dall’inventario della collezione, l’opera faceva parte, insieme ad un pendant raffigurante la Fuga di Enea da Troia sempre del pittore di Castello Valsolda, di un ciclo di tele esposto nella “sala grande” del palazzo del marchese, da lui commissionato negli ultimi anni del Seicento, a cui appartenevano anche l’Ercole e Nesso di Sebastiano Ricci e il Diana ed Endimione di Domenico Piola, oggi in raccolte private, entrambi pubblicati per la prima volta da Morandotti, che ha ricostruito queste vicende. Spetta ancora una volta allo studioso e a Cristina Geddo, la proposta di riconoscere la Fuga di Enea da Troia di Pagani già del marchese in uno splendido dipinto transitato sul mercato antiquario londinese, analogo, nelle dimensioni, alle tele menzionate. La comparsa dei pendant di Ferentino sembra però riaprire il caso, considerata l’analogia con i soggetti delle opere attestate nella collezione Pagani e anche il fatto che le loro dimensioni, senza le aggiunte in alto ben visibili nelle immagini in fototeca Voss, sono compatibili con quelle dei dipinti di Ricci e Piola. Non è possibile stabilire, però, se Pagani abbia realizzato altre versioni del Sacrificio di Muzio Scevola o dei due soggetti in coppia per altri committenti oltre al nobile milanese, quindi la questione dovrà restare al momento in sospeso.

Al di là di queste ipotesi che potranno essere meglio precisate solo nel tempo, è comunque un fatto insolito che i capolavori indiscussi del Museo Diocesano di Ferentino siano due tele fuori contesto sia dal punto di vista geografico, perché completamente slegate dal range di azione del pittore di Castello Valsolda, sia sotto il profilo tematico, perché si tratta di due opere profane all’interno di un’istituzione ecclesiastica. Un contrasto suggestivo e curioso, che lo “stravagante” Paolo Pagani avrebbe senz’altro gradito.

February 28, 2023