Daniel Graham Loxton, tra Aelbert Cuyp e Franz Hals (al Met)
At the show with the artist: Daniel Graham Loxton visita i fiamminghi al Met e incontra Aelbert Cuyp, dopo averlo copiato da studente
Il venerdì sera, tra i divini piaceri del vivere a New York c’è senz’altro quello di visitare il Metropolitan Museum of Art. Al calar del sole, come se a un certo punto suonasse una sveglia, i turisti si avviano verso cene e aperitivi, o altrove, e lo stesso fanno tutti quelli che hanno la fortuna di poter fuggire dalla città per il fine settimana. Quelli che invece rimangono oltre il consueto orario di apertura si dividono in due categorie: gli uni, vestiti di tutto punto, sorseggiano champagne nella lounge che si affaccia sulla Great Hall e raramente si allontanano dai dai loro bicchieri (è infatti vietato bere nelle gallerie). Gli altri, sopratutto artisti e appassionati, sfruttano il privilegio di vedere le loro opere preferite nelle gallerie con molto spazio per riflettere e tempo per fare schizzi, senza che nessuno ostacoli la loro vista. Il venerdì sera è spesso possibile passeggiare per intere ali del museo in relativa solitudine, con il suono della musica da camera proveniente dalla sala della balconata che si attenua man mano che ci si incammina. Con l’incarico di registrare le mie impressioni un riallestimento dei maestri olandesi del XVII secolo, faccio un passeggiata serale, passando accanto ad alcune delle mie opere preferite, rivisitando un avvincente paesaggio di Aelbert Cuyp, e finendo nella rotonda Robert Lehman, dove nel corso degli anni sono state allestite le mostre più importanti per un giovane pittore come me sono state più importanti.
Arrivo da Central Park proprio quando il museo inizia a chiudere, verso le cinque meno un quarto. Dal lato nord della scalinata osservo per un attimo la folla allontanarsi sulla 5th Avenue, mentre il tipico sassofonista suona per le mance dei passanti e una coppia di adolescenti si bacia ai tavolini del bar vicino alle fontane. È settembre e il sole del tardo pomeriggio si spende ancora in un paio di lunghi triangoli accesi sull’ala meridionale dell’edificio. Mi fermo a fotografare la facciata, con questa luce dorata, il cielo azzurro oltre di essa, gli alberi verdi di Central Park, e i venditori di poster in azione sotto di questi. C’è abbastanza luce, se mi affretto, per visitare le gallerie di pittura europea al secondo piano. Evitando la folla che si sta riversando in massa sul marciapiedi, mi infilo nell’ingresso della didattica, al piano terra, appena a sud della scalinata principale. Un mio vecchio professore di pittura, che un tempo lavorava come guardia al Met, mi disse due cose. La prima, non pagare mai più di un centesimo per visitarlo (è una donazione suggerita per i residenti, e la dotazione del museo è immensa); la seconda: prendere sempre l’ingresso della didattica. Non viene detto apertamente, ma questo ingresso e accessibile a tutti. Una volta dentro, prendo il mio biglietto e salgo le scale sul retro, attraverso la sala delle statue greche e romane, superando un gruppo di visitatrici con i tacchi alti, e salgo rapidamente lo scalone d’onore per entrare nelle gallerie dedicate alla pittura europea.
Perdendo rapidamente la luce, ed essendo ancora troppo vicino alla Great Hall per avere le gallerie tutte per me, traccio il mio percorso in base alle opere che intendo vedere. In primo luogo L’isola dei morti, 1880, del pittore svizzero Arnold Böcklin. Il blu dello sfondo, il boschetto centrale di cipressi neri come la pece, e l’impossibile angolo della luce mi stordiscono ogni volta. Già sazio, passo oltre. Visito il nudo di Gustave Courbet, La fonte, 1862, un dipinto che si dice sia una risposta sorniona a un dipinto di Ingres che mostra frontalmente una fanciulla nuda che versa acqua da una brocca (è stato esposto l’anno scorso). L’opera è molto meno salace dell’Origine del mondo, ma è comunque sexy. Mentre mi dirigo verso l’ala contemporanea le gallerie si fanno più scure. All’uscita mi fermo davanti a Lo zio dell’artista come monaco, 1866, di Paul Cézanne. Sembra che sia stato dipinto con una cazzuola da giardino. La vernice è così spessa che ricorda i gusci delle ostriche attaccati alla superficie. Nell’ala contemporanea c’è un altro dipinto che non mi lascio mai sfuggire quando passo di qui e, in questa occasione, il titolo mi sembra stranamente preveggente: Interno olandese, 1962, di Cy Twombly. Fa parte di un gruppo di opere dipinte a Roma, subito dopo l’intenso ciclo di dipinti ferragostani. La sincronicità del titolo e la visita a questo quadro nel mese di settembre, con la luce che si affievolisce, mi confortano. Infine, varcando la porta medievale del piano nobile e attraversando di corsa la finta cattedrale cattolica piena di pale e reliquiari d’oro, arrivo all’ala Robert Lehman, dove è allestita la mostra che sono venuto a visitare.
Elogio della Pittura: Capolavori olandesi al Met, inaugurata nell’ottobre 2018 e chiusa nel settembre 2023. Il comunicato del museo descrive il nuovo allestimento, che riunisce opere provenienti da diverse gallerie del museo. Si dice: “I dipinti olandesi del XVII secolo — l’età dell’oro di Rembrandt, Hals e Vermeer — sono stati un punto di forza della collezione del Met sin dal loro acquisto da parte del museo, avvenuto nel 1871. La mostra riunisce alcuni dei più grandi dipinti del Museo per presentare sotto una nuova luce uno straordinario capitolo della storia dell’arte”. È interessante notare che nell’ala Robert Lehman, dove la mostra si trova, è ancora visibile la facciata dell’originale edificio gotico vittoriano del 1870, all’interno dell’imponente rotonda di vetro e cemento. In questo spazio oggi anacronistico, moderni pilastri di cemento si affiancano ad archi secolari di pietra rossa e blocchi di granito grigio, che formano la parete orientale. Una rampa di scale più in basso, al piano inferiore, questi 67 capolavori sono incastonati in corridoi moquettati e stanze trapezoidali che ricordano quella che potrebbe essere stata la casa di una ricca famiglia americana alla fine degli anni Sessanta o Settanta. Si tratta di una singolare miscela di architettura antica e arte ancora più antica. Entrando in questo spazio centrale e incassato si ha la sensazione di stare in un bunker sotterraneo — è un aspetto interessante di questa mostra, che rappresenta soprattutto lauti bottini, nature morte ornate di frutta sessualizzata, fiori, curiosità assortite, ritratti dal chiaroscuro intenso, e paesaggi allegorici. Considerando l’argomento, in alcuni casi questi dipinti privati esposti in ambienti privati sono collocati in modo appropriato; ma nel caso dei paesaggi la totale mancanza di luce solare può addirittura risultare opprimente.
Durante i suoi cinque anni di apertura ho avuto il privilegio di conoscere questo gruppo di capolavori olandesi lentamente, visitando la mostra in diverse occasioni. Questo mi ha permesso di digerire la smisurata grandezza di alcuni dei dipinti più famosi di Vermeer e Rembrandt. In particolare, la Giovane donna con brocca di Vermeer e l’Autoritratto di Rembrandt del 1660, che insieme hanno portato al museo un successo mondiale al momento della loro acquisizione, rispettivamente nel 1889 e nel 1913. Così come la stessa New York è stata costruita su un’eredità coloniale olandese, anche la collezione del Met poggia su una base di pittura olandese. Dei 36 dipinti attribuiti a Vermeer, il Met ne possiede cinque. La collezione comprende anche 20 capolavori di Rembrandt, tra cui l’Autoritratto del 1660 e il suo ritratto del pittore sifilitico Gerard de Lairesse. Poi, girando un angolo di queste gallerie sotterranee, rimango sbalordito nel vedere un’opera di Aelbert Cuyp. Si intitola Giovane mandriano con mucche. È un dipinto che ho studiato a fondo molti anni prima, quando frequentavo la scuola d’arte e mi era stato dato il compito di scegliere nella collezione del Met un capolavoro da copiare.
Il Giovane mandriano con le mucche non è certo l’opera più appariscente in mostra. Il titolo andrebbe probabilmente al dipinto di Frans Hals del 1616, I festini di San Silvestro, una tela affollata e frenetica, piena di festaioli del Martedì Grasso dal viso rubicondo e inebetito che circondano una giovane fanciulla (probabilmente è un ragazzo travestito) che indossa un colletto di pizzo abbagliante in spergio della forza di gravità. Sul tavolo si trova una selezione di oggetti da natura morta: salsicce spesse, uova e ostriche, tutte piene di allusioni sessuali. In netto contrasto, l’atmosfera generale del Giovane mandriano con mucche di Cuyp è riduttiva, sommessa e languida. Figura minore, anche tra i paesaggisti olandesi presenti in questa mostra, l’artista era considerato un discepolo, o un abile copista, di Jan van Goyen, la cui tavolozza color ocra e ambra Cuyp ammira per tutta la sua relativamente breve carriera.
Forse all’inizio si trattava di una scelta arbitraria; ma le mucche, gli arbusti, le colline lontane e le nuvole in controluce di Cuyp sono state alcune delle prime cose che ho reso con i colori a olio. Le nuvole grigie e tinte di lilla con il giallo di Napoli che si spande da dietro… Ho reso le mucche con un nero cromatico, con una gradazione di bianco freddo e con lumeggiature a forma di mezzaluna sulle spalle e su quarti posteriori caldi e corporei. Guardando ora i dipinti di paesaggio di Cuyp vedo in questi animali un’atmosfera di serena benevolenza, quasi tragica. Le figure umane sono secondarie; un piccolo dramma si svolge nelle loro interazioni, ma sono in gran parte oscurate dalla morbida collina coperta di cavoli selvatici e dalle cosce di una scrofa. Si dice che Cuyp facesse schizzi in natura, ma i dipinti sono quasi sempre creazioni di studio, che incorporano alcuni degli stessi schizzi (le mucche, i mulini a vento, i cavoli) da un quadro all’altro. L’accurata composizione della tela, i rapporti tra il terreno, le figure che si ripetono e la luce, mi fanno pensare alle bottiglie e ai vasi di Morandi, oltre che ai paesaggi luminosi di Pissarro; ordinarietà in tutto il suo splendore.
Si tratta di un’opera sottilmente misteriosa, che mi ha attratto a livello granulare anni fa, e che solo ora si sta mettendo a fuoco nella sua interezza. Commosso dal rivederla, decido di abbozzare il dipinto in una serie di miniature, elaborando la composizione su carta. Mentre mi perdo nel mio taccuino sono toccato sulla spalla da una donna anziana che porta due borse legate al fianco. Da una di esse spunta un giornale cinese locale. Mi guarda e fa un gesto verso la panchina dove seduto io e dove potrebbe sedersi anche lei. Mi sposto e sorrido. Condivido la parte di panchina più vicina al quadro e per circa un minuto lo guardiamo in silenzio mentre disegno. Quando riprende a parlare quasi non me ne accorgo: “Saprebbe dirmi se in questo quadro è mattina o sera?”. Ha ragione. Non sono sicuro. Piego la testa di lato alzando le mani e le spalle come per dire: “Non so”. Lei mi sorrise. Si alza e guarda il quadro da vicino, prima di incamminarsi per la sua strada.
È il caldo sole del tardo pomeriggio che offusca le colline sulla sinistra e crea una certa atmosfera densa e luminosa? Oppure il sole è appena sorto, rompendo la nebbia del mattino e inviando verso le mucche, attraverso le nuvole, flussi di luce solare tagliente in lance blu, bianche e oro? Credo che sia difficile stabilire l’ora esatta del giorno che questo dipinto raffigura perché Cuyp ha preso in prestito la luce dorata dell’Europa meridionale, ispirata alla pittura italiana, e l’ha trasposta in un paesaggio del Nord. Il risultato è che sembra sia l’alba che il tramonto, allo stesso tempo fresco e caldo, delineato a metà dell’opera da una forte spinta diagonale verso il basso creata dal bordo destro delle montagne e dai raggi del sole che tagliano le nuvole in alto a sinistra. Un uccello, reso in modo nitido, vola con questo movimento diagonale da sinistra a destra, sottolineando ulteriormente il divario e portando la nostra attenzione sulle figure in primo piano. È un’opera magistralmente eseguita, sottile e luminosa, e sono grato che mi sia rimasta impressa per anni.
October 5, 2023