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Andrzej Steinbach: tautologia dell’ideale

Stefano Pirovano

Andrzej Steinbach interroga i nostri sistemi di attribuzione di senso, così le immagini possono vibrare libere e aperte

Di cosa è fatta la fotografia? È fatta di fotografia. Per questo motivo, per parlare delle immagini create da Andrzej Steinbach, bisogna assumere una prospettiva precisa, quella del medium in oggetto. La questione, tuttavia, è se la fotografia possa ancora essere considerata un mezzo. Ne abbiamo discusso brevemente con Steinbach durante un incontro presso la Briefing Room di Bruxelles, uno spazio gestito e curato da Andrzej Steinbach e Steffen Zillig (qui il link al sito web del progetto). In effetti, dal momento in cui si sono diffuse le macchine fotografiche digitali (nell’ultimo decennio del secolo scorso), a cui è seguita l’esplosione dei social network, che ci ha consentito, o forse indotto, a condividere di continuo immagini di natura fotografica con chiunque, e ancora, con l’evoluzione dei software di fotoritocco, la macchina fotografica tradizionale è stata affiancata da una serie di altri strumenti che, in teoria, avrebbero tutto il diritto di essere considerati dei medium a sé stanti.

Andrzej Steinbach,
Andrzej Steinbach, Platen, from the series Disassembling a Typewriter, 2022. ©Andrzej Steinbach, VG Bild-Kunst, Bonn, 2024.

Ha quindi ancora senso parlare di fotografia come si parla di pittura, scultura o cinema? Nel caso del lavoro di Andrzej Steinbach, molto probabilmente sì. Ma è possibile solo dopo aver capito che è la volontà di essere fotografia a fare la fotografia, non un dispositivo fotosensibile di qualsiasi tipo o un software. Quindi, se è vero che la fotografia è fatta di fotografia, è anche vero che per fare una fotografia ci vuole un fotografo, cioè una sintesi di competenze tecniche ed esigenze poetiche. In tempi di Intelligenza Artificiale è decisamente inutile ragionare sulla prima. A noi interessa, piuttosto, quest’ultimo aspetto, cioè ciò che ci permette di concepire le ragioni per cui una fotografia è ciò che è, quindi perché certe immagini, e non altre, posseggono la complessità espressiva delle opere d’arte ed è quindi opportuno che attraversino i libri, le gallerie, le istituzioni artistiche, i musei.

Come ha sottolineato Lucy Gallum, che nel 2018 ha incluso Steinbach nella mostra New Photography al MoMA e in seguito ha scritto un saggio molto approfondito per il catalogo della mostra personale di Steinbach al Kunstverein di Amburgo (2022, link), il design poetico di Andrzej Steinbach guarda ai nostri tempi concependo in modo chiaro i “modelli e i protocolli” della fotografia, ma anche del design, dell’arte e della moda (tra l’altro, Steinbach sottolinea che le pareti della sua mostra al Kunstverein di Amburgo sono, in realtà, vecchi pannelli che ha recuperato dai magazzini dell’istituzione e riadattato come strumenti espositivi con tracce di mostre precedenti).

Andrzej Steinbach
Andrzej Steinbach, Modelle und Verfahren, Kunstverein in Hamburg, 2022. Foto: Fred Dott. Courtesy of the artist and Kunstverein Hamburg.

I ritratti della serie Figur I, Figur II (2016), parte di una trilogia che comprende anche i cicli fotografici Gesellschaft beginnt mit drei (2017) e Der Apparat (2019) – pubblicati da Spector Books in tre volumi separati (link) -, annullano quasi completamente il contesto per concentrarsi sul soggetto, che Steinbach ci invita così ad “analizzare”. La modalità di osservazione potrebbe ricordare il modo in cui guardiamo un servizio di moda, dove la modella è una costante, mentre cambiano pose, abiti e accessori. Salvo che, ovviamente, in questo caso non vi è alcuno scopo promozionale. Gli attributi del soggetto sono completamente neutri, brutalmente impersonali, privi di soggettività, proprio come i modelli nella maggior parte dei servizi di moda professionali. Eppure questo scambio di ruoli non porta, come ci si potrebbe aspettare, alla centralità dell’individuo, che anziché essere una persona rimane un archetipo. Più che a una condizione esistenziale, si approda nei territori dell’astrazione. La tautologia del soggetto conduce all’assoluto, all’ideale. La fotografia è fatta di fotografia, tanto più se è in bianco e nero, e se il suo motivo può ripetersi all’infinito, come un bicchiere di Dreher o un quadro di Albers, che vibrano di significati proprio perché non ne escludono nessuno. Lo stesso vale quando Andrzej Steinbach concentra la sua attenzione sugli oggetti, o sulle loro interazioni.

Andrzej Steinbach, Figur I, Figur II, 2014/15. ©Andrzej Steinbach, VG Bild-Kunst, Bonn, 2024.

Le leve dei caratteri di una macchina da scrivere (Disassemblig a typewriter, 2022) non diventano, attraverso la fotografia, degli strumenti simbolici per occuparsi del linguaggio, dell’evoluzione tecnologica, della lotta per esprimersi o del senso di malinconia che i più nostalgici potrebbero provare. Sono, piuttosto, oggetti che la fotografia ci invita a mettere in relazione con i nostri sistemi di attribuzione di significato, affinché possano vibrare nello spazio assoluto, libero e aperto. E così pietre (Ordinary stones, 2016), chiodi (300 Nails, 2019), strumenti da lavoro (Auto erotik, 2022).

Andrzej Steinbach, Vv Ää §9 ‘-, from the series Disassembling a Typewriter, 2022. ©Andrzej Steinbach, VG Bild-Kunst, Bonn, 2024.

A un certo punto, in ogni caso, sono le forme pure a diventare simboliche. Una curva, una superficie zigrinata, un cerchio, la volumetria spontanea di un corpo umano colto in una certa postura. Geometrie implicite mascherate da oggetti ordinari. Quella di Andrzej Steinbach è una poetica che opera per sottrazione di identità e per sospensione temporale. A un decennio dalla loro realizzazione, infatti, gli scatti di Figura I, Figura II sono ancora intatti, e lo stesso si potrebbe dire di tutte le serie che hanno segnato la produzione di Steinbach fino a oggi. Come pietre grezze che non cambiano nel tempo; finché qualcuno non passa di lì e dà loro un’occhiata. Una pietra, dopotutto, è anche fatta di pietra.

May 8, 2024