Aggiunte al catalogo di Bernardo Zenale
Il catalogo di Bernardo Zenale viene ampliato con alcune nuove opere, tutte appartenenti all’ultima fase della sua carriera.
Le opere di Bernardo Zenale sulle quali è incentrato questo contributo – alcune inedite, altre note solo per vecchie fotografie o rimaste nelle pieghe della bibliografia – si collocano tutte nella stagione più avanzata del pittore lombardo, ormai cinquecentesca: una fase per la quale possiamo contare oggi – almeno fino al 1515-1518 – su alcuni solidi appigli, ma che resta ancora, in tanta parte, da capire nelle sue complesse dinamiche creative. È un periodo vissuto da Zenale, come sempre, all’insegna della sperimentazione e caratterizzato dallo studio intelligente delle novità leonardesche, ma anche dall’attenzione per la produzione di Giovanni Antonio Boltraffio, Andrea Solario e del giovane Bernardino Luini, legato al maestro trevigliese lungo gli anni dieci del XVI secolo da un solido rapporto di lavoro e di amicizia. Vi resta costante, avviatosi già dal tardo Quattrocento, il dialogo intessuto con Bramantino, insieme a Zenale il referente principale dell’avanguardia pittorica milanese nei primi due decenni del Cinquecento, come dimostra con grande chiarezza la vicenda della protestatio che tra 1510 e 1511 oppone i due artisti a Giovan Pietro da Corte.
Per maggior chiarezza, conviene introdurre – pur brevemente – le opere certificate della tarda attività di Zenale, che costituiscono la griglia entro la quale andranno a inserirsi i nuovi dipinti discussi in questo contributo.
Il XVI secolo si apre per il pittore, in bilico tra la ricezione del Cenacolo vinciano e le novità di Bramantino, con gli Angeli cantori e suonatori della cantoria dell’organo di Santa Maria di Brera, da poco donati alla Pinacoteca di Brera da Antonella e Guglielmo Castelbarco e collocabili in leggero anticipo sul Cristo deriso della Collezione Borromeo, in origine corredato dal la data 1502 (o 1503 secondo una lettura meno accreditata). Il successivo appiglio è costituito dal polittico di Cantù, diviso tra il John Paul Getty Museum di Los Angeles e i milanesi musei Poldi Pezzoli e Bagatti Valsecchi: pubblicato nel 1507, ma in gestazione almeno dal 1502, è un’opera che mostra Bernardo Zenale in un complicato corpo a corpo con la pittura leonardesca. Questo momento appare felicemente superato nei dipinti che si collocano a cavaliere tra primo e secondo decennio del XVI secolo – lo splendido Compianto su Cristo morto della cappella del Santissimo Sacramento di San Giovanni Evangelista a Brescia (la cui cornice è commissionata a Stefano Lamberti nel 1509) e la Sacra conversazione del Denver Art Museum (un tempo firmata e datata 1510 su una perduta targa esposta nella cappella di Santa Maria della Vittoria in San Francesco Grande a Milano) – nei quali Zenale affianca agli spunti bramantini anni le seduzioni coloristiche della pittura di Andrea Solario. Nel 1515 è infine datata la pala Busti, vero e proprio exploit luinesco del maestro: un’opera dalla vicenda critica a dir poco intricata e solo in anni recenti ricondotta a Bernardo Zenale con un maggior grado di certezza grazie ad un fortunato ritrovamento documentario, che certifica come nel 1518 il maestro riceva, anche a nome del socio intagliatore Bernardino da Legnano, il saldo del dipinto e della sua cornice. Ne torneremo a discutere sul finale del contributo.
Dopo il 1515-1518 non abbiamo più appigli sicuri; resta quindi sguarnito di punti fermi l’ultimo tratto del percorso dell’artista, dal secondo lustro degli anni dieci al 1526 della morte: si tratta di un periodo che lo vede documentato quasi esclusivamente nelle vesti prestigiose di architetto della chiesa di Santa Maria presso San Celso e della cattedrale milanese, consultato per delicate questioni di ordine prospettico, come nel caso del coro e della pala dell’altar maggiore di Santa Maria Maggiore a Bergamo, o per erudite dissertazioni nel campo della cultura antiquaria, nel quale condivide interessi e studi con il giovane Andrea Alciati.
Un’ultima certezza, negli anni tardi, è costituita dal viaggio a Roma di Bernardo Zenale, che deve collocarsi posteriormente alla pala Busti, opera ancora scevra di riferimenti centri italiani, ma per certo entro il 1521, quando il maestro è menzionato tra gli artisti tornati “pasciuti di contentezza speculativa a le loro patrie” dalla città eterna nel commento a Vitruvio di Cesare Cesariano.
Qualche anno fa ho proposto di individuare i segni della discesa a Roma, compiuta probabilmente insieme all’amico e collega Luini, nella Circoncisione della PKB Privatbank e nella complessa ma affascinante Annunciazione della Pinacoteca di Brera, le due opere che maggiormente mostrano un respiro moderno nel catalogo del maestro e che lo rivelano – pur anziano – ancora in grado di sperimentare in molteplici direzioni, sotto lo stimolo delle novità raffaellesche e bramantesche. Ho ipotizzato per esse una datazione nell’ultimo lustro, o poco più, dell’attività di Bernardo Zenale, in modo da distanziare le due tavole dalla pala Busti, che nel 1515-1518 si rivela in fondo – pur con la sua accesa temperatura luinesca – in piena continuità con le opere dei primi anni dieci del Cinquecento. Tale datazione, accolta positivamente solo da una parte dagli studiosi, attende il riscontro di future ricerche, che riescano a far luce sugli aspetti storici delle due tavole e in particolare sulla loro provenienza originaria. Se per la Circoncisione, un piccolo capolavoro – tutto autografo – del vecchio Zenale, disponiamo ora di una buona pista nella direzione della chiesa gesuita milanese di San Girolamo, nel caso della Annunciazione di Brera, imponente pala d’altare frutto della collaborazione (volontaria o meno) di Zenale con maestri di evidente estrazione luinesca (e giunta nella raccolta brai dense senza indicazione della sua precedente collocazione), risultano attualmente aperte due ipotesi di provenienza: la prima è quella che la vorrebbe in origine – anche in forza della iconografia di stampo amadeita – nella chiesa esterna del monastero agostiniano di Santa Marta, destinata alla cappella dell’Annunciazione richiesta da Bernardino Bascapè con il proprio testamento del 1523; la seconda proposta, recentemente avanzata, conduce invece alla chiesa di San Lazzaro, monastero domenicano femminile legato strettamente al luogo pio di Santa Corona e allo stesso Zenale (la figlia del pittore, Mansueta, vi entra monaca nel 1516), dove tra Sei e Settecento è descritto un dipinto che evoca da vicino il soggetto della tavola brai dense. Andrà in ogni modo rilevato, chiudendo qui il nostro veloce excursus sui problemi di datazione della produzione ultima del maestro, come anche questa seconda ipotesi ci spinga ben dentro gli anni venti del Cinquecento.
Alla fine del primo decennio del Cinquecento: il San Giovanni Battista della Downside Abbey.
La prima opera sulla quale sostiamo è una tavola di ragguardevoli dimensioni (156 x 89 cm) raffigurante un imponente San Giovanni Battista ritratto in piedi sullo sfondo di un paesaggio. Il santo è coperto dalla consueta pelle di cammello annodata sulla spalla sinistra e stretta in vita da un brandello di tessuto grigio. Decisamente succinta, la veste lascia in evidenza il petto e le gambe del Battista. Sulla spalla e sul braccio destro del santo è appoggiato un ampio manto rosso, in tanta parte scivolato sul terreno, dove ha formato un denso cumulo di pieghe. San Giovanni concentra il proprio sguardo con intensità sull’osservatore e indica platealmente un dettaglio della croce astile che regge con la destra: un piccolo agnello bianco accovacciato sopra un libro, allusivo all’Agnello di Dio delle Sacre Scritture. Il riferimento all’Agnus Dei è ulteriormente evocato dall’iscrizione in belle lettere capitali presente sull’ampio cartiglio che si srotola araldico dietro al Battista. Esso riporta il celebre passo del Vangelo di Giovanni (1, 29): “Ecce Agnvs dei Qui tollit peccAtA Mundi”. Colpisce, nella descrizione materica della croce, immaginata di bronzo dorato, il naturalismo dell’Agnus Dei, che reca ben in vista la ferita sanguinante sul costato, il nimbo e lo stendardo crociato, a riflettere sulla sua identificazione in Cristo morto e risorto. Il deserto in cui si svolge la vita del giovane Battista è alluso da una scabra roccia sulla sinistra, mentre sullo sfondo, chiuso in lontananza da montagne azzurre, si snodano le anse del fiume Giordano. Il dipinto, battuto all’asta il 29 aprile 2020 presso Sotheby’s a Londra come opera di Bernardo Zenale e acquistato in quella occasione dagli antiquari Robilant+Voena, proviene dalle raccolte della benedettina Downside Abbey, nel Somerset.
L’opera è stata donata all’abbazia inglese nel 1905 da sir Henry Hoyle Howarth o Howorth (1842-1923), importante figura di politico e uomo di cultura dai vasti interessi nel campo antiquariale e storico, con la mediazione di Everard Green (1844-1926), Officer of Arms e dal 1893 Rouge Dragon Pursuivant of Arms in ordinary. A lui nell’ottobre 1905 Henry Howarth scrive due lettere, che sono state pubblicate, anni dopo la donazione, nella rivista della Downside Abbey: l’estensore della nota, anonimo, ricorda che era sua intenzione dare evidenza alla donazione sin dal 1905, ma l’allora abate Ford perse le lettere di Howarth, ritrovate solo nel 1933 e quindi in tale anno pubblicate.
Ecco il contenuto delle due lettere, che aiutano a chiarire diversi aspetti della storia recente dell’opera. Il 16 ottobre 1905 sir Henry scrive a Everard Green:
“My dear Green,
My big picture of St. John still hangs in the hall. I bought it in London, but Fairfax Murray, the well-known critic of Italian art, told me he had seen it in Florence. He is the best judge I know, and attributed it to Lazzaro Bastiani, who was a pupil of Andrea Mantegna. It was clearly the altar piece of an Italian church, and is quite unsuited to a private house, but is eminently suited for one of the altars at the new Cathedral. It is painted on a panel, a genuine picture by a master of the 15th century, not otherwise represented in England; and if the authorities would care to have it, as I told you, I should be very pleased to make them a present of it.”
Una seconda lettera, del 23 ottobre dello stesso 1905, chiarisce che la cattedrale di cui Howarth scrive nella precedente missiva è la grande chiesa della Downside Abbey:
“In regard to the picture, I should be very pleased if they will have it at Downside if they should care to do so, but I don’t know how far their taste would be for something more modern. I have no doubt about its being quite original and by the artist I told you, for Murray, who mentioned the name to me, had no doubt about it and he is the first authority in Europe. If you think they would care for it, pray, write and ask them and shall certainly have it, for I have very pleasant memories of the place, and it is very interesting to me as the direct descendant of the old Abbey of St. Alban’s.”
L’estensore della nota apparsa nel 1933 sulla ‘Downside Review’, che conferma senza ombra di dubbio l’attribuzione a Lazzaro Bastiani e individua una qualche somiglianza tra il Battista e la ‘Madonna Trivulzio’ di Mantegna, ricorda che due anni dopo la donazione del 1905 sir Henry Howorth lasciò all’abbazia anche una Resurrezione di scuola veneziana. Andare più indietro del 1905 non è semplice. Nelle carte di Charles Fairfax Murray non paiono emergere notizie dei suoi rapporti con Howarth o del San Giovanni Battista.
Il dipinto, che con il recente restauro ha riacquistato un’ottima leggibilità, è stato presentato in asta a Londra già con la corretta attribuzione a Bernardo Zenale, sulla quale difficilmente possono sussistere dubbi. Anche le indagini ai raggi infrarossi effettuate in occasione dell’ultimo intervento conservativo confermano senza margine di dubbio l’iscrizione dell’opera a Zenale. Il disegno del santo è stato trasportato dal cartone preparatorio sul supporto tramite incisione, ma anche ripensato nel suo assetto generale attraverso veloci tocchi di pennello stesi direttamente sulla tavola e destinati a riposizionare la croce, le braccia, le gambe e il mantello del santo e a rialzare le rocce sullo sfondo a sinistra, in una versione poi non seguita dal pittore nella stesura finale. Questo tipo di preparazione grafica del dipinto rientra in una prassi assolutamente tipica di Zenale, che spesso interviene con un disegno a pennello direttamente sulla tavola, modificando dettagli e impostazioni.
Vale invece la pena di argomentare con maggior dovizia la datazione dell’opera, che per la spiccata connotazione leonardesca, percepibile nell’ambientazione paesaggistica aperta e nel la resa naturalistica del corpo e del volto del Battista, per la dilatazione delle forme e la postura elegante e flessuosa del san Giovanni, ben poco irsuto, andrà collocata oltre il crinale del 1500, quando si assiste nella storia del maestro trevigliese ad una svolta segnata così profondamente dallo studio di Leonardo, da aver relegato per molti anni, in sede critica, le opere di quel periodo sotto lo pseudonimo di Pseudo Civerchio o Monogrammista XL.
I dipinti con i quali meglio dialoga il bel San Giovanni sono quelli che si pongono a cavaliere tra primo e secondo decennio del Cinquecento: il Compianto di Brescia del 1509 circa e la Sacra famiglia tra i santi Ambrogio e Gerolamo di Denver, un tempo datata 1510. Nel San Giovanni Battista continua però ancora a percepire l’eco della passata stagione, rappresentata dal polittico di Cantù, del 1507, soprattutto nella gamma cromatica più sobria e ribassata del dipinto, ma anche in tanti dettagli più minuti. In questo senso risultano utili i confronti istituibili tra la nostra tavola e i Santi Giovanni Battista e Francesco del Museo Bagatti Valsecchi: per esempio nei particolari della veste dei due san Giovanni, similmente annodata, o della croce, forgiata nello stesso metallo, dai medesimi riflessi. Anche avvicinare i volti dei due santi appare assai indicativo: vi si riscontra infatti una tecnica molto simile nel delineare la barba, i capelli, il naso e gli occhi, con le palpebre evidenziate da delicati tocchi di rosa. Ciò che cambia è invece la maggior prestanza fisica del san Giovanni qui presentato, che – similmente agli astanti nel Compianto di Brescia – perde la malinconica impostazione dei santi del polittico di Cantù, risposta un po’ incupita alle introspezioni leonardesche. Possiamo azzardare, sulla scorta della lettura fin qui proposta, una datazione al 1508-1509, a valle del polittico di Cantù (1507) e a monte del Compianto di Brescia (1509 circa).
L’opera deve aver in origine campeggiato solitaria sopra un altare dedicato al Battista. Lo lasciano ipotizzare sia il formato ampio, sia la scelta di raffigurare san Giovanni secondo un punto di vista ribassato, con una modalità che assimila il dipinto, per esempio, alla Santa Barbara di Boltraffio (Berlino, Gemäldegalerie, 1502), nata per decorare un altare della chiesa di Santa Maria presso San Satiro a Milano in anni non lontani dalla tavola qui considerata.
Il San Giovanni Battista doveva essere accompagnato in origine da una composita cornice architettonica e vale la pena in questo senso ricordare, per tentare di risarcire l’aspetto antico dell’opera, che sin dagli anni ottanta del Quattrocento e almeno fino al 1510 Bernardo Zenale operava, nel territorio del Ducato di Milano, in sinergia con la bottega dei fratelli De Donati per la fornitura delle cornici; solo nel caso della più tarda pala Busti siamo a conoscenza di una diversa società, che lega il maestro allo scultore del legno Bernardino Corio da Legnano. Per avere un’idea di come potesse conformarsi la cornice del san Giovanni, possiamo rivolgerci a due opere uscite dalla bottega De Donati negli stessi anni del nostro dipinto: la cassa dell’organo del Duomo di Monza e l’ancona di Caspano di Civo, in Valtellina, che sono entrambe del 1508 e presentano la medesima misura bramantesca, con ampi inserti decorativi di gusto classicista.
Non è affatto semplice individuare la collocazione originaria del dipinto, verosimilmente, come si è anticipato poco sopra, realizzato per un altare dedicato al Precursore in Lombardia. Esclusa una serie di ipotesi nate lavorando sulla guidistica sei-settecentesca lombarda e accantonata la possibilità di una provenienza della tavola dalla prestigiosa sede milanese dei cavalieri di Malta, particolarmente devoti a san Giovanni Battista (l’opera è per altro priva dei simboli propri del potente ordine militare) (29), molto promettente si rivela una pista di ricerca che scaturisce per così dire naturalmente dall’analisi del soggetto del dipinto. Mi riferisco alla possibilità di una sua antica pertinenza alla Certosa di Garegnano, la Certosa di Milano, fondata nel 1349 dall’ar civescovo e signore di Milano Giovanni Visconti e dedicata alla Madonna assunta e a sant’Ambrogio, nonché all’Agnus Dei; intitolazione, quest’ultima, con cui il monastero è sempre ricordato nei documenti. Non sfuggirà al lettore che è proprio un Agnus Dei particolarmente curato e dettagliato il simbolo che il san Giovanni indica al pubblico con un ampio gesto; allo stesso tema allude enfatico – come si è detto in precedenza – il cartiglio che si srotola dietro al santo. Il cantiere della Certosa di Garegnano è soprattutto noto per gli importanti interventi che ne riqualificarono il volto tra secondo Cinque e primo Seicento, con gli affreschi di Simone Peterzano e Daniele Crespi, e i lavori architettonici della facciata e del monastero (in particolare del chiostro grande) guidati dall’architetto Vincenzo Seregni. Quasi completamente perso ogni elemento del primo insediamento certosino milanese, quello trecentesco ricordato da Francesco Petrarca, resta una traccia molto debole – nei documenti e in alcuni frammenti architettonici e pittorici riemersi con i restauri – della fase subito successiva, databile tra XV e XVI secolo, che dovette però incidere assai a fondo sull’aspetto della Certosa, sia della chiesa che del monastero – e oggi è quasi dimenticata, tra distruzioni e trasformazioni.
Concentrandoci ora sulla chiesa e sui suoi altari, tra Quattro e Cinquecento si colloca la creazione-trasformazione di diverse cappelle (sostanzialmente quelle del lato sinistro e la prima del lato destro), della sala capitolare, della sacrestia, spazi tuttora esistenti nei volumi, per quanto ulteriormente modificati nel corso nei secoli per aggiornarli ai cambiamenti di gusto.
Una verifica sulla documentazione relativa all’importante insediamento religioso conservata presso la Biblioteca Braidense e l’Archivio di Stato di Milano permette innanzitutto di escludere l’esistenza di una presunta cappella dedicata al Battista sin dal 1407, come riportato da pressoché tutta la bibliografia inerente alla Certosa. La cappella che nel 1407 Zenone de Freganesco da Cremona chiede di far costruire al priore e ai monaci di Garegnano dove loro meglio piacerà era infatti dedicata a Giovanni Evangelista e non al Precursore: l’atto la ricorda come “unam capellam de bonis lapidibus […] sub vocabollo et nomine beati Iohannis Evangeliste”. Essa sarà poi costruita a sinistra dell’ingresso alla chiesa, leggermente distanziata dalla stessa (quindi, in quel momento esterna al corpo della chiesa), non lontano dal 1425, quando risulta consacrata ed è ricordata come “nova”, appena terminata.
Specularmente a quella dell’Evangelista sorgerà anni dopo la cappella di Sant’Antonio abate – come capiremo a breve, per noi del massimo interesse –, lasciata come onere testamentario ai propri eredi da Giovanni del fu Antonio Conti (de Comitibus) di Lonate Ceppino con i due testamenti del 27 agosto 1467 e del 24 agosto 1469. Nelle ultime volontà del Conti si chiede che entro dieci anni dalla morte dei propri eredi diretti, i fratelli Antoniola e Ubertino, gli eredi sostituti nominati dal testatore (i figli dello zio Federico: Beltramolo, Battista, Tommaso e Gio vanni Antonio) facciano costruire “una cappella in monasterio Cartuxie de Garegnano videlicet a manu dextra introytus porte ecclesie dicti monasterii et in illa latitudine et altitudine ac longi tudine et grossitudine muri prout est altera capella Sancti Iohannis que est a manu sinistra por te dicte ecclesie sub vocabulo Sancti Antonii”. Gli stessi dovranno commissionare per la cappella una tavola dipinta e un messale del valore rispettivamente di 80 e 160 lire imperiali (“ma yestas una picta de valoris librarum octuaginta imperialium. Item missale unum valoris libra rum centum sexaginta imperialium”), e ancora un calice, una pianeta con i suoi fornimenti, un pallio di velluto, ciascuno del valore di 40 lire imperiali. A sorvegliare sulla corretta applicazione delle richieste di Giovanni Conti sono chiamati il priore e i monaci di Garegnano (in seconda istanza anche la Scuola delle quattro Marie). Andrà in questo senso ricordato che negli anni 1455-1456 e 1465-1476 è spesso documentato come priore della Certosa di Garegnano don Cristoforo Conti, che la documentazione sopravvissuta in Archivio di Stato a Milano permette di identificare nel fratello di Giovanni. Aveva emesso professione tra il 1444 e il 1447 e nel febbraio 1479, anno della sua morte, era passato alla Certosa di Pontignano presso Siena: è ricordato con sommi onori dagli storici dell’ordine certosino.
È probabile che la richiesta di far costruire una cappella speculare a quella dell’Evangelista portasse con sé, nelle intenzioni di Giovanni Conti, ben orientate dal fratello priore della Certosa, l’idea di trasformare l’ingresso della chiesa, definendo sin da allora la curiosa iconografia a T rovesciata che caratterizza la pianta dell’edificio e che ha ad evidenza condizionato la successiva progettazione della facciata.
Se le note del testamento del Conti, che affidano agli eredi sostitutivi (e non a quelli diretti) la costruzione della cappella, lasciano già ipotizzare una discreta dilazione nei tempi, una certezza in questo senso si desume dall’importante memoria che enumera dettagliatamente le consacrazioni degli altari di Garegnano e si conserva presso la Biblioteca Braidense di Milano. In essa, infatti, si ricorda la consacrazione, il 23 febbraio 1509, dell’altare […] “capelle nove ad honorem Dei et Beatissime Virginis ac omnium sanctorum et specialiter ad titulum Sancti Iohannis Baptiste, et Sancti Antonii abbatis”. La cappella nel 1509 è detta “nova”, quindi doveva essere stata appena costruita e decorata. È decisamente importante sottolineare la doppia dedicazione del sacello, comprensiva di quella al Precursore, certo in omaggio a Giovanni Conti; per noi un fatto ovviamente molto significativo.
La costruzione e decorazione della cappella dei Santi Antonio e Giovanni Battista – che portava con sé, come si è detto, in nuce la necessaria trasformazione della facciata della chiesa – in prossimità del 1509 è anche un dato importante per il cantiere rinascimentale della Certosa milanese, che proprio in questi anni vede non a caso una notevole intensificazione, con la commissione a Benedetto Briosco nello stesso 1509 di una partita di 68 colonne di marmo di Carrara, cui segue nel 1510 un simile contratto con Pietro di Matteo Casoni di Carrara per ulteriori 40 colonne. Quanto fin qui ricostruito in merito alla cappella dei Santi Antonio abate e Giovanni Battista sulla scorta dei documenti si scontra oggi con l’evidenza dei fatti: se ci rechiamo alla Certosa di Garegnano – ma la situazione era la medesima dalla fine del Cinquecento –, la cappella di Sant’Antonio abate e San Giovanni Battista non è più individuabile nella prima di destra (dedi cata, come vedremo, all’Annunciazione e alla Vergine del Rosario tra XVI e XVII secolo), ma nella seconda del lato sinistro. Dobbiamo in questo senso evocare le ampie modifiche impresse alla Certosa di Milano in età post tridentina, quando molti degli altari di Garegnano dovettero cambiare dedicazione (45). Se la cappella a sinistra dell’ingresso rimase intitolata a Giovan ni Evangelista fino ai primi del Seicento, quando venne dedicata (1617) ai Santi Bruno e Ugo, quella di destra fu riconsacrata, con la nuova intitolazione all’Annunciazione e al Rosario, nel 1597, ad un anno dalla realizzazione dell’ancona di Enea Salmeggia e ancora nel 1617, in con comitanza con l’esecuzione del nuovo altare, datato 1615 (46). Ogni traccia dell’antica decorazione rinascimentale, probabilmente già ampiamente modificata tra fine XVI e inizio XVII secolo, al momento della creazione della pala e dell’altare ricordati poco sopra, scomparve nel secondo Settecento sotto gli affreschi con i Misteri del Rosario di Biagio Bellotti.
Con le trasformazioni impresse intorno al 1597 alla prima cappella di destra, la titolazione ad Antonio abate e al Battista passò alla seconda cappella del lato sinistro, che non è ricordata nella memoria delle consacrazioni, ma reca ben in vista un ciclo di affreschi con storie dei santi Antonio abate e Paolo eremita dei primi del Seicento, avvicinato cautamente da Simonetta Coppa al nome di Carlo Antonio Procaccini (48). Al di sotto degli affreschi occhieggiano frammenti di pitture decorative di qualche anno (ma non tanti!) precedenti, forse l’iniziale decorazione della cappella sul finire del Cinquecento. Sull’altare, di fattura ottocentesca, è oggi una tela con la Sacra Famiglia attribuita a Carlo Francesco Nuvolone e donata alla chiesa di Garegnano solo nel 1910; una immagine di inizio XX secolo mostra lo stesso altare con un’ancona leggermente diversa, adattata ad ospitare una statua, parrebbe ottocentesca, della Madonna con Bambino (49). Manca la pala originaria, che doveva ovviamente essere dedicata al Battista.
Per la loro posizione appartata, la cappella di Sant’Antonio e i successivi due sacelli del lato sinistro furono usati nei secoli XVII e XVIII esclusivamente dai monaci certosini per la propria devozione e per questo motivo non furono mai aperti al pubblico. Ciò spiega la mancanza di notizie sul corredo pittorico di tali cappelle, nelle quali – ricorda un’antica guida alla Certosa – ancora nel XIX secolo si potevano vedere ricchissimi altari, uno addirittura “di finissimo avorio lavorato da mano maestra”, finiti poi chissà dove.
La probabilità che la pala di Bernardo Zenale qui considerata fosse in origine destinata alla cappella voluta da Giovanni Conti e abbia poi seguito la sua sorte negli anni successivi al Concilio di Trento è piuttosto alta, non solo per il soggetto e per la perfetta coincidenza delle date (l’altare è consacrato nel febbraio 1509 e la tavola è databile “a stile” proprio in quel preciso frangente, post 1507 e ante 1509), ma anche per la presenza della bottega di Bernardo Zenale in Certosa in anni non lontani: mi riferisco in questo senso al bel San Michele arcangelo che trafigge il demonio presente sulla volta della sala capitolare di Garegnano, scoperto una ventina di anni fa e attribuito al maestro trevigliese da Sandrina Bandera. L’invenzione è di grande effetto, ma l’esecuzione non pare riferibile a Zenale in prima persona, quanto ad una personalità gravitante nella bottega dell’artista. La decorazione della sala capitolare, per la quale è stata anche proposta una datazione all’ultimo decennio del Quattrocento, troppo precoce per giustificare il tipo di sperimentazione prospettiva esperito, ma anche la più sciolta esecuzione pittorica, può essere collegata al momento della consacrazione di tale ambiente, avvenuta il 25 agosto 1508 e fornire un’ulteriore prova della presenza di Zenale e bottega – negli anni di esecuzione del San Giovanni Battista – nell’importante contesto religioso milanese.
Un possibile intermezzo: Bernardo Zenale al lavoro per il maresciallo Trivulzio nel Castello di Vigevano?
Poco oltre il San Giovanni Battista, negli anni della pala di Denver e della enigmatica Circon cisione Lampugnani (Parigi, Musée du Louvre), si deve collocare un possibile intervento di Bernardo Zenale nel Castello di Vigevano, in quel momento di appannaggio di una figura nodale della Milano francese, Gian Giacomo Trivulzio.
L’unica traccia rimasta di questi lavori altolocati è un malconcio affresco, pubblicato recentemente da Luisa Giordano a seguito dell’ultimo restauro, degli anni 2018-2019. Si trova nella prima stanza in cui si articola il corpo di fabbrica che fa da basamento alla falconiera del castello e oggi ospita le sale del Museo Archeologico Nazionale della Lomellina: un ambiente di formato quadrato, coperto con una volta ribassata su unghiature.
L’affresco, posto sulla parete occidentale del locale, di formato piuttosto ridotto, è assai lacunoso e abraso, in molti punti ridotto al solo sotto modellato o al disegno. Le indagini operate nel 2018-2019 sugli intonaci antichi della stanza e su quelli delle sale adiacenti non hanno dato esito positivo e quindi non abbiamo prove concrete dell’esistenza di altri affreschi intorno a quello sopravvissuto. Introdotto da una semplice cornice di finto marmo, sobriamente decorata da motivi a candelabra, il dipinto raffigura l’Adorazione del Bambino alla presenza di due uomini in età, uno frontale e l’altro di profilo, entrambi appoggiati ad un bordone. Se possiamo individuare il primo in san Giuseppe, anche per la presenza evidente, in traccia, dell’aureola, la rovina della pellicola pittorica ci impedisce di avere certezze in merito all’anziano di profilo, forse aureolato. Possiamo solo provare a proporre per lui una identificazione in san Girolamo. Il soggetto sacro è ambientato entro un incorniciatura architettonica di sicuro effetto, gremita di alte colonne sulla sinistra e connotata a destra dalla presenza di una rivisitazione della romana Torre delle Milizie.
Luisa Giordano, discutendo dell’attribuzione del malconcio affresco, non manca di segnalare un riferimento a Bernardo Zenale per le figure e a Bramantino per il paesaggio e le architetture, giungendo alla conclusione che possa trattarsi di un seguace dei due maestri attivo al principio del secondo decennio del Cinquecento.
Che l’autore dell’affresco possa essere identificato nel solo Bernardo Zenale, pur con la cautela del caso, lo si evince dal confronto istituibile con le opere licenziate nei primi anni dieci del XVI secolo dal pittore trevigliese, come la pala di Denver e la Circoncisione Lampugnani, soprattutto per quanto concerne le fisionomie e il modellato dei santi. Particolarmente utile si rivela anche il paragone con l’unica traccia visiva rimasta (una vecchia fotografia) di uno dei perduti affreschi con Storie della Passione che decoravano il chiostro dei morti di Santa Maria delle Grazie a Milano, ricordati con somma lode da Vasari e Lomazzo, o con il disegno del British Museum di Londra preparatorio per le scene del ciclo cristologico. In entrambi i casi, le quinte architettoniche entro le quali si inscena la narrazione evangelica rivelano diverse affinità con l’ambientazione dell’affresco vigevanese. Anche il brano di underdrawing riemerso sotto una grande lacuna in corrispondenza dei due santi anziani può aiutarci a confermare – con il suo tratteggio a pennello libero e veloce – l’attribuzione del dipinto a Zenale.
Lungo gli anni dieci del Cinquecento: aggiunte, opere riconsiderate e il problema della bottega del vecchio Bernardo Zenale.
Portano invece al secondo lustro degli anni dieci del Cinquecento le tre piccole tavole di formato circolare sulle quali ci concentriamo ora. Non si tratta di opere inedite: semplicemente, sono uscite assai presto, come vedremo, dal dibattito critico su Bernardo Zenale. Raffigurano il Padre Eterno, l’Angelo annunciante e la Vergine annunciata (la misura del loro diametro è rispettivamente di 22, 23, 23 cm) e sono da pensarsi in origine nella cimasa di una pala a campo unico o di un polittico, con buona probabilità di conformazione triangolare, a rappresentare nell’insieme la scena dell’Annunciazione. Al centro in alto doveva trovare posto il Padre Eterno tra teste di serafini; in basso ai lati si collocavano invece l’Angelo annunciante, recante nella sinistra il giglio, e la Vergine annunciata, colta nell’atto di reagire al messaggio angelico alzandosi dallo scranno con gesti eloquenti e inginocchiandosi. È questa l’unica figura a ricevere un’ambientazione entro una sorta di studiolo, allestito con un leggio e un seggio dai profili classicheggianti. Nel caso dell’Angelo, invece, l’unico accenno alla spazialità è costituito dall’ombra gettata, definita a tratteggio. Tutte le figure sono realizzate sull’oro. Solo nel caso dell’Angelo annunciante e della Vergine annunciata, l’oro appare profilato di nero lungo i margini, a fingere lo spessore del clipeo. Complessivamente in buono stato di conservazione (mostra maggiori segni di sofferenza l’Angelo annunciante), i tondi sono stati di recente restaurati. Le prime notizie dei tre dipinti data no al 1963, quando vengono battuti all’asta presso la sede milanese di Finarte. Secondo una tradizione segnalata al nuovo proprietario al momento dell’acquisto nello stesso 1963, l’antica collocazione delle tavole andrebbe individuata nella Cascina Pozzobonelli di Milano; le opere sarebbero poi passate nella collezione dell’architetto Luca Beltrami e quindi agli eredi di quest’ultimo, prima di apparire sul mercato antiquario nel secondo dopoguerra. Ho indagato per qualche tratto, ma senza risultati apprezzabili, la strada aperta da questa indicazione. È ovviamente possibile che Beltrami abbia acquistato i tre tondi mentre si occupava della cascina lombarda, ma al momento non pare sussistere un bandolo per dipanare tale matassa. Se adeguatamente provata, l’antica provenienza dalla villa dei Pozzobonelli potrebbe rivelarsi del massimo interesse. Lo stabile, del quale oggi resta solo parte del portico che immette nella piccola cappella triconca e la cappella stessa, è infatti tra gli esempi più interessanti di architettura bramantesca a Milano, di volta in volta attribuito al progetto dello stesso maestro urbinate o, con maggiore probabilità, di un suo stretto seguace. La villa è stata costruita e fatta decorare con interessanti graffiti nel primo decennio del Cinquecento da Gian Giacomo Pozzobonelli. Resta da indagare la storia successiva della famiglia, che potrebbe gettare una luce anche dell’eventuale committente dei tre dipinti, collocabili, come si specificherà meglio a breve, nel secondo decennio del Cinquecento.
La prima menzione delle opere si trova nel catalogo d’asta del 1963, nel quale è riportato il giudizio della illustre commissione riunita per l’occasione, comprendente Enos Malagutti, Gio vanni Testori e Carlo Volpe. I tre studiosi propongono il nome di Bernardo Zenale nella sua fase avanzata (67), un momento della storia del maestro trevigliese messo a fuoco da Maria Luisa Ferrari pochi anni prima, restituendo alla maturità del pittore il corpus di dipinti allora attribuito al cosiddetto Pseudo Civerchio o Monogrammista XL.
È la stessa Ferrari, in un ulteriore articolo dedicato a Bernardo Zenale nel 1967, a pubblicare in sede scientifica le tre tavole e a collocarle in prossimità della Deposizione del maestro trevigliese in San Giovanni Evangelista a Brescia. Anni dopo, nel 1977, Paola Astrua, in una nota laconica, nega le opere a Zenale, cui torna invece ad attribuire Giovanna Carlevano nel 1982, ammettendo però di non riuscire a prospettare per esse alcuna datazione. L’ultima menzione dei di pinti risale al 1994, quando Pierluigi De Vecchi fornisce un ulteriore parere negativo – sulla base delle sole immagini – in merito alla autografia zenaliana dei tre tondi.
Le opere, note fino a poco fa solo tramite le piccole immagini in bianco e nero pubblicate da Maria Luisa Ferrari nel 1967, non sono state in seguito più citate. La loro storia critica non ha quindi finora potuto beneficiare dell’ulteriore passo avanti compiuto dagli studi sulla fase avanzata di Bernardo Zenale con il ritrovamento dell’atto che registra il saldo in denaro conferito al pittore per aver dipinto la pala Busti, un’opera a lungo dibattuta in sede critica tra il maestro e Bernardino Luini. La tavola è datata 1515 sul gradino del trono, mentre l’atto reperito presso l’Archivio di Stato di Milano è del 1518, fatto che permette di dilazionare forse di qualche tempo la conclusione dei lavori. Nel documento si cita anche un maestro Bernardino, identificabile – come già segnalato – dell’intagliatore Bernardino Corio da Legnano, certo l’autore della cornice dell’opera, attivo con Zenale anche nel cantiere di Santa Maria presso San Celso e a lui legato da un sicuro rapporto di amicizia, dato che compare nel 1516 con Bernardino Luini tra i testimoni al la monacazione della figlia del maestro nel monastero domenicano di San Lazzaro a Milano.
È proprio in prossimità della pala Busti che mi paiono trovare corretta collocazione i tre tondi qui considerati. Si confrontino, ad esempio, i volti dell’Annunciata già Finarte e della Madonna in trono nella pala braidense, o gli ampi panneggi del Dio Padre con quelli che ammantano la Vergine nella tavola Busti, similmente concepiti, sia nella morbidezza delle ampie pieghe dense di colore, che nella gamma cromatica, assolutamente identica. Resta invece più difficile da confrontare l’Angelo annunciante, che – anche al netto dello stato di conservazione meno felice – pare da restituire ad una personalità distinta da quella del maestro, che concepisce diversamente i panneggi e realizza a tratteggio il chiaroscuro.
La vicinanza stilistica tra i tondi e la pala braidense è tale da far sorgere il dubbio – destinato per ora a rimanere tale – che i tre pezzi fossero un tempo parte del dipinto voluto dal Busti per la propria cappella, dedicata ai Santi Giacomo e Filippo, nella sede milanese degli Umiliati. La grande tavola è giunta a noi priva della cornice che l’intagliatore Bernardino da Legnano aveva predisposto. Che si trattasse di una cornice architettonica ce lo confermano la conoscenza della prassi operativa del primo Cinquecento milanese, ma anche la notevole finta architettura concepita per inquadrare la sacra conversazione cui partecipa la famiglia Busti inginocchiata. La pala braidense misura, senza la cornice, 195 x 145 cm e quindi la presenza dei tre tondi, di una ventina di centimetri di diametro, nella cimasa non troverebbe ostacoli.
Non lontano dalla palla Busti si colloca anche il polittico parzialmente rimontato qualche anno fa da Giovanni Agosti, Jacopo Stoppa e Marco Tanzi, affiancando al San Pietro del Birmingham Museum of Art e al San Michele Arcangelo già van Marle un San Sebastiano che una vecchia fotografia ricorda in collezione Venino. Si trova oggi in una collezione privata milanese, insieme al suo pendant: un San Giovanni Battista ritratto al di sotto del medesimo claustrofobico voltone a lacunari, sullo sfondo di un paesaggio di montagne, con ben in vista nella mano sinistra, oltre alla croce con il simbolo dell’Agnus Dei, una tabella ansata recante l’iscrizione: “ecce Angvs / dei / ecce Qvi tolit / peccAtA Mondi”. Restaurati nel secondo Novecento, i due pezzi si presentano diversamente conservati, laddove il Battista mostra alcune evidenti crettature e sofferenze, date dalla parchettatura rigida applicata sul retro, mentre il San Sebastiano rivela uno stato migliore, solo offuscato da una patinatura ormai alterata.
The original provenance of the two plates is not known, nor is there any information to direct our research.
Il polittico così rimontato, privo dei centrali inferiore e superiore e della verosimile cimasa, reca in basso i Santi Giovanni Battista (che indica per certo una Madonna col Bambino) e Sebastiano e in alto i Santi Pietro e Michele Arcangelo, purtroppo tutti santi di devozione diffusa. Va però rilevato come Giovanni Battista e Michele siano particolarmente cari agli Umiliati, un ordine per il quale Bernardo Zenale opera lungo tutta la sua carriera artistica. Lo stesso può dirsi per Pietro, al quale erano dedicati entro la diocesi milanese due importanti domus umiliate: la ben nota San Pietro a Viboldone, governata in anni per noi interessanti, fino al 1523, dalla notevole personalità di Ludovico Landriani, esperto di scienza vitruviana citato al pari di Zenale da Cesariano nel suo commento a Vitruvio e responsabile della costruzione e decorazione della casa del priore di Viboldone; e San Pietro in Monforte, in Porta Orientale a Milano, un contesto difficile da ricostruire, passato alla soppressione degli umiliati ai padri Somaschi.
Anche nel caso di questo polittico, come in quello dei tre tondi, va rilevata, accanto a Zena le, che governa l’insieme fornendo i disegni e riservandosi l’esecuzione di alcuni passaggi particolarmente efficaci, la presenza di un aiuto di bottega di più spiccata connotazione braman tiniana e luinesca, responsabile in gran parte del San Giovanni e forse, ma lo stato del dipinto non aiuta a chiarirsi le idee, del San Michele già van Marle. La mano di Zenale si distingue invece con evidenza nel San Pietro di Birmingham – nei riverberi della luce sull’invaso architettonico, nella leggerezza del manto giallo del santo, dalla posa estatica –, e in alcuni dettagli fragranti del San Sebastiano, per esempio nel panneggio del perizoma e nel particolare della freccia che penetra nel costato sollevando le carni rosee del santo, tutti caratteri che avvicinano il polittico in questione alla Circoncisione della PKB Privat Bank.
Si è visto come, trattando delle opere zenaliane posteriori al 1510-1515, spesso sia stato necessario invocare la presenza, accanto al maestro, di aiuti dalla personalità più o meno spiccata. È un tema, quello della bottega del trevigliese, che è stato posto in sede critica, sin dalla mostra Bernardo Zenale e Leonardo del 1982, da diversi studiosi e si profila con particolare insistenza nell’ultimo quindicennio di carriera del maestro, quando si assiste al moltiplicarsi di opere di forte connotazione zenaliana, ma non ascrivibili in toto al pittore, se non per l’invenzione e magari qualche dettaglio: penso, per citare ulteriori esempi, alla Madonna delle rose del Museo religioso di Oleggio o alla ‘Madonna Cusani’, affresco staccato dal monastero milanese domenicano delle Vetere e depositato dalla Pinacoteca di Brera presso il Museo della Scienza e della Tecnologia a Milano, o ancora alla Madonna con Bambino della Galleria Nazionale di Parma o al Sant’Alberto Carmelitano di Sant’Agata del Carmine a Bergamo; ma anche a un dipinto da cavalletto come la Madonna allattante Noseda della Pinacoteca braidense, che non ha mai convinto completamente gli studiosi della sua autografia.
L’emergere più fitto di collaboratori e apprendisti accanto al maestro a partire dal secondo decennio del Cinquecento non è certo casuale: in questi anni agli incarichi da pittore si affiancano per Bernardo Zenale quelli architettonici e giocoforza una articolata bottega deve aver affiancato l’in indaffaratissimo maestro nel disbrigo delle commissioni pittoriche.
Non è però semplice affrontare questo argomento, non solo per la carenza di studi sull’organizzazione delle botteghe dei pittori lombardi tra Quattro e Cinquecento. Accanto al problema della bottega di Bernardo Zenale, c’è infatti l’ulteriore questione delle società strette dall’anziano maestro con artisti affermati o in via di affermazione. È questo il caso, ben noto, di Bernardino Luini, che emerge nella decorazione della cappella di San Giuseppe un tempo in Santa Maria della Pace a Milano (Milano, Pinacoteca di Brera), ma anche negli affreschi del vestibolo della Certosa di Pavia, o in quelli – poco sopra menzionati – del monastero domenicano femmini le delle Vetere. Un altro caso è forse quello del giovanissimo Nicola Moietta, che andrà in futuro indagato con attenzione, tenendo presenti le importanti aperture di Francesco Frangi e Federico Cavalieri sul trittico di San Mattia alla Moneta (Milano, Pinacoteca Ambrosiana).
Al fianco di questi fenomeni, per così dire intrinseci all’ultima attività di Bernardo Zenale, si colloca nel secondo decennio del Cinquecento anche un rinnovato momento di fortuna della pittura del trevigliese, con l’affiorare di un seguito di epigoni: solo a titolo esemplificativo, ricordo l’affresco raffigurante la Madonna con Bambino, santi e il committente Nicolas de La Chesnaye nel la sacrestia bramantesca di Santa Maria delle Grazie a Milano.
Senza alcuna pretesa di completezza, vorrei soffermarmi in questa occasione brevemente solo sul problema della stretta bottega di Bernardo Zenale, effettuando una rinnovata analisi della pala Busti, un’opera entrata ormai da qualche anno, stante la documentazione pubblicata nel 2002, nel catalogo del maestro come un dipinto totalmente autografo, ma che in precedenza, a partire dalle aperture di Paola Astrua nel 1982, è stata attribuita – anche da chi non parteggiava più per l’iscrizione a Luini o a seguace di Luini – soprattutto a un collaboratore del maestro trevigliese, individuato da alcuni studiosi al lavoro anche nella tela di Oleggio.
Se ci avviciniamo – pur consci della documentazione d’archivio recentemente edita – alla ta vola braidense, siamo costretti, malgrado tutto, a notare alcune significative differenze tra la palla Busti e le opere di sicura ascrizione zenaliana prossime per cronologia, come la Circoncisione Lampugnani, a monte, e quella della PrivatBank PKB, a valle.
Soprattutto, analizzata con pazienza e nei dettagli, la pala braidense rivela al proprio interno sostanziali differenze tra le diver se parti, che saltano all’occhio evidenti se affianchiamo i panneggi rigonfi e densi di colore della Vergine e, in parte, del san Filippo con quelli setosi e rilasciati, in tutto luineschi, del san Giacomo; oppure, se confrontiamo i piedi dei due santi gemelli (quello di destra molto zenaliano, l’altro più sottile e senza corposità); o ancora, se osserviamo il disegno delle mani del san Giacomo, lunghe e senza nerbo, così lontane dalle mani vivaci ed espressive cui ci ha abituato la produzio ne autografa di Bernardo Zenale. Insomma, credo che nella pala Busti sia presente – accanto all’anziano maestro – una personalità che, pur mostrando una certa autonomia e una più marcata qualità luinesca e bramantiniana, agisce sotto l’attenta sorveglianza del capobottega: la individuiamo con maggior chiarezza nel san Giacomo, ma deve aver operato anche in altri punti, poi resi omogenei con interventi mirati.
Mi chiedo se non si debba alla sua presenza anche la qualità così smaccatamente luinesca di questo dipinto, particolarmente percepibile proprio nei due santi laterali e decisamente meno nella Madonna col Bambino, certo l’inserto più zenaliano dell’opera. Tutt’intorno alla pala Busti, che si pone come un esempio particolarmente rappresentativo del problema della bottega, perché è documentalmente pagata a Bernardo Zenale, si collocano anche gli affreschi e le tavole poco sopra ricordati, da tempo gravitanti in sede critica intorno al nome dell’artista trevigliese.
Per questa congiuntura, tutta calata negli anni dieci del Cinquecento, andrà tenuta in seria considerazione la presenza accanto al maestro di Gerolamo Zenale, il figlio dell’artista avviato alla carriera pittorica proprio sul finire del primo decennio del XVI secolo: nel 1509-1510 è probabilmente coinvolto nel cantiere della cappella di Sant’Ambrogio della Vittoria in San Francesco Grande, dal quale proviene la pala oggi al Denver Museum of Art e che prevedeva anche un ciclo di affreschi; nel 1511 sottoscrive la ricordata protestare a favore di Bernardo Zenale e Bramantino; è poi attivo nel cantiere di San Celso accanto al padre, che sostituisce spesso in delicati affari di tipo economico; morirà di peste sul finire del 1520 e a lui, stando a Lomazzo, Zenale dedicherà nel 1524 un suo perduto trattato di prospettiva.
Malgrado siano di sicuro stimolo i recenti tentativi di individuare – nelle opere tarde di Bernardo Zenale – i tratti della personalità del figlio Gerolamo, credo sia necessario per ora fermarsi ad una presa di coscienza del problema, cercando di recuperare ulteriori puntelli documentari, cronologici e stilistici utili a seriare e distinguere i diversi interventi.
September 3, 2024