Arredare l’arte: Isabella Stewart Gardner, Katherine Sofie Dreier, Colette Allendy, Hester Diamond
Contro l’idea che l’arte debba ridursi a complemento d’arredo, ecco una selezione di collezionisti che hanno fatto della propria raccolta una questione identitaria.
Abbinare un quadro a un divano non si fa. Anzi, una dichiarazione del genere equivale a un’eterna damnatio memoriae senza possibilità di riabilitazione. Perlomeno alle orecchie di chi, puritano per credo modernista sulla scia di Freud secondo cui l’uomo pensante è per antonomasia eretto e non seduto, ritiene che l’arte sia sacra i sé e in quanto tale inadatta a calarsi nell’ordinaria banalità delle nostre esistenze (1). Cuore, cervello e lombi dell’osservatore, meglio tenerli distinti. D’altro canto, questo è un requisito della cultura consumistica che richiede soggetti e corpi in azione e in transito. Come dire, un mecenate assiso non promette grandi elargizioni e allora al bando poltrone e chaise longue (2). Figuriamoci poi contestualizzare l’arte, riducendola così a mero complemento d’arredo che, sempre nell’ottica di quel rigore sotto naftalina, ne comprometterebbe il messaggio. Eppure, quadri e sculture potrebbero un giorno fare il loro ingresso in una dimensione che, con la galleria o il museo, ossia i silenziosi santuari deputati per eccellenza a farne bella mostra, non ha nulla a che vedere perché diversi sono i meccanismi di visibilità e i protocolli che distinguono la sfera pubblica da quella del privato.
Cosa succede quando le opere d’arte entrano in casa? Viceversa, è lecito che l’arredamento alloggi in un museo o in una galleria? La giornalista Holly Peterson, intervistata nel documentario “The Price of Everything” (2018), descrive l’atteggiamento insicuro e nevrotico di alcuni collezionisti che, nel medesimo edificio newyorkese di Park Avenue, al sesto, ottavo e decimo piano, “possiedono gli stessi quadri e gli stessi artisti appesi sulle stesse pareti”. Immaginiamo quindi, un po’ come nel romanzo di George Perec “La vita, istruzioni per l’uso”, di scoperchiare la facciata di un palazzo e di trovarci di fronte a una casa di bambole dove ogni stanza è uguale all’altra. Mais, qu’horreur! Il modo peggiore per godersi un’opera d’arte. D’altra parte, come correttamente nota Amy Cappellazzo, socio fondatore di Art Intelligence Global, esistono tre tipi di collezionisti “quelli che vedono, quelli che vedono quando viene loro mostrato e quelli che non vedono”. Ma passiamo oltre, non curiamoci di questi ultimi se non auspicando una loro parziale redenzione e consideriamo il caso di chi non solo ha dimostrato di avere occhio ma ha attuato, in modo più o meno temerario, una visione complessiva e provocatoria, che incorporasse opere d’arte da un lato e loro ambientazione dall’altro, al di là di frusti e intransigenti diktat predicati spesso da chi dell’arte conosce il prezzo o poco più. Di esempi la storia ne offre davvero molti.
A Boston, al volgere del secolo scorso, Isabella Stewart Gardner, fece edificare Fenway Court, un palazzo di gusto italiano, destinato alla sua incredibile collezione. Isabella, amica di Berenson, esordì acquisendo nientemeno che i manoscritti originali di Dante Alighieri. Trascorreva le giornate creando libere associazioni tra i suoi gingilli museali, rivestendo ora il ruolo di collezionista, ora quello di curatrice e arredatrice, senza ricorrere a consulenti d’arte e d’interni, chissà poi fino a che punto davvero informati e affidabili ma oggi vanno per la maggiore, se non fosse che poi il cliente si dimentica il nome di chi ha dipinto il quadro sopra il catafalco king-size. Isabella fece affidamento solo sul suo istinto e dimostrò che le opere esposte con gusto e personalità, possono toccare anche i sensi oltre all’intelletto.
E’ il caso di Europa dipinta da Tiziano di cui la mecenate attese trepidante la consegna, come scrisse all’amico (3), mentre la tela attraversava l’Atlantico e che venne appesa in una stanza interamente foderata di seta rossa bordata di pizzo bianco, retaggio della precedente dimora; sotto il quadro, un inserto di tessuto ricavato da un abito di Worth, è un’allusione alla proprietaria, quasi Isabella creasse un ponte diretto tra sé e il soggetto del quadro; il motivo ricamato riprende le corna di Zeus sotto forma di toro mentre le gambe della poltroncina cabriolet appoggiata alla parete, sottolineano le voluttuose curve della donna rapita. L’intensità, o meglio la focosità del racconto di Ovidio, viene così amplificata, il mito si sovrappone e si intreccia con la personalità della fortunata proprietaria.
Dopo di lei, ecco Katherine Sofie Dreier che adorava i quadri di Wassily Kandisnky e amava Marcel Duchamp. Nel 1926 organizzò la prima esposizione di arte moderna, la International Exhibition of Modern Art. L’obiettivo era persuadere il pubblico che questa non cozzava con la vita domestica e così allestì la mostra al Brooklyn Museum come se fosse una casa fornita di salotto, sala da pranzo e camera da letto che avrebbe consentito al visitatore di “interiorizzare” l’esperienza artistica.
Finché arrivò Alfred Barr, primo direttore del Museum of Modern Art, che, sulle orme di Henrich Tessenow, uno degli architetti di Hitler, e di Alexander Dorner, colui che impose di appendere i quadri ad altezza occhio, fece da apripista a contesti museali neutralizzati e a gallerie intonacate di bianco, severe e imparziali, più sfornite che arredate, come ricorda la gallerista Betty Parson che affermò “in galleria, non c’era nulla, fatta eccezione per una sedia o una panca” (4).
Controtendenza, seppur non rinunciando a un certo calvinismo, fu il mercante Leo Castelli, che trasformò nel 1957 il proprio appartamento di Manhattan in galleria, e ospitò le prime mostre di Jasper Johns e Robert Rauschenberg. “Ci vivevamo. C’era un cucinotto nell’ingresso che tenevamo sempre chiuso. Altre due stanze nel retro, in una stavo io, nell’altra Ileana (Sonnabend) senza salotto, sala da pranzo, nient’altro. Era adatto per la prima colazione, lo stile di vita che conducevamo era decisamente bohémien” (5). Figure ibride di intellettuali, collezionisti e mercanti, capaci di calamitare a sé, se non addirittura creare, movimenti artistici e di piantare pilastri nella storia dell’arte e del mercato.
Oltreoceano, in Francia, Colette Allendy, soprannominata bonne dame da Pierre Restany, era la proprietaria di un hôtel particulier al 67 di rue de l’Assomption che divenne il crocevia prediletto dagli astrattisti verso la fine degli anni Cinquanta: tra tavolini, sedie e caminetti, esposero Picabia, Hartung e Tapié (6) e, sempre a Parigi, ma negli anni Settanta, incontriamo Ghislain Mollet-Viéville, il promotore dell’arte Concettuale e Minimale. Caso curioso quello di Mollet-Viéville che si autoproclamava agente d’arte ed era al tempo stesso produttore, curatore e cliente delle opere esposte. L’appartamento, non distante dal Pompidou allora in costruzione, prevedeva di essere modificato sulla base dei lavori proposti, sfumando i confini tra produzione, spettacolo e ricezione; un luogo votato allo scambio privato tra opera d’arte e osservatore che, occasionalmente, fungeva anche da studio fotografico per servizi di moda (7). Oggi, l’appartamento e il suo contenuto con opere di Carl Andre, Sol Lewitt, On Kawara e via di questo passo, sono stati ceduti in blocco al Museo di arte moderna di Ginevra, con la clausola che l’interno sia ciclicamente rinnovato. In un articolo apparso di recente sul New York Times, Kin Woo sostiene che, all’inizio del XX secolo, con il diffondersi dell’arte astratta, il mondo dell’arte abbia progressivamente privilegiato ambienti spogli, spersonalizzati, per meglio elevare le opere estrapolandole dal vissuto ma che oggi, una nuova generazione di galleristi specializzati in arte o design d’interni come Michael Bargo, Jonathan Pessin, Florence Lopez e Tiwa Select, sulla scia dei pionieri di cui sopra, optino sempre più spesso per soluzioni domestiche.
Tra le cagioni, gli affitti stellari, ma emerge anche il desiderio accogliere i clienti in contesti famigliari “che creino una prossimità più personale con i collezionisti” come dichiara Emanuela Campoli, il cui appartamento in Foro Bonaparte a Milano ha ospitato per sei mesi la mostra di Laëtitia Badaut-Haussman, invitata a reinventare lo spazio, accanto a lavori di Cinzia Ruggeri ed Emily Sundblad. Ecco allora che lo scenario viene a comporsi di case che filtrano nei musei, case che diventano musei e appartamenti convertiti in gallerie in un adirivieni dinamico che abbatte rigide separazioni tra spazi in precedenza categoricamente definiti. Certo, esistono diversi approcci ma il gioco diventa più interessante quando il direttore, il mercante e il collezionista danno libero sfogo al proprio estro.
E all’apice di un’estrosità magistralmente condotta, chiudiamo la rassegna con la leggendaria Hester Diamond. La simpatica e arzilla mamma di Mike D, ex Beastie Boys, è scomparsa qualche anno fa e la sua impressionante collezione che includeva una scultura di Bernini e dipinti di Dosso Dossi, è stata battuta all’asta da Sotheby’s. Ma al di là dell’impeccabile criterio selettivo della Diamond, quello che ci preme sottolineare qui è la portata estetica della sua sperimentazione domestica. Con una drastica inversione di rotta, decise di liberarsi della collezione di arte moderna che includeva Brancusi e Léger, solo per citarne un paio, e di avvicinarsi ai grandi maestri del rinascimento italiano e fiammingo, con incursioni nel barocco. Ma anziché optare per accostamenti filologici sulle orme degli anglofiorentini di qualche decade prima come Herbert Percy Horne, Mason Perkins e lo stesso Berenson di Villa I Tatti, l’energica signora scelse una palette cromatica audace e cacofonica di gialli azzurri e rosa, esasperata da complementi d’arredo postmoderni firmati Philippe Starck, Patricia Urquiola e Costantin Grcic. In questo modo la Diamond, non solo diede espressione alla sua vena creativa ma dimostrò che dipinti e sculture realizzati secoli fa potevano benissimo convivere con un arredamento iper contemporaneo e anzi, creare inaspettate e sorprendenti narrative. “Il difetto di originalità dappertutto” notava Dostoevskij scrivendo L’idiota, “(…) fu sempre considerato come il primo requisito e la migliore raccomandazione dell’uomo attivo, fattivo e pratico, e almeno il novantanove per cento degli uomini (questo proprio come minimo) sono sempre stati di quest’avviso, e forse solo l’uno per cento l’ha pensata e la pensa altrimenti”. D’arte e d’interni, meglio pensarla altrimenti.
1. Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, Universale Economica Feltrinelli, capitolo IV, 2021
2. Johanna Burton, Lynne Cooke e Josiah McElheny, Interiors, Sternberg Press, 2012, p. 14 e p. 75
3. Bernard Berenson, The Letters of Bernard Berenson and Isabella Stewart Gardner 1887-1924, ed. Rollin van N. Hadley, 1987, p. 64
4. Richard Meyer, Big Middle-Class Modernism, October, n. 131 (Inverno 2010), p. 69-115; Laura de Coppet e Alan Jones, The Art Dealers: The Powers behind the Scene Tell How the Art World Really Works, C. N. Porter, 1984, p. 23 Bernard Berenson, The Letters of Bernard Berenson and Isabella Stewart Gardner 1887-1924, ed. Rollin van N. Hadley, 1987, p. 64
5. Leo Castelli intervistato da Paul Cummings, 14 Maggio, 1969-8 Giugno, 1973, Archives of American Art, Smithsonian Institute
6. Michel Seuphor, Chez Colette Allendy in Art d’Aujourd’hui 2, no. 7, Luglio 1951, p. 34
7. Elisabeth Lebovici, Ghislain Mollet-Vieville, des corps dans le décor, Public, no. 3, 1985, p. 41
8. Fëdor Dostoevskij, L’idiota, ET Classici, 2014, p. 322
December 19, 2024