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Zeitz MOCAA: nel mezzo del caos c’è un’opportunità

Zihan Herr

È ormai passato un anno dall’apertura dello Zeitz MOCAA. Siamo stati a visitarlo. Queste le impressioni che abbiamo avuto sulla collezione, da una prospettiva keniota.

Cyrus Kabiru, Macho Nne, Vatican Mask 2015.

Nonostante le emozioni contrastanti che attraversano lo Zeitz Museum of Contemporary Art Africa (MOCAA), Lightening Bird: Iimpundulu Zonke Ziyandilandela (2011), ultima personale dell’artista Sud Africano Nicholas Hlobo, seduce i visitatori per le sue dimensioni notevoli e l’imponente presenza, convincendoli a visitarla.

La creatura immaginaria che ispirandosi al mito di Xhosa Hlobo ha partorito per la 54sima Biennale di Venezia si libra in volo dal soffitto vitreo. Come la leggenda vuole che la creatura appaia a tratti bestia alata e a tratti bellissimo uomo, cosi anche lo Zeitz MOCAA può generare impressioni contrastanti, a secondo dell’angolazione da cui uno lo osserva. Da un punto di vista architettonico, la trasformazione di una struttura nata come impianto di conservazione del grano in un museo è stata senz’altro una atto maestoso. Ma cosa dire, invece, dell’arte appesa alle pareti?

Per un appassionato vedere in carne e ossa un pezzo di El Anatsui può addirittura rappresentare un’esperienza catartica. L’arazzo tessuto con tappi di bottiglia e intitolato Dissolving continents (2017) risplende da un’enorme parete, evocando nell’osservatore una serie di emozioni che variano dall’orgoglio, all’ammirazione (per la sua bellezza), al gusto di condividerne il significato, che induce a riflettere sull’importanza, o non importanza, dei confini. Similmente, la video installazione di William Kentridge – More sweetly play the dance (2015) -, la cui sostanza è fatta di musica ballabile e immagini eccentriche, ti coinvolge in un’indagine sulla storia delle processioni e su quell’ istinto che da sempre spinge gli uomini ad aggregarsi. Le opere nello Zeitz MOCAA ti fanno pensare, e ancora pensare.

Ma dopo l’euforia iniziale, e dopo la sensazione di privilegio che si può avvertire nel vedere dal vivo un collage di Njideka Akunyili Crosby come Sunday morning (Predecessors #3) del 2014, ti cominci a chiedere come mai il museo abbia scelto proprio questo lavoro e non un altro. Se conosci Akunyili Crosby sei stato rapito da quell’intimo contatto interculturale che l’artista di origine nigeriana riesce a trasmettere. Nigeriana, ma attiva negli Stati Uniti, Njideka Akunyili Crosby scava a fondo nella sua esperienza personale per comprendere meglio le varie sfumature dell’identità della diaspora africana. I suoi collage non sono soltanto attraenti; riescono a convincerti.

Sunday Morning, in mostra nella Galleria Permanente, racconta un’atmosfera familiare. Il ritratto alla parete sulla quale è addossato il divano rappresenta infatti Njideka Akunyili Crosby tra la sorella e la madre defunta, che, forse vale la pena di ricordare, è stata un figura politica di spicco in Nigeria. Lo sguardo dell’osservatore rimbalza tra la foto di famiglia e l’attrezzatura che si trova sul tavolo, che è poi quella della cucina della nonna dell’artista. Sunday morning è parte di una serie dedicata all’eredità e alla storia familiare (Predecessor), e si focalizza sulla generazione precedente a quella a cui appartiene l’artista. L’opera parla perciò dei genitori di Akunyili Crosby e di come, in Nigeria, siano vissuti a cavallo fra città e campagna, un po’ come oggi l’artista, che vive fra il suo paese di origine e gli States.

Sunday Morning non è solo un quadro sentimentale; è senza dubbio un pezzo significativo anche nel contesto più ampio delle opere di Akunyili Crosby. È un collage straordinario creato utilizzando una rara combinazione di photo transfer, carboncino, pastello e pittura. Ciò nonostante gli ammiratori di Akunyili Crosby allo Zeitz MOCAA potrebbero lasciare il museo insoddisfatti. Esiste un potenziale per desiderare qualcosa di più; Per esempio, qualcuno potrebbe volere un’immagine, magari provocatoria, che rappresenti i parametri culturali dei soggetti che l’artista ha deciso di esplorare. Ma a questo punto iniziano a emergere questioni più profonde. Il collage è rappresentativo dei concetti che Akunyili Crosby analizza? Può esserlo? Qual è stato il dibattito all’interno del comitato di acquisizione? Un solo dipinto di Njideka Akunyili Crosby è sufficiente in un museo di questo tipo? Improvvisamente si diventa consapevoli delle responsabilità che lo Zeitz ha e delle considerazioni che dovrebbe avere nel scegliere ilavori da esporre.

Ma quello riguardo a Njideka Akunyili Crosby è solo uno dei tanti sentimenti inquietanti che emergono visitando la Galleria Permanente dello Zeitz MOCAA. Sono molte le domande che i visitatori, forse intimiditi, non avranno coraggio di chiedere. Più probabile, invece, che i loro dubbi prendano il volto dell’autocritica: ‘Forse non ne so abbastanza di arte africana contemporanea…” Capisci intuitivamente che qualcosa qui non va. La lunga lista di artisti Americani sarebbe solo una delle cose su cui prendersi un momento per riflettere e contestualizzare. E quando lo fai inizi anche a chiederti se le scelte sono state fatte nell’interesse di creare un museo responsabile, in grado di canonizzare e riflettere l’arte Africana contemporanea, oppure se la Galleria Permanente allo Zeitz MOCAA non è piuttosto una raffinata collezione personale presentata sotto pseudonimo.

Le nostre risposte avrebbe potuto morire qui se il comitato di acquisizione ci avesse messo a parte delle motivazioni dietro le sue scelte. Questo comitato, di solito, comprende una costellazione di curatori, manager di collezioni, critici, storici dell’arte, collezionisti, e altri intellettuali. Molte figure dovrebbero contribuire al processo decisionale e alla crescita di un’istituzione museale di questo tipo. Invece, ci si scontra con un muro di mattoni quanto si scopre che l’ex Capo Curatore e Direttore Esecutivo, Mark Coetzee – che, oltretutto, si è dimesso all’inizio di quest’anno dopo le scomode accuse mosse alla sua condotta professionale -, è stato di fatto l’unico responsabile della scelta delle opere.

Essendo Coetzee il solo a sventolare la bacchetta magica, ci sono conseguenze che fanno riflettere. I lavori e gli artisti selezionati per l’apertura non sono quindi passati al vaglio di un comitato di esperti, che avrebbe certamente dato priorità alla pluralità. Ciò assume un significato ancora più profondo in un paese già segnato dalla segregazione razziale. Avere un solo marinaio che porta la grande nave va contro gli standard della pratica museale, oltre che il buon senso. Non è possibile affidare a una sola persona il compito di determinare la nozione di ‘arte africana contemporanea’. L’individuo che intraprende questa impresa colpirà nel segno una volta, ma molto probabilmente mancherà la successiva. E il risultato porta danni. Prendiamo, per esempio, il caso dell’arte keniota. Infatti, se è chiaro perché sia stata scelta la video istallazione di Wangechi Mutu (The End of Carrying All, 2015); altrettanto non si può dire per quanto riguarda la scelta delle Macho Nne series (1-25) di Cyrus Kabiru. Mentre quella di Mutu è un’analisi psicologica che interroga gli effetti del capitalismo, Kabiru porta semplicemente con sé uno spettacolo visivo.

Wangechi Mutu è nata a Nairobi, in Kenya, ma vive e lavora a New York, dove negli ultimi vent’anni ha prodotto un imponente corpus di lavori. Conosciuta e acclamata a livello internazionale, l’artista è impegnata nelle discussioni riguardo il corpo femminile, la costruzione della sessualità, il colonialismo, il concetto di identità. Dipinti, collages, sculture, performance e video sono stati esposti nei più importanti musei di tutto il mondo, dal Brooklyn Museum, al Guggenheim di Berlino, alla Biennale di Venezia (ovviamente quella curata da Okwui Enwezor). Mutu è un’artista rispettata in tutto il mondo, che esplora concetti importanti e produce opere d’arte di grande profondità. È solo frutto del buonsenso se il suo lavoro è di casa in quasi tutti i musei d’arte contemporanea africana.

La video installazione di Mutu allo Zeitz MOCAA, The End of Carrying All (2015), occupa tre grandi schermi. Il significato del lavoro è diretto. Fa riflettere sulle difficoltà che il genere femminile deve affrontare, la resilienza dell’individuo, i corollari del capitalismo, gli effetti disumanizzanti della globalizzazione. Una spettacolare montagna che si staglia su un un cielo rosa, erba alta e alberi di palma creano il suo sfondo africano. Una donna trasporta un cesto sulla testa contenente i suoi unici averi, cioè quasi nulla. Lungo la salita gli oggetti nel cesto diventano via via più pesanti e più evidenti. Riconosciamo una ruota di bicicletta, un satellite, un condominio. La donna inizia a piegarsi sotto questo peso, che la porta sempre più in basso; è stremata dalla fatica eppure continua ad avanzare, e lotta contro uccelli, cavallette e fenicotteri. Tanto gli oggetti si ingrossano, quanto diventano ingombranti. La notte scende, e la donna si sforza di mantenere in equilibrio il suo carico, di tenerlo insieme, improvvisamente viene trasformata dal suo stesso dolore. La donna diventa così una massa informe che si contorce e che alla fine la terra ingerisce in un estremo epilogo.

L’opera di Mutu è struggente e meravigliosa allo stesso tempo. È un viaggio emotivo che rivela ciò che difficoltà, angosce, rifiuti e trasferimenti forzati ci portano a essere. Sentiamo anche noi il peso del mondo sulle nostre spalle, e talvolta cadiamo sotto il suo peso. Il film di Mutu è cosi potente che non hai bisogno di chiederti perché si trovi li. Anzi, ti porta a prendere in considerazione la possibilità che il consumismo si stia avvicinando a una fine apocalittica.

Nella parte opposta della stanza, c’è un’altra installazione di Mutu – Poems by my great grandmother (Root Skull) del 2017 – , che ruota lentamente sotto un riflettore. Fatta con radici e corna animali, l’opera ha in sé qualcosa di wudù e teatrale, e ricorda un teschio di mucca. Insieme a una pentola di alluminio – una pentola familiare a tutti i kenioti –, il pezzo rievoca la saggezza del passato. Entrambi i lavoro di Mutu esposti nella Galleria Permanente sono in prestito dall’artista e dalla galleria Victoria Miro.

Poi, si diceva, c’è Cyrus Kabiru, che ha partecipato al programma di Residenza d’Artista dello Zeitz MOCAA nel Maggio 2018. Nella lista degli artisti all’ingresso della Galleria Permanente il suo nome è l’unico dove il paese di provenienza dell’artista (il Kenya, appunto) non è menzionato. Ma nonostante la svista Kabiru ha un’intera stanza a lui dedicata. Ci sono grandi fotografie che lo ritraggono mentre sfoggia i suoi famosi occhiali da sole. L’allestimento mette in risalto la vivace immaginazione di Kabiru e la sua abilità nel combinare materiali di recupero per ottenere effetti di intensa drammaticità.

Kabiru ha preso parte alla sezione ‘The Young, The Gifted, The Undiscovered’ di TED, negli Stati Uniti. Il suo lavoro è stato presentato in istituzioni celebri, dalla SMAC Gallery di Johannesburg e Città del Capo allo Studio Museum di Harlem, al Guggenheim Museum a Bilbao (come parte di una mostra in tre tappe intitolata Making Africa – A Continent of Contemporary Design). Di certo il lavoro di Kabiru ha un posto sulla scena dell’arte contemporanea Africana, ma non si può dire quale sarà il suo impatto. Non tutte le opere d’arte devono essere politiche o rivoluzionarie, e ci sono senza dubbio aspetti stimolanti nel lavoro di Kabiru. Ma le due figure che dovrebbero rappresentare il Kenya sono poli troppo distanti tra loro, e non c’è nessuno che riempa il vuoto che rimane in mezzo.

Per esempio, Shabu Mwangi, pure lui keniota, usa la pittura per esplorare il problema dell’apolidia e di come ci si senta nel trovarsi in un luogo che non riconosce la tua umanità. Oppure, ci sarebbero le figure amorfe di Beatrice Wanjiku, che investigano invece mortalità, perdita e crisi nella condizione umana. Michael Soi mette allo specchio il clima politico e sociale del Kenya, focalizzandosi sulla presenza cinese in Africa. E la lista di artisti kenioti che producono lavori convincenti potrebbe continuare. Oltre a Wangechi Mutu, per ciò che nel riflettere una pluralità c’è di buono, sarebbe stato importante considerare altri artisti del Kenya, e magari sarebbe stato bene scegliere tra loro quello più impegnati nei tanti discorsi critici che oggi riguardano l’Africa, e che implorano attenzione.

Spostando l’attenzione sull’arte del Sud Africa, poi, anche un non esperto è in grado di cogliere lo schema che persegue la Galleria Permanente dello Zeitz MOCAA. Ma è poco chiaro se questo schema sia nato per riflettere le posizioni che realmente hanno un impatto sull’arte sudafricana o, piuttosto, non sia invece solo l’effetto dei gusti dell’ex capo curatore del museo. Le fotografie di Athi-Patra Ruga e Thania Petersen sono definite da una scarica di colore luminoso e da combinazione piuttosto singolare di elementi naturali e non. Dai collant rosa fluorescenti indossati dalla figura ricoperta di palloncini colorati nella serie di Ruga intitolata The Knight of the Long Knives, per arrivare ai rumorosi uccelli rosa di Petersen in Flamingo (2017), ci si chiede se la scelta di quelle palette cromatiche, cariche di rosa e rosso, sia davvero funzionale. Entrambi gli artisti giustappongono il naturale, l’antico e l’Africano, con il nuovo, l’inorganico e l’Occidentale. Che si tratti della zebra triste di Ruga, catturata in un mondo folle, o delle belle ragazze di Peterson, ossessionate dai selfie, in posa senza pudore e vestite di abiti alla moda, le composizione possono sembrare chiassose e sgradevoli. Ma, va detto, sono rivestite di molte sfaccettature, e qualcuno certo potrà avere verso di loro sentimenti diversi dai nostri.

C’è una moda passeggera alla Galleria Permanente, fatta di colori intensi e figure vanagloriose. La sua influenza ti spinge in un mondo che è superficie. Se si considera Cape Town e la nuova onda del consumismo, gonfiata dal glamour della cultura del lusso, vien da pensare che sia proprio questo il contesto in cui si sviluppano le opere di artisti come Ruga e Petersen, artisti che hanno sapientemente catturato il sentimento di trovarsi intrappolati fra il nuovo e il vecchio. Il loro lavoro sembra soprattutto efficacie nell’interrogarsi su quale sia il posto di ciascuno in questo mondo spaventoso: da dove veniamo, noi, in questo momento? Anche Frances Goodman affronta il tema della finzione, e lo fa attraverso l’opera Ophiophillia (2014), un’accattivante installazione che rappresenta un covo di serpenti raggomitolati, che hanno unghie di acrilico al posto delle squame. Goodman guarda direttamente l’industria cosmetica, l’oggettivazione delle donne e gli standard impossibili di bellezza che il marketing propone. Insieme questi artisti enfatizzano la bellezza superficiale e l’apparenza alterata, e sebbene questo fatto possa aver parlato al lato fashionista di Coetzee, le loro pratiche riflettono certe trasformazioni assai reali, ma provvisorie, che stanno accadendo nelle città metropolitane del Sud Africa.

Pur con tutte le tendenze e le parzialità che circondano le opere nella Galleria Permanente, lo Zeitz MOCAA occupa una struttura straordinaria – trasformata dallo Studio Heatherwick. All’interno dei suoi muri, mossi ma resistenti, ci sono molte opere che portano a considerare e riconsiderare le proprie convinzioni. A questo punto va detto che aiuta poter fare fotografie e, per tutti i cittadini Africani, ogni mercoledì l’entrata al museo è gratuita. I visitatori possono aspettarsi quindi di vivere un ampio spettro di emozioni che vanno dall’entusiasmo allo sgomento. Ma per coloro che sanno dove si trovano, va detto che lo Zeitz MOCAA presenta la rara, almeno per ora, opportunità di incontrare di personalità artisti come Kehinde Wiley, Chris Ofili, o Cheri Samba.

Invece, per tutto ciò che di incerto ora avvolge il museo – incluso il nuovo board curatoriale –, una cosa è sicura. Lo Zeitz MOCAA ha senza dubbio attivato una discussione riguardo a come l’arte contemporanea Africana venga rappresentata, e il miglior consiglio che si può dare ai visitatori è quello di seguire il titolo della scultura-installazione a grandezza naturale di Mary Sibande: In the midst of the chaos there is opportunity (nel mezzo del caos sta un’opportunità, ndt).

June 22, 2021