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Artist-run space d’Europa

Piero Bisello & Stefano Pirovano

Lista ragionata dei migliori artist-run-space europei, che siamo andati a cercare nel fertile interstizio tra istituzioni e mercato.

Si è scritto molto sugli artist-run-space, iniziative già presenti nell’Ottocento – si pensi Padiglione del Realismo di Courbet – poi filtrate nel secolo successivo – si pensi ai progetti artistici politicamente impegnati degli anni ’70, come la A.I.R. Gallery di New York – e approdate, come vedremo, al nuovo millennio. Intrappolati tra arte istituzionale e mercato, gli artisti vogliono ancora (giustamente) prendere in mano la situazione, creando quello che Lotte van Geijn chiama “il terriccio del mondo dell’arte”; oppure, invertendo la metafora, ponendo le radice su cui l’intera infrastruttura espositiva dell’arte contemporanea ancora si erge: cioè l’opportunità di mostrare opere libere dagli obblighi del mercato e svincolate dalla propaganda del sistema.

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Courbet’s Pavilion of Realism, 1855.

Ma come ogni giardiniere vi dirà, se le radici sono malate la pianta soffre. La conoscenza degli spazi gestiti dagli artisti diventa quindi fondamentale per capire cosa sta succedendo nella giungla che germina sopra di loro. Oltretutto, le ricerche sugli spazi gestiti dagli artisti sono un po’ come i sismometri: devono funzionare regolarmente, e vanno costantemente tenuti d’occhio. Quello che state leggendo vuole perciò essere uno sguardo alla linea tracciata dall’ago sulla carta millimetrata.

La nostra lista ha seguito alcuni criteri. A condizione di attenersi agli spazi europei, e accettando il fatto che una contestualizzazione perfetta non è mai possibile, abbiamo cercato di coprire contesti e progetti diversi. Dalle città più grandi a quelle più piccole, dai progetti più vecchi a quelli nuovissimi, dai centri alle periferie, abbiamo provato a comporre il paesaggio attuale, verificandolo attraverso le testimonianze di chi lo sta popolando. Abbiamo inviato alcune domande e ottenuto alcune risposte. Quello che segue è dunque il loro collage, organizzato per dare un’idea dei desideri degli artisti e delle loro visioni, ovvero un’istantanea dei modi in cui l’arte può essere mostrata, nell’interstizio che esiste tra istituzione e mercato.

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Cory John Scozzari gestisce Cordova dal 2016. Dalla sua primo spazio, in prossimità del centro di Barcellona, il progetto è migrato all’interno di una grande navata industriale della Zona Franca. Scozzari attualmente sta lavorando con un gruppo di artisti per creare un centro d’arte multidisciplinare che ospiterà Cordova e varie altre piattaforme. Nato negli Stati Uniti, Scozzari ha vissuto per un certo periodo a Londra, dove ha co-fondato un altro artist-run-space, Jupiter Woods, per poi continuare la sua attività a Vienna, dove ha accettato un lavoro istituzionale. Lo stipendio qui percepito gli ha permesso di gestire il programma nel proprio appartamento. Al momento Scozzari sta raccogliendo fondi da enti governativi locali e internazionali e da fondazioni private, e sta avviando una campagna di membership, oltre a una sezione editoriale.

Dedicato sopratutto alle mostre personali, Cordova ha un programma internazionale (lo spazio ha ospitato artisti locali solo in un paio di casi). Scozzari ci ha raccontato che gli artist-run-space a Barcellona si concentrano soprattutto sulla scena locale. Vede quindi il suo ruolo come un’occasione per colmare un vuoto. Allo stesso tempo, Scozzari è consapevole che invitare solo artisti provenienti da paesi ricchi, che possono perciò sostenere i propri artisti – pensiamo all’Olanda, alla Svizzera o alla Scandinavia – potrebbe portare a problemi nella sfera dell’inclusione. Essendo Scozzari stato a Vienna, dove ha lavorato come assistente curatore all’interno di un’istituzione, sorprende sentirgli dire che una delle ragioni che l’hanno spinto a insistere con il proprio progetto era quella di non dover giustificare ogni singola decisione, cioè proprio quello che invece il lavoro istituzionale normalmente richiede.

Pina è stata fondata a Vienna tre anni fa da Bruno Mokross e Edin Zenun. Ci hanno detto che una delle ragioni che li ha spinti ad aprire uno spazio è stata quella di rispondere alla mancanza di luoghi espositivi per i loro amici. Hanno quindi deciso di prendere in mano la situazione, e da allora hanno lavorato per colmare questa lacuna. Mokross e Zenun sono anche tra i promotori, nella capitale austriaca, di un indice di off-spaces che, in un certo senso, ha sindacalizzato il settore, in risposta all’insediamento dell’attuale governo e al timore di tagli ai finanziamenti per la cultura – visto che Pina, come diversi altri artist-run-space a Vienna, è finanziata con fondi pubblici.

Mokross e Zenun sono parte di una generazione che, a Vienna, ha avviato molti progetti. Si pensi, per esempio, a Kevin Space; si tratta di una sorta di movimento culturale che comprende anche gallerie commerciali come Gianni Manhattan, Sophie Tappeiner, Felix Gaudlitz, o Exile. Rispetto a una città come Bruxelles, caratterizzata da forti confini tra artisti, istituzioni, gallerie, e comunità, quello che si capisce dall’esperienza di Pina è che Vienna potrebbe essere più fluida in termini di pubblico, e le collaborazioni potrebbero essere ancora più ampie.

Simian è un artist-run-space fondato nel 2020 a Copenaghen da Christian Vindelev, Jan S. Hansen, Toke Flyvholm e Markus von Platen. Ma a differenza della maggior parte degli artist-run-space, che per motivi economici tendono a essere di piccole dimensioni, Simian ha sale che assomigliano a quelle delle grandi istituzioni o delle gallerie bluechip. Situato in una parte della città di recente costruzione, popolata da piccoli condomini, uffici e dal più grande centro commerciale di tutta la Scandinavia, Simian si trova sotto un lago artificiale in mezzo a complessi architettonici dall’aspetto corporativo. I fondatori ci hanno detto che l’opportunità di utilizzare questo spazio, rimasto vuoto per molto tempo, ha guidato la loro scelta di avviare il progetto. Lo spazio era troppo bello per non pensare di andarci. Le idee sono venute dopo.

Lo stesso quartiere di Ørestad ha un ruolo per Simian, che nella mente dei suoi fondatori dovrebbe attivare questa periferia aziendale altrimenti dormiente: gentrificazione inversa. Interessante è anche il modo in cui i fondatori di Simian vedono il rapporto tra le loro pratiche artistiche individuali e il ruolo di promotori del progetto. Le due dimensioni potrebbero finire per impollinarsi tra loro. L’artist-run-space potrebbe a un certo punto diventare una sorta di lavoro, considerando che è adeguatamente finanziato con sussidi strutturali danesi e con finanziamenti privati. Come molti artisti sopravvivono grazie ai lavori non artistici, così Vindelev, Hansen, Flyvholm e von Platen sembrano averne creato uno proprio, che certamente avrà anche il vantaggio di rispondere alla loro visione e alle loro esigenze artistiche.

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Installation view of Some of the Hole at Simian Copenhagen, 2020. Photo by GRAYSC.

MMXX è il progetto di Daniele Milvio [qui il link alla mostra che gli abbiamo dedicato qualche mese fa. Ndr] ed Emanuele Marcuccio, ovvero uno spazio espositivo allestito presso il loro studio di Milano. MMXX ospita mostre di personalità oggi poco o per nulla riconosciute, soprattutto del XX secolo. Milvio ci ha detto che la loro selezione segue sopratutto logiche di affinità e fattibilità. In effetti, l’interesse per l’arte europea non riconosciuta del XX secolo sembra essere un’identità curatoriale fin troppo precisa per un artist-run-space. Ma Milvio ci ha anche detto che l’idea nasce da opportunità e conoscenze specifiche all’interno del settore, e non c’è garanzia che MMXX non allenti la sua linea curatoriale in futuro.

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Luigi Zuccheri at MMXX Milan, 2020. Photo: DSL Studio.

Mauro Cerqueira e André Sousa hanno iniziato Uma Certa Falta de Coerência (Una certa mancanza di coerenza) nel 2008, a Porto, intitolando il progetto a un libro di Jimmie Durham che contiene un pamphlet politico che esorta gli artisti a schierarsi contro i ricchi e i governi: è una dichiarazione di intenti, che produce un metaspazio. Il programma ha incluso alcuni artisti attualmente affermati sia in Portogallo che all’estero, oltre a nomi provenienti dalla scena locale.

In un’intervista rilasciata a La Belle Revue, Cerqueira e Sousa spiegano il senso di appartenenza a Porto, in risposta a chi gli chiede di giustificare la loro scelta di soggiornare in una città che il mondo dell’arte considera provinciale. Anche se oggi sono molti gli artist-run-space, in effetti ciò che è veramente fa la differenza è la distribuzione del loro lavoro, che ora avviene online, e quindi al di là dei confini fisici e geografici.

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Merlin Carpenter, exhibition view Support Nightclub Experience Nightclub at Uma Certa Falta de Coerência,2013, courtesy Uma Certa Falta de Coerência.

Anche se Berlino potrebbe non essere più la capitale indiscussa dell’arte contemporanea europea, il numero degli artist-run-space nella capitale tedesca è schiacciante. Abbiamo scelto il Padiglionje Kreuzberg per il suo approccio ai temi del localismo, in un contesto altrimenti iper-internazionale. Lisa Schorm e Heiko Pfreundt hanno inaugurato il loro spazio nel 2011 e da allora si occupano del programma. Cercano di fare rete a livello translocale, dove “il livello translocale è inteso come l’intersezione dei vari quartieri in cui si trovano gli spazi di progetto”. Dicono che in una città come Berlino, così incline alla gentrificazione, “gli spazi di progetto e le iniziative degli artisti generano attenzione e possono apparire invasive”. Quindi è sempre bene che un certo gruppo del quartiere sappia di cosa si tratta, in modo da poter mediare con gli altri”.

Il Padiglione Kreuzberg riceve sovvenzioni pubbliche e la vendita di opere d’arte non è un’opzione per i suoi fondatori, che “non sono interessati alla logica del mercato dell’arte, ma all’esplorazione congiunta di un’economia artistica; il che significa non esporre più opere d’arte assicurate e non avviare più pratiche burocratiche con le gallerie commerciali, mettendo così in discussione la necessità stessa di opere d’arte complete”. C’è un interesse crescente per i contributi artistici che potrebbero cambiare all’interno della mostra, o scomparire completamente nel corso di una serata”. Continuano: “Molti spazi di progetto sono realizzati da persone che lavorano per gallerie, biennali e istituzioni collaterali, il cui programma si concentra su ciò che le loro normali attività escludono. Abbiamo quindi a che fare con molte persone professionalizzate che cercano di prendere le distanze dalle forme abituali di utilizzo dell’arte e che hanno conservato il piacere di suscitare irritazione”.

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THE INFINITE GAME at Kreuzberg Pavilion, a 23 hours live action role play reading group part of the exhibition MMXXI. 08.09.2018, 14.00 h – 09.09.2018 13.00 h; Hosting Players : Sam Beca, April Gertler, Natasja Loutchko, Alexander Norton, Acqua Traslucida, Vaida Stepanovaite; Characters by: Maya Ben David, Naomi Bisley, Olga Mikh Fedorova, Ed Fornieles, Isabella Fürnkäs, Else (Twin) Gabriel, Grete Gabriel, Hulda Ros Gudnadottir, Omsk Social Club, Tarren Johnson, Tom Kobialka, Farkhondeh Shahroudi. Set : Tracey Snelling Line Wobblers : Robin Baumgarten

Madli Ehasalu ha creato la Galleria Mihhail a Tallinn nel 2016 insieme al suo partner creativo, Sven Parker. Dopo aver trascorso un po’ di tempo ad Amsterdam, è tornata in Estonia con la motivazione di portare in patria l’attitudine artistica che aveva sperimentato nella capitale olandese. Le cianografie dei suoi progetti sembrano però lontane dall’Occidente. Ha detto di essersi ancorata “alla tradizione delle mostre negli appartamenti sovietici: mostre sotterranee, che lavoravano per minare l’ideologia comunista dell’epoca. La gente conosceva la loro esistenza solo grazie al passaparola”. E continua: “Man mano che il concetto si è evoluto fino a raggiungere la misura che volevamo, abbiamo organizzato quattro mostre collettive in appartamenti diversi. Siamo perciò una galleria di appartamenti nomadi”.

È interessante notare che il modello si allontana dal sostegno statale, che invece caratterizza gli artist-run-space nell’Europa occidentale. Non è tanto una questione di disponibilità, quanto di politica: “Le mie osservazioni preliminari mi suggeriscono di suddividere i motivi che ci portano ad organizzare le nostre mostre in ragioni: politiche, ideologiche, economiche e istituzionali. Ideologicamente presentiamo giovani artisti e consumatori d’arte che non sono sostenuti dall’ordine dominante – ovvero finanziamenti pubblici, reti d’interesse, giochi di potere. La nostra modalità di curatela si basa su quella di Kvartirnik, che ha avuto luogo a Mosca e a San Pietroburgo dalla fine degli anni Settanta e ha raggiunto il suo culmine alla metà degli anni Ottanta”. Per quanto riguarda la questione della portata locale in rapporto a quella internazionale, Ehasalu dice di non essere ancora attiva con il pubblico straniero e di non aver ancora preso in considerazione piattaforme di cambio internazionali come le fiere; ma potrebbe in futuro cambiare idea.

Stroboskop, a Varsavia, è stato fondato nel 2016 da Norbert Delman, Agnieszka Delman, Przemek Strozek, Franek Buchner e Jacek Słoniewski. Katie Zazenski si è unita al team nel gennaio 2018 e Martyna Stołpiec nel giugno 2019. Lo spazio è attualmente co-diretto da Stołpiec e Zazenski.

Lo spazio vuole offrire maggiore visibilità a posizioni non sufficientemente rappresentate nel dialogo nazionale. Eppure il network di Stoboskop è comunque già piuttosto internazionale: è una sorta di “identità divisa”, come dice Zazenski. Al momento il progetto è interamente autofinanziato, il che per gli organizzatori è ben lungi dall’essere un limite. Zazenski conferma che a Stroboskop si è diffidenti nei confronti di qualsiasi tipo di struttura che costringerebbe a diventare più rigidi. Conta invece la capacità di rimanere fluidi, che è quello che a Stroboskop ritengono essere l’aspetto più critico del loro lavoro e del loro ruolo dello spazio nella comunità locale.

Goswell Road, a Parigi, nasce da un’idea di Coralie Ruiz e Anthony Stephinson, che lavorano anche come duo artistico, con il nome di Ruiz Stephinson, e sono in qualche modo dei nuovi arrivati (da Londra) nella capitale francese. Lo spazio si trova nel loro studio, nel Decimo arrondissement. Il titolo della loro prima mostra, Fuck The System, è indicativo di una prospettiva che vuole stare al di fuori della scena consolidata. Goswell Road vuole essere un mezzo per raccontare storie alternative, introdurre artisti sconosciuti, esplorare il lavoro di creativi che non si considerano necessariamente artisti. I fondatori affermano che Goswell Road è una parte intrinseca della loro pratica, per molti versi un lavoro vivo, che come un corpo respira.

La loro identità curatoriale è particolarmente definita: “Nell’ultimo anno abbiamo indagato l’idea di archivio, e abbiamo presentato archivi in molte forme diverse. La prima mostra ‘d’archivio’ che abbiamo presentato è stata la “Chiesa di Eutanasia” di Chris Korda. Intesa come luogo di culto, la Chiesa era in realtà una religione riconosciuta negli Stati Uniti negli anni Novanta, avviata da un gruppo di sensibilizzazione sul clima. Abbiamo poi presentato l’archivio personale di Thomas Cap de Ville, un artista francese che ha trasformato i suoi archivi effimeri in libri fatti a mano, che comprendono di tutto, dai capelli umani ai prodotti farmaceutici, alle confezioni di dolci. Il suo approccio è feticistico. Questo archivio personale ha rappresentato per lui un cambiamento di vita che va dalla giovinezza all’età adulta. Abbiamo presentato diversi altri archivi, guardandoli da diverse angolazioni. L’archivio più recente ed esteso è stato quello di Richard Torry, una leggendaria figura di queer underground londinese, per lo più noto per aver fondato una band con Leigh Bowery negli anni Novanta. La sua pratica comprende tutto, dalla moda alla musica, alla performance. Il suo vero lavoro è la sua capacità di mettere in contatto le persone, e coltivare con pazienza e generosità il loro talento”. Nel complesso, ci sembra che le mostre concettuali di Goswell Road siano fortemente formulate. Sono uno sforzo intellettuale rigoroso che si trova tipicamente nelle grandi sedi d’arte. Dovrebbe essere una prova che la distanza dalle istituzioni non significa necessariamente anarchia.

Non tutti gli artist-run-space iniziano in questo modo. Il caso di Sgomento è speciale perché gli artisti – in questo caso Marco Pio Mucci e Matteo Pomati – sono partiti dall’editoria, con il fumetto d’artista. Dal 2017 Pio Mucci e Pomati chiedono agli ospiti di disegnare un fumetto, da copertina a copertina. Artisti con grande visibilità internazionale come Kaspar Müller e Camille Blatrix figurano tra gli invitati. Allo stesso tempo, l’iniziativa di Pio Mucci e Pomati ha assunto la forma di una piattaforma curatoriale itinerante, un’impresa artistica che ha attraversato luoghi come Parigi, Milano e San Francisco, collaborando con diverse personalità lungo la via.

A un certo punto gli artisti di Sgomento hanno deciso di stabilirsi a Zurigo, dove ora organizzano mostre in collaborazione diretta con l’ex direttore artistico di Mousse Magazine, Francesco Tenaglia. Nel settembre 2020 è stata inaugurata la prima mostra, dal titolo Caspar: una collettiva con opere di Susan Howe, Vera Lutz, David Horvitz, con un breve testo scritto da Trevis Jeppesen. La versatilità e la malleabilità di un progetto come Sgomento è indicativa, oggi, dell’artista come curatore, dove per curatore si intende il creatore di nodi, e l’autore di mostre sperimentali, piuttosto che il curatore di collezioni esistenti, portatore di intenti istituzionali. Per queste figure l’internazionalità è l’inizio e la fine di un credo. Nel mezzo c’è una dichiarazione d’intenti, presa dal loro Instagram: “Sgomento vuole creare una conversazione con la fiorente comunità artistica locale, organizzando mostre, presentazioni e altre iniziative”.

October 7, 2020