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CONCEPTUAL FINE ARTS

Alternative dalla periferia: Pierre-Olivier Rollin racconta il BPS22

Sonia d'Alto

Quali sono le migliori politiche culturali sviluppate in provincia? Un’intervista con Pierre-Olivier Rollin, direttore del BPS22 di Charleroi

Il BPS22 – acronimo di Bâtiment Provincial Solvay, n°22 boulevard Solvay – è il museo d’arte della provincia dell’Hainaut, in Belgio. È stato Inaugurato nel 2000, come spazio per la creazione contemporanea, ma è diventato un museo vero e proprio solo dal 2015. Il BPS22 è un caposaldo dell’attuale sviluppo culturale di Charleroi, ex polo produttivo dell’Europa occidentale, che oggi vanta quasi 200mila abitanti e un solido passato proletario. Sia la collezione del museo che le sue mostre temporanee vertono sulla specificità di quest’area geografica e sociologica, portando avanti una riflessione sulla natura stessa dell’edificio in cui il museo ha sede.

Installation view of Teresa Margolles’ Tu T’Alignes Ou On T’Aligne at BPS22. Courtesy of BPS22. Photography: Leslie Artamonow.

Il programma del BPS22 indaga la genealogia della sovversione: dal Surrealismo all’Internazionale Situazionista; dal movimento punk (belga), alle sottoculture più cosmopolite; dagli artisti locali a quelli internazionali, nell’orizzonte delle questioni politiche e sociali. Attraverso una conversazione con Pierre-Olivier Rollin, direttore e curatore del BPS22, proviamo a riflettere sui modi in cui le istituzioni possono fornire educazione critica e contribuire alla crescita sociale di un territorio. Interroghiamo dunque le possibilità di politiche alternative e (reali) utopie sociali, all’interno e al di là delle mostre e dei programmi specifici.

[In merito al ruolo sociale dei musei, qui il link alla nostra intervista con James Bradburne. Ed.]

Il suo approccio curatoriale pare essere orientato alla ricerca di modelli politici alternativi. A questo riguardo, è esemplare la mostra intitolata The Worlds Turned Upside Down, che nel 2015 ha inaugurato il museo BPS22. E lo stesso vale per le due mostre attualmente in calendario, dedicate alla femminista Margaret Harrison e al lavoro di Petr Davydtchenko. Potrebbe parlarcene?

Pierre-Olivier Rollin: The Worlds Turned Upside Down è stata la mostra di apertura del museo, inaugurata all’indomani della trasformazione dell’edificio. Il suo riferimento principale è un libro scritto dallo storico americano Christopher Hill intitolato The World Turned Upside Down: Radical Ideas During the English Revolution. Hill non si è concentrato sulle relazioni tra il re e il parlamento, ma ha guardato alla storia “dal basso”, occupandosi sopratutto dei modi in cui il popolo britannico vedeva la società in cui viveva e nutriva speranze per un futuro migliore. Il titolo del libro viene da una vecchia canzone di protesta inglese, che invoca un rovesciamento dell’ordine sociale: la fine della monarchia e l’avvento della democrazia.

Sulla scorta di uno scrittore come François Rabelais, sono partito dall’idea che la cultura popolare – considerata in senso proprio, piuttosto che come cultura “pop”, che in genere equivale alla cultura mainstream -, implica in tutte le sue manifestazioni una presa di potere simbolica da parte del popolo dominato. Suggerisce dunque che altri mondi, altre organizzazioni politiche o economiche, sono ancora possibili. Da questa prospettiva ho selezionato opere d’arte contemporanea che trattano di “altre” organizzazioni sociali e politiche.

Ho poi organizzato la mostra come si trattasse una festa popolare, piena di opere d’arte molto vicine tra loro, visto che uno dei tratti principali delle feste popolari è proprio l’idea di abbondanza. Di solito la cultura popolare esprime una mancanza – per esempio una mancanza di cibo, di rappresentazione, o di potere. Le feste popolari compensano simbolicamente queste mancanze durante uno spazio-tempo condensato, come appunto è quello di una mostra. Ecco perché, alla fine, pareva di visitare un enorme festival di proposte per “altri” mondi; era una specie di Temporary Autonomous Zone, come teorizzato da Hakim Bey.

Per quanto riguarda la mostra Perftoran, di Petr Davydtchenko, ho cercato di offrire un punto di vista critico sull’attuale pandemia. Ecco perché abbiamo adottato un allestimento essenziale, da “minimalismo politico”, per favorire una prospettiva razionale sull’attuale situazione – invece di parlarne dal punto di vista emotivo, visto che nelle situazioni emotive estreme è sempre difficile discutere con lucidità.

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Installation view of Petr Davydtchenko’s Perftoran at BPS22, 2021. Courtesy of BPS22.

Da un lato, per avvicinarsi alle realtà in cui viviamo, il BPS22 propone modelli “capovolti”. Dall’altro è pur vero che l’esperienza dell’arte proposta da un certo edificio non può essere separata dalla sua architettura. Perciò, come combina l’agenda del museo con il suo spazio ibrido, che da una parte ha un’anima industriale, ma dall’altra si presenta come il classico white cube?

Pierre-Olivier Rollin: Il BPS22 si trova in un vecchio edificio industriale costruito all’inizio del secolo scorso. Dal punto di vista museografico si è cercato di creare due spazi specifici che determinano due relazioni specifiche con l’arte. La prima ala è un white cube ispirato alla trilogia Timeless, Atopism e Asepsis di Brian O’Doherty; si tratta di una sorta di tempio modernista dedicato all’ideologia del capolavoro, sviluppato per suggerire un’esperienza comune dell’arte, che rimane uguale a sé stessa ovunque e in qualsiasi momento. L’altra ala è invece una sorta di cattedrale industriale fatta d’acciaio, vetro e cemento, rigorosamente orientata Est-Ovest. In questo spazio i contesti circolari che circondano l’edificio influenzano capillarmente la percezione delle opere d’arte attraverso l’edificio stesso. Il significato si diffonde attraverso le pareti. I muri e il suolo recano i segni delle attività passate, mostre incluse.

Fabrication of Erik Bulatov’s artwork at The Foundry.
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Erik Bulatov, ВСЕ НЕ ТАК СТРАШНО (Everything’s Not So Scary), 2016 at BPS22. Courtesy of BPS22. Photography: Donald Van Cardwell.

Charleroi ha una forte tradizione socialista. Come crede questa genealogia determini il futuro artistico della città, anche alla luce delle difficoltà in cui oggi versa la stessa produzione artistica? Ci riferiamo, per esempio, all’alleanza tra musei e istituzioni indipendenti che avete promosso collaborando con The Foundry, spazio e una comunità artistica diretta da Andrei Molodkin (a Maubourguet, in Francia). Puoi dirci di più a questo riguardo?

Pierre-Olivier Rollin: La collaborazione con a/political [l’organizzazione partner di Molodkin, ndr] è stata una grande opportunità. Si tratta di un’entità non profit con sede a Londra, sostenuta da fondi privati. Possiedono una collezione complementare alla nostra. Ecco perché ho deciso di invitare la direttrice, Becky Haghpanah-Shirwan, a curare una mostra a Charleroi nel 2019. Si intitolerà Us or Chaos.

Attraverso a/political ho anche riscoperto il lavoro di Andrei Molodkin e ho subito deciso di invitarlo al BPS22. Il progetto installativo è stato concepito in stretta relazione con quanto fatto da Molodkin per Rua Red, a Dublino. L’artista approfondisce con radicalità la censura operata dai gruppi di drill music in Gran Bretagna – la drill music è un’estensione violenta del rap. L’installazione, con sangue e video, in realtà offriva una sottile riflessione sulle nostre democrazie.

Molodkin mi ha poi fatto conoscere Erik Bulatov, che credo sia il pittore concettuale più radicale oggi sulla scena. Nato nel 1933, Bulatov ha attraversato il XX secolo, vivendo la seconda guerra mondiale, lo stalinismo e le democrazie europee dopo la caduta del muro di Berlino. Nonostante le sue diverse esperienze il suo modus operandi non è mai cambiato. Attraverso dipinti apparentemente molto semplici è stato in grado di formulare idee molto complesse sulla libertà e sull’oppressione.

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Installation view of La Colère de Ludd at BPS22. Courtesy of BPS22. Photography: Leslie Artamonow.

Dal nucleo originario, ereditato dalla Provincia dell’Hainaut, la collezione del BPS22 si è notevolmente ampliata attraverso l’acquisizione di numerosi documenti sull’arte visiva punk in Belgio, sulla produzione locale, e su artisti internazionali spesso in dialogo con la storia locale, come Kendell Geers per esempio. Può dirci del processo di acquisizione? Qual è il ruolo dell’educazione sociale nella collezione? Qual è il rapporto tra la collezione ereditata e il programma espositivo del museo?

Pierre-Olivier Rollin: Non abbiamo abbastanza spazio per esporre la collezione in modo permanente. Ma anche se lo avessimo non credo lo faremmo. Vediamo piuttosto la collezione come un materiale di partenza. Qualche anno fa ho curato una mostra di opere della collezione. Si è intitolata Uchrony. Voleva essere un modo per raccontare un’altra storia dell’arte, con altre classificazioni: Black Sun, Neo Gothic, Political Mythologies, ecc. Di recentemente Dorothée Duvivier, una mia collaboratrice, ha curato una mostra con le acquisizioni più recenti intitolata Ludd’s Anger. Così ha esplorato l’idea di espropriazione delle classi sociali più basse. Cerchiamo di costruire la collezione con lo stesso spirito: ci interessano quelle opere d’arte che affrontano le questioni globali da un punto di vista specifico e contestualizzato. Mi ispiro al concetto di creolizzazione espresso da Edouard Glissant, perché chiarisce come resistere alla globalizzazione internazionale evitando la ristrettezza identitaria locale. Per esempio, i documenti punk belgi sono stati un’opportunità per sviluppare una sorta di nuova storia dell’arte, ispirata in questo caso da Lipstick Traces di Greil Marcus.

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Installation view of Latifa Echakhch’s The Sun and the Set at BPS22, 2020. Courtesy of BPS22. Photography: Leslie Artamonow.

La ristrutturazione dell’edificio come “fabbricazione di uno strumento” (nel 2014), così come le mostre intese come dispositivo pedagogico e critico per la produzione di conoscenza: questa sembra essere l’agenda trainante di un museo che mira allo sviluppo social-democratico. In questa cornice, come si collocano mostre come Us or Chaos (2018-19) e la recente personale dedicata a Latifa Echakhch?

Pierre-Olivier Rollin: Il nostro programma si concentra su artisti che si occupano di questioni globali attuali, con un’attenzione specifica alle loro applicazioni locali. Come dicevo, Us or chaos è stata anche un’opportunità per esplorare il doppio tema dell’ordine e del caos, così come il modo in cui a essi reagiamo. Ispirata dalla replica di un poliziotto antisommossa a un membro del collettivo di artisti spagnoli chiamato Democracia, la mostra ha dato uno sguardo alle tecniche di controllo e alle strategie di resistenza, ai tentativi di ordinare il caos, alle tendenze a sfidare l’ordine prevalente. The Sun and the Set, curata da Dorothée Duvivier, è stata un’occasione per riflettere sulla trasformazione della città di Charleroi attraverso le opere di Latifa Echakhch, un’artista affascinata dagli stati intermedi delle cose: tra creazione e distruzione, e la loro memoria. L’artista si è ispirata a una vecchia fabbrica di Charleroi, significativamente chiamata La Providence, una fabbrica ancora in fase di smantellamento che ha ispirato anche la mostra di Teresa Margolles del 2019.

Durante i suoi studi ha fatto ricerche sulle subculture e sull’arte africana. In che modo queste hanno influenzato i suoi interessi attuali? Come si combinano con il contesto di Charleroi?

Pierre-Olivier Rollin: Mi sono interessato all’arte contemporanea africana fin dagli anni ’90. In qeul periodo ho incontrato Fernando Alvim, Simon Njami e il collezionista tedesco Hans Bogatzke, uno dei primi ad acquisire opere di artisti africani contemporanei come William Kentridge, Pascale Marthine Tayou, Ingrid Mwangi, Kendell Geers, Berni Searle o Olu Oguibé. All’inizio degli anni 2000, nell’ambito di un grande progetto internazionale chiamato Next Flag. Reexistencia cultural generalizada, al BPS22 è stata offerta la possibilità di presentare la collezione di Bogatzke.

In retrospettiva, riconduco il mio interesse per gli artisti africani all’interesse più ampio per le forme di creazione prodotte da quelle che chiamo “persone invisibili”, ovvero le comunità meno presenti nel mondo dell’arte. Per esempio, nel 2008, quando il BPS22 è stato invitato a partecipare all’unica edizione della Biennale di Bruxelles, ho proposto l’artista marocchino Mounir Fatmi. La sua partecipazione è stata un’occasione per riflettere sulle cause e sulle conseguenze dell’invisibilità delle minoranze sulla scena artistica belga. Le minoranze erano presenti nello sport, nella politica, ma non nel mondo della cultura – tranne eccezioni come Charif Benhelima o Sidi Larbi Cherkaoui. Volevo riflettere sulle ragioni di questa lacuna.

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Installation view of Us or Chaos at BPS22, 2018. Courtesy of BPS22.

Collaborazioni, trasformazioni della produzione artistica, de-centralizzazione, programmi educativi e pratiche orientate al sociale sono modalità sempre più urgenti nel contesto dell’arte, diventate ancor più evidenti dopo la pandemia. Ritiene che l’approccio del BPS22 possa fiorire in altri contesti? Che tipo di cambiamento prevede per le istituzioni artistiche?

Pierre-Olivier Rollin: Il “formato festival”, cioè la presenza di gran numero di persone per un breve periodo di tempo in uno spazio limitato – un formato reso popolare dalle fiere d’arte, dalle giornate professionali delle biennali, o anche dagli opening delle agenzie più piccole del settore – è stato messo in pericolo dalla pandemia. Impossibile dire come sopravviverà, o come si trasformerà. Per le istituzioni periferiche, quelle che lavorano con budget finanziari più ridotti, le cose non cambieranno molto. La loro importanza potrebbe addirittura crescere. Similente a un’istituzione non profit come The Foundry, il BPS22 sta sviluppando un modello artistico basato su un’economia circolare e locale. Si vuole favorire una produzione locale e sostenibile, con gli artisti, piuttosto che con i trasporti, che sono costosi e catastrofici per l’ambiente. L’economia circolare sarà una delle nostre strade per il futuro.

May 17, 2021