loading...
CONCEPTUAL FINE ARTS

Quel soffio di vento che ci cambia la sorte

Silvia Tomasi

Secoli di arte hanno messo in rapporto il vento con il caos che governa i nostri destini

Il vento sferza già nelle parole di Esiodo. “Mese di Leneone le giornate son tutte cattive, da scorticar buoi; da quello guardati, e dalle gelate che sulla terra vengon, moleste, coi soffi di Borea; Borea, attraverso la Tracia che nutre cavalli, sul vasto mare soffia, e lo fa sollevare; gemono la terra e le selve; […] le fiere tremano, e la coda si mettono fra le vergogne, anche quelle che hanno la pelle coperta di lana”, così descriveva il mese di Gennaio ne Le opere e i Giorni il poeta greco nato nella seconda metà del VIII secolo a. C. E ci offriva un pratico suggerimento: “Allora, io ti consiglio, indossa, a riparo del corpo, un mantello morbido e una lunga camicia su trama larga con molto filo tessuta, e in quelli avvolgiti bene, perché non ti tremino i peli e dritti sul corpo non ti si levino irsuti”. Ma con il vento si sono cimentati per secoli anche gli artisti, dalla Mantova del Cinquecento fino alle libecciate dei dipinti parigini della Belle Époque e oltre. Gli artisti non ci hanno consigliato metodi per ripararci da ventacci e correnti fredde, hanno invece lasciato, a noi che guardiamo, più di un interrogativo sul valore simbolico di queste improvvise brezze. Qualcosa che ha molto a che fare con la sorte, le stelle, il destino e la potenza del caos.

Atene - il vento Scirone
Atene – Tower of the Winds – Fregio raffigurante il vento Scirone, realizzato probabilmente da Andronico di Cirro nel 50 a.C. Ca.

Il vento che cambia il destino

A Mantova, per esempio, la Camera dei Venti di Palazzo Te è stata progettata fra il 1527-28 da Giulio Romano. Niccolò da Milano è stato il probabile creatore degli stucchi. La camera prende il nome dai volti personificati dei venti che soffiano nella parte bassa della volta: grossi faccioni dalle gote rigonfie che spirano, sbuffando a tutta forza. Ma cosa ci fa tutto questo soffiare in una stanza il cui tema centrale è in realtà lo Zodiaco? L’influsso delle stelle sui destini dell’uomo trova riscontro nell’iscrizione da Giovenale sulla porta della parete sud: “Distat Enim Qvae Sydera Te Excipiant” (Dipende infatti quali stelle ti ricevano [quando nasci]). Il programma iconologico della Camera si fonda su antichi testi di astrologia/astronomia che godono della massima autorità negli ambienti umanistici dell’epoca, come gli Astronomica di Manilio e il De rerum natura di Lucrezio. Ma i venti di Palazzo Te scompigliano i destini, infrangono la predestinazione voluta dalle stelle, dallo zodiaco, basta un soffio di vento e si scompigliano le sorti umane.

Giulio Romano - vento - sala dei giganti
Giulio Romano and Rinaldo Mantovano, Fresco decoration of the Sala dei Giganti in Palazzo Te in Mantua, 1532 – 35, detail of the “Four Winds” in the “Fall of the Giants”

È nella Sala dei Giganti, sempre di Palazzo Te, realizzata fra il 1532-1535, che i cataclismi prodotti da turbini e uragani travolgono la barbuta genìa dei Giganti per una nuova ricostruzione del cosmo guidato da Giove e dagli eterni dèi, evidente metafora dell’illuminato potere gonzaghesco. L’arte di Giulio Romano è una vera potenza e non mira più alla verità di una rappresentazione: la mente dell’artista crea catastrofi come le penserebbe la mente di Dio. E allora si negano i limiti architettonici della sala, smussando angoli e pareti , creando potenti effetti illusionistici. Perfino il pavimento, costruito con ciottoli di fiume (ora questo acciottolato non esiste più) sembrava entrare nel dipinto, creando un vortice di instabilità e inquietudine. Qui tutto è gigantesco. Persone nascoste simulavano l’effetto della caduta dei massi, e chi entrava si trovava inerme e lillipuziano nell’occhio di un ciclone. “Né si pensi mai uomo vedere di pennello cosa alcuna più orribile o spaventosa, né più naturale” scrive Giorgio Vasari nelle Vite. “Perché chi vi si trova dentro, veggendo le finestre torcere, i monti e gli edifici cadere insieme ai Giganti, dubita che essi e gli edifizi non gli ruinino addosso”.

Vento dettaglio
Giulio Romano – Fresco decoration in the Sala dei Giganti in Palazzo Te in Mantua, 1532 – 35, Sala dei Giganti, detail of the “wind”
PAlazzo. te -Giganti-Parete-Nord
Giulio Romano, fresco decoration of the Sala dei Giganti, 1532 – 35, Palazzo Te, Mantua

[Leggi anche il nostro approfondimento sugli oggetti da tavola disegnati da Giulio Romano, ndr]

Il vento che soffia in miniatura

È la pantografia di un violento match, quello della Sala dei giganti, ma il vento mantiene la sua potenza anche nella misura minima della miniatura. Raffigurazioni dei venti si ritrovano nelle miniature di Libri d’Ore del Quattrocento, anche con una iconografia abbastanza desueta. Il giovane suonatore di doppio corno nel Libro d’ore illustrato da Michelino da Besozzo è il Marcius cornator, una figura legata al mese di marzo, di natura per metà umana e per metà demoniaca, dalla veste corta e dalla chioma arruffata. Se inizialmente il legame del Marcius Cornator era stretto con Marte, a cui il mese di marzo era dedicato, il rimando alla tuba della sfera guerresca si estingue presto: il corno e i capelli spettinati diventano un’allusione ai venti che caratterizzano il mese di marzo: il Marcius cornator si trasforma in araldo della stagione primaverile e dei suoi venti che rendono così volubile il tempo.

Colori smaglianti come quelli di uno smalto, un corpo possente da atleta, un Marcell Jacobs lanciato in corsa: questo è Eolo, un Dio azzurro in una miniatura dell’Antifonario di Liberale da Verona, piccolo monumento di fine Quattrocento nello spazio di un capolettera. Non gli servono i remi, a Eolo, per far volare l’arca su cui poggia il suo piede in corsa; gli bastano i polmoni e i capelli a ruota di pavone, che prendono il vento in poppa mentre una lunga clamide si arrotola a forma di turbine. Forse i gorghi d’aria di questa corsa azzurra sono quelli che dopo secoli si trovano quasi in una anacronistica contemporaneità nella Notte stellata dipinta da van Gogh nel 1889, dove nulla è calmo e pacato, tutto è inquietudine e i mulinelli creati dal vento sembrano inghiottirci.

liberale-da-verona_eolo
Liberale da Verona – Illuminated initial with “Aeolus”, post 1468, Antiphonary, parchment codex Siena, Opera della Metropolitana, Duomo, Piccolomini Library

[Leggi il nostro approfondimento sulle migliori librerie antiquarie, ndr]

Il vento dell’invidia

In uno degli episodi dell’Odissea, Ulisse approda sull’isola di Eolia, dopo la fuga da Polifemo e dalla sua fastidiosa abitudine di pasteggiare con carne umana. Eolo, dio dei venti e re dell’isola, offre ospitalità ai fuggiaschi. L’ultimo giorno della loro permanenza, commosso dai racconti di Ulisse, gli dona un otre dove sono racchiusi tutti i venti avversi alla navigazione verso Itaca e gli intima di non aprirlo mai. Solo il gentile Zefiro soffia e spinge la nave verso la patria. Ma, come si sa, “la calunnia è un venticello” (così canta Don Basilio nel Barbiere di Siviglia di Rossini), che ben presto si tramuta in “un tremuoto e un temporale. Un tumulto generale che fa l’aria rimbombar”, perché i compagni di Ulisse, invidiosi di quell’otre donatogli da Eolo, pensano che lì dentro sia stipato un tesoro e sturano il tappo; i venti deflagrano all’esterno facendo naufragare tutte le navi di Ulisse e solo la sua si salverà.

Isaac Moillon, pittore del Re Sole, raffigura un grave Re Eolo che consegna l’otre dei venti a Ulisse. La tavolozza dei colori è quella acida di Pontormo: arancio, corallo, azzurro. Il vento c’è, smuove il mantello del re, i capelli di Odisseo e del suo compagno alle spalle. Se lo sguardo si posa nella parte inferiore dell’opera, si prova un senso di giramento di testa. In primo piano c’è la nave di Odisseo in partenza, è in posizione obliqua e impennata, con tanto di dolce e mefitica Sirena come polena: si crea una linea a onda, ripresa dalla postura in obliquo delle gambe avvolte in rosso della dama in primo piano, con tanto di rotonda poppa scoperta. Tutto si muove in un presagio del futuro orribile gorgo.

Isaac_Moillon_-_Éole_donnant_les_vents_à_Ulysse 1650
Isaac Moillon (1614 – 1673), “Éole donnant les vents à Ulysse”, ca 1650; drawing for upholstery – Musée de Tessé-Cenomanum – Le Mans, France

Nel Parco Reale della Reggia di Caserta, fra gli zampilli di una cascata a velo che scende nell’alveo ad esedra di un’immensa fontana, si aprono delle cavità: sono le dimore dei venti. Siamo nel regno di Eolo, protagonista in questo caso di un episodio dell’Eneide in cui Giunone chiede l’intervento tempestoso del dio dei venti per proibire a Enea di sbarcare sui lidi d’Italia. Tutto inutile, naturalmente. Il profugo Enea sbarcherà, il futuro di Roma lo attende. Forse è per questo che alla grandiosa fontana progettata da Vanvitelli alla metà del ‘700 e mai terminata (54 le sculture previste, di cui solo 28 realizzate) mancano proprio le immagini di Eolo e Giunone, gli oppositori di Enea, mentre emerge dalle acque un poker di copie di Zefiro, il vento gentile, con le alucce delicate, dalla grazia seduttiva tardo rococò: un venticello sempre posto elegantemente fra l’incrocio di due delfini, nelle sculture di Salomone, Persico, Violani e Solari. Certo lo Zefiro più iconico è quello abbracciato ad Aura, mentre spira una brezza di fiori per sospingere delicatamente sulle acque la conchiglia fra le cui valve naviga come su un windsurf la dea dell’Amore, l’incantata Venere di Botticelli. Pittura eterea, sensuale, tersissima. La coppia di dolci venti vola morbidamente allacciata, ed è una citazione da un’opera antica, una gemma di età ellenistica posseduta da Lorenzo il Magnifico. Il vento della classicità soffia e modella il Rinascimento.

Vanvitelli -reggia-di-caserta-fontana-di-eolo
Royal Palace of Caserta, cycle of sculptures decorating the Aeolus fountain (detail) based on a project by Luigi Vanvitelli, 18th century.

Il vento soffiato da Dio

Che cosa succede alle rappresentazioni del vento quando esso incontra le questioni teologiche cristiane? Il vento diventa l’esperienza dell’ineffabile. L’animus dei latini ha la fragranza dell’aria, proviene dell’ ἄνεμος greco, soffio, vento, principio di vita. Nella Bibbia è Dio che sveglia alla vita Adamo con il soffio vitale e il vento rappresenta l’azione divina non solo sull’uomo ma sull’origine stessa dell’universo, raccontata con staffilate ventose e lapidarie nella Genesi. Elohim (Dio) impartisce una successione di comandi efficienti. La volontà divina cresce, prende forza, si gonfia in tifoni e tornadi per dividere terra e acque e cieli. Il vento tira pure nella Cappella Sistina. In un grandioso effetto slow motion Michelangelo genera sulla volta vaticana i successivi “fotogrammi” della nascita dell’universo fra l’aspro ribollire di cieli e nembi. Spalancando vigorosamente le braccia, l’Onnipotente punta l’indice, quasi rimbomba un I want you (come nel manifesto di James Montgomery Flagg) e il sole esce dai foschi turbinii che si allontanano scacciati dalla sinistra di Dio. Ma l’Onnipotente ha fretta e si scosta per procedere alla creazione di altri mondi e nuove galassie. I giorni sono pochi per concludere l’impresa e un vento d’azione lo anima, così forte che la sua veste rosa iridescente si solleva e Dio è costretto a trattenerla, mentre appaiono snudate le sue terga.

Michelangelo,_Creation_of_the_Sun,_Moon,_and_Plants
Michelangelo Buonarroti, “Creation of the Sun, Moon and plants” fresco, about 1511-1512; decoration of the vault of the Sistine Chapel, Vatican Museums, Rome

The Ancient of Days di William Blake è un’incisione acquarellata originariamente pubblicata come frontespizio di Europe a Prophecy del 1794. È la rappresentazione del Dio Architetto o Urizen, termine coniato dallo stesso Blake, il Dio creatore veterotestamentario. La figura è accosciata, nuda in una difficile posa, con una gamba totalmente piegata; è come se il corpo uscisse di sforzo da un tunnel del vento così luminoso da sembrare il sole. Allunga il braccio verso il basso, l’Onnipotente, dove regnano il buio e il vuoto. Spunta dalla sua mano un enorme luminoso compasso, come le cesoie dell’Edward Scissorhands di Tim Burton . Il suo viso guarda verso il basso mentre un forte vento soffia sui suoi lunghi capelli e sulla barba. Il corpo è scosso dallo pneuma della creazione da far paura, e Dio mette ordine nel caos nebuloso dell’universo: solo a lui riesce la quadratura del cerchio. Sull’onda dell’ispirazione creativa, anche il Padre dei cieli e della terra e di tutti gli animali, realizzato da Tintoretto fra il 1550 e il 1553, è preso da un tale vigore dinamico che insuffla vita correndo nel vento. Avvolto nell’aura divina, Dio sembra un centometrista che prenda la spinta da un albero come blocco di partenza per la sua Creazione degli animali e per via di questa velocità diventa innovativo il taglio che si potrebbe dire fotografico di Tintoretto, infatti dell’unicorno e del bovino nell’opera ci sono soltanto solo le teste.

Jacopo_tintoretto,_creazione_degli_animali,_01
Jacopo Tintoretto – “The creation of animals”, 1550 and 1553, oil on canvas, 151 × 256 cm – Gallerie dell’Accademia, Venice

[Leggi anche “Al Met con Silvio Wolf, da Tintoretto a Baselitz“, ndr]

Il vento della Belle Époque

Certo è un brusco transito passare dai venti della metafisica a quelli intriganti, impudichi che scompigliano, sgusciano fra le vesti della fanciulle in fiore sui Boulevard parigini della Belle Époque. Ma che elettrico frisson procura il vento di Parigi alle Mademoiselles che passeggiano lungo la Senna: una divina seduzione. Jean Béraud, artista francese, è un maestro nell’effigiare le maliziose parigine. Le ritrae mentre, appena chinate, si riparano dietro l’ombrellino per evitare la sventagliata. Il corpo si flette leggermente, spingendo in su quel lato b già accentuato dalla mezza gabbia a stecche di balena della gonna o dall’imbottitura, detta molto appropriatamente “cul de Paris”. Il vento bricconcello s’infila tra le pieghe della gonna e lascia intravedere le crinoline della biancheria, la caviglia a lama di spada. Acume e ironia guidano il pennello di Béraud che fu anche il testimone del duello di Proust contro Jean Lorrain nel 1897 a causa di un articolo giudicato ingiurioso su Les Plaisirs et les Jours.

Jean-Beraud
Jean Beraud, “A Windy Day on the Pont des Arts”, oil on canvas, 80s of the 19th century; Metropolitan Museum of Art, New York

«Blow, winds, and crack your cheeks! rage! blow!»

«Soffiate, venti, da scoppiarvi le gote, infuriate, soffiate!»

(Shakespeare – Re Lear; Atto III scena II)

Vento d’Ottocento

Millet con la sua Raffica di Vento del 1873, Monet con i suoi Effetti di vento della serie del 1891 dedicata ai Pioppi, dopo quella dei Covoni e subito prima delle Cattedrali di Rouen, Fattori e la sua Libecciata del 1895 e poi Valloton con Vento del 1910 e Chaime Soutine Giorno di vento a Auxerre del 1939: questa è la natura spazzata dal vento, senza reconditi doppio fini. E se l’albero di Millet, realizzato con pennellate dense, resiste piegato, aggrappato ancora con una radice prima di essere divelto, ed è il protagonista eroico di un sentimento grandioso della natura, i pioppi di Monet dipinti sotto gli effetti del vento stanno dicendo che la realtà è più vera se dipinta con un margine di casualità, per cui niente cavalletto, niente posa! Monet li riprende, anzi impressiona la tela, seduto su una barchetta nella palude di Limetz, sulla riva sinistra dell’Epte, a nord di Giverny; ne nascono immagini cangianti, dall’effetto mosso, sgranato, spesso fuori quadro. Monet ha mantenuto in primo piano solo tre pioppi, accentuando la diagonale dei secondi, e questi tre si elevano su su, verticali, scossi dalle raffiche in una subitanea brillantezza di azzurri verdi.

Chaime soutine
Chaime Soutine, “Windy day in Auxerre”, oli on canvas, 1939, Phillips Collection Art Gallery Washington DC

È invece l’orizzontalità la misura scelta da Fattori nella sua Libecciata: la linea del lungomare toscano. Una tripartizione in fasce orizzontali di colore accentua questo senso di lunghezza su cui corre il vento. Rapide spatolate di biacca quasi solidificate rendono la spuma sulle creste scure dei marosi, al centro c’è la gran macchia scura piegata delle tamerici scosse dalle raffiche di vento, alternata con le chiare crete e i secchi verdi della terra. Dietro, i grigio-azzurri e le tonalità liquide dorate spazzati nel cielo. Qui non c’è disegno, tutta la natura, gli effetti del vento, vengono creati dagli spiazzanti effetti di luce nati dalle gradazioni delle ombre, tutto attraverso macchie essenziali. Che sinuosa eleganza giapponese hanno poi i tronchi flessi e mobili come giunchi che si piegano nel Vento di Felix Valloton, il loro caldo color castano e il grigio-perla del cielo esaltano tutta la gamma dei verdi della vegetazione, ma è il paesaggio sconvolto, verde acido di Soutine a trascinare inesorabilmente dentro il suo quadro. L’artista ci fa sentire le frustate del vento, tutto ribolle e fa ricordare il “Tutto danza intorno a me come in un paesaggio di Soutine”, motto di spirito sull’ubriachezza pronunciato da Modigliani, amico e compagno di bevute de pittore.

Fattori-La-libecciata
Giovanni Fattori, “La libecciata”. Oil on panel, 1880 – 1885; 28 x 68 cm – Pitti Palace Modern Art Gallery, Florence

Vento futurista

Con Umberto Boccioni si entra nel vortice della modernità: anziché smembrare e moltiplicare le forme come i cubisti, il futurista sintetizza l’anatomia dello spazio in una turbinosa fusione di corpi e oggetti. Lo spazio della città moderna – con le sue ciminiere, impalcature, gli uomini e i cavalli- viene impastato esasperatamente nel terremoto aerodinamico della sua Città che sale del 1911. Le masse si deformano sotto la spinta delle correnti atmosferiche. Si modifica il mito del vento, non più divinità come Eolo, Borea o Zefiro, non forza atmosferica romantica o impressionista, ma pulsazione, fibrillazione della modernità. Tutto diventa onda di movimento, rapina di vento, e le figure sul treno che parte in Quelli che vanno del 1911 sono solo linee oblique, sventagliate di adrenalina, che saettano nella tela. Quelli che vanno, sembra dirci Boccioni, vanno sempre, sono proiettati in avanti, trascinati dal vento, sono presente e già futuro.

Umberto Boccioni La città che sale 1910 MoMa NY
Umberto Boccioni, “The rising city”, 1910 – 1911 – oil on canvas, 199.3 x 301 cm – MoMa, New York

Vento e passione

Imperturbabile nei secoli , quasi una contraddizione parlando di vento, il sentimento dell’amore dall’antichità alla modernità è raffigurato dal vento: serpente indomabile in Saffo, soffio leggero nella tormenta nel canto dantesco di Paolo e Francesca, raffica che s’incolla alla veste e modula l’immagine della donna in Vento e Bandiere di Montale. Nelle pennellate furiose della Sposa del vento (1914), di Oskar Kokoschka, tutto è vento, tempesta, e tutto si muove senza più distinzione fra soggetto e oggetto. Travolto dal fallimento amoroso con Alma Mahler – nelle cui spire di portentosa musa e stritolante seduttrice caddero tanti magni spiriti fine secolari da Gropius a Nietzsche, da Berg a Werfel- l’artista austriaco si raffigura con lei, bellissima vampira d’amore in un occhio di ciclone, caos calmo, mentre intorno ai loro corpi si stritolano nubi a cumuli, onde in burrasca sempre più forti, nei colori bui dei blu e acciaio della tempesta. Per dar tregua a questo vento Kokoschka farà dare un corpo pacato ad un’Alma sostituta, sarà una creatura reale eppure irreale, morta senz’anima eppure spirito vivente: una grottesca bambola di pezza che l’artista porterà sempre con sé , in pubblico e a teatro, lo statico fantasma di un vento di passione morto, che non soffia più.

September 3, 2021